domenica 29 novembre 2009

Walden di Henry D. Thoreau


"Quando scrissi le pagine che seguono – o meglio la maggior parte di esse – vivevo da solo, nei boschi, a un migliaio di distanza dal più prossimo vicino, in una casa che m’ero costruito da me sulle rive del lago Walden, a Concord, Massachussetts; mi guadagnavo da vivere con il solo lavoro delle mie mano. Vissì colà per due anni e due mesi. Attualmente sono ritornato nel consorzio civile."

Il libro è diviso in 18 capitoli, alcuni molto descrittivi e analitici. Mi sono concentrato con più attenzione suk capitolo Economia.
Forse il titolo riprende anche il significato etimologico della parola (da oikos, casa), perchè in fondo Thoreau inizia con la costruzione della sua capanna. Ma è anche una critica all'economia in generale:
"Ho girato molto qui, a Concord; e dovunque, in botteghe, uffici, campi, la gente mi parve condannata a soffrire in mille maniere cospicue".

Quindi l'economia per le persone è sinonimo di infelicità, di condanna, quasi di autoschiavitù, come per i contadini, in particolare, che T. osserva nelle campagne di Concord.

"Perché [i coltivatori] dovrebbero dar fondo ai loro sessanta acri quando l'uomo è condannato a consumare solo il suo pugno di polvere? Perché dovrebbero cominciare a scavarsi la fossa appena venuti al mondo?"

L'uomo che lavora e accumula più del necessario è un infelice, un condannato da se stesso: "anime immortali", cioè piene, ricche di possibilità, "schiacciate e soffocate sotto il loro carico"

"In effetti, un uomo che lavori duramente non ha abbastanza tempo per conservare giorno per giorno la propria vera integrità: non può permettersi di mantenete con gli altri uomini i più nobili rapporti, perché il suo lavoro sarebbe deprezzato sul mercato: ha tempo solo per essere una macchina".

E' una critica radicale all'economia che soffoca l'uomo e quasi lo annulla, in nome di una continua accumulazione materiale, che però comporta un unaridimento dello sviluppo spirituale.

"Le qualità migliori della natura umana, come i fiori in boccio, si possono conservare solo avendone la massima cura"

Invece, spesso, dando importanza a cose che non ne hanno, siamo noi ad "essere negrieri" di noi stessi. Ma la liberazione, per T. dipende da noi: è in noi che dobbiamo trovare la forza per iniziare la nostra strada (che non è necessariamente quella indicata da T.: lui non vuole presentarsi come un modello). Per trovare la nostra strada dobbiamo uscire dagli stereotipi, sgombrare il campo dalle abitudini.

"La maggioranza degli uomini vive in quieta disperazione"

Proprio perché "quieta" (cioè immobile, morta) è una disperazione rafforzata, "stereotipa, ma inconscia". Quindi difficile da vincere e da superare. Tuttavia:
"Non è mai troppo tardi per rinunciare ai nostri pregiudizi. Non possiamo accettare nessuna maniera di pensare e di agire - per quanto antica essa sia - senza averla precedentemente sperimentata. Ciò che tutti oggi accettano per vero apertamente e senza discutere, può apparire falso domani, puro vapore di opinioni, che qualcuno aveva creduto fosse una nube che avrebbe portato piogia benefica sui suoi campi."

E' una visione veramente rivoluzionaria della vita. Si riparte sempre da zero, non sovraccaricati di pensieri altrui e dal passato. C'è molto di americano in questo: la visione di un nuovo inizio, della conquista di una nuova frontiera, senza il peso della storia tipico della "vecchia Europa".
Ed i vecchi non sono più saggi dei giovani, anzi "le loro esperienze personali sono state parziali, e la loro vita è stata un susseguirsi di sfortunati fallimenti". Non dobbiamo far conto sui vecchi, ma partire da noi stessi in modo originale.
Quindi una posizione anti autoritaria e aperta ad ogni possibilità, perché "le stelle sono vertici di chissà quali meravigliosi triangoli".
Non c'è solo bianco o nero nella vita, ci sono molte possibilità e siamo noi che dobbiamo capire qual'è la nostra strada.

"La maggior parte di ciò che i miei concittadini stimano "buono", io credo con tutta l'anima che sia invece cattivo" (Autonomia!)

"Una generazione abbandona le imprese delle generazioni precedenti come si abbandonano le navi spinte a secco dalle tempeste"
"Diciamo che il nostro è l0unico modo di vita: ma ve ne sono tanti altri! - tanti quanto i raggi che in un cerchio possono essere tracciati al centro. Ogni mutamento è un miracolo da contemplare: è un miracolo che s'avvera ad ogni istante..."

E' bellissimo questo ottimismo, questa apertura al futuro, questo entusiasmo pe la capacità di rinnovarsi, di cui la Natura è maestra.
In fondo, per quanto riguarda gli uomini, oche cose sono necessarie veramente: Cibo, Tetto, Vestiario, Fuoco, più alcuni strumenti (coltello, accetta, badile, carriola, ecc.), che non sono costosi. T. inizia ad analizzare in questa parte le necessità essenziali, invitandoci a, o meglio suggerendoci una vita sobria, semplice, ma che favorisca l'elevazione morale dell'uomo.

"Molti lussi e molte delle cosiddette comodità della vita sono non solo inutili, ma addirittura effetivi intralci alla elevazione morale dell'uomo".

La filosofia come guida alla vita:

"Al giorno d'oggi vi sono professori di filosofia ma non filosofi. E tuttavia insegnare è ammirevole quanto, un tempo, fu ammirevole vivere. Essere filosofi non significa soltanto avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. Significa risolvere i problemi della vita non solo teoricamente, ma praticamente"

Una filosofia che porti ad una vita semplice, contraria al lusso "che snerva e distrugge le nazioni e i costumi".

Ma a chi si rivolge T.? Non vuole essere un modello e dice chiaramente a chi intende parlare:

"Io non intendo fissare precetti per le nature forti e valorose che sanno badare ai propri affari sia in cielo che all'inferno ... né intendo fissare regole di vita per coloro che trovano incoraggiamento e ispirazione proprio nel presente stato di cose, che essi amano con l'amore e l'entusiasmo di amanti ... né ... a quelli che hanno un buon impiego ... Parlo soprattutto alle masse degli scontenti che si lamentano passivamente della durezza della loro sorte o dei tempi, quando potrebbero tentare di migliorarli ... ci sono certuni che i dolgono più profondamente e sconsolatamente degli altri poiché dicono che stanno facendo proprio il loro dovere. Intendo anche parlare a quelli che sono ricch in apparenza ma in effetti sono invece i più poveri di tutti, in quanto hanno accumulato scorie di cui non sanno che uso fare o come liberarsi, e così si sono costruiti con le loro stesse mani catene d'oro e d'argento".

T, non si rivolge a chi è appagato dallo stato in cui vive, ma a chi si lamenta, ma rimane inerte e a chi si è auto imprigionato nella gabbia che si è costruito. Ma l'invito è quello ad una liberazione, ad una rivoluzione interiore, senza tuttavia proporsi come modello. T. dice: io ho fatto così, ho sentito il bisogno di fare questa casa e di vivere tra i boschi, ma sta a voi trovare la vostra strada, purché sia una scelta autentica.

"In ogni stagione, e a qualunque ora del giorno e della notte, è sempre stata mia cura migliorare quanto più potessi l'attimo in cui mi trovavo a vivere, e fermarlo per vivere nel punto d'incontro di due eternità, il passato e il futuro, vale a dire nel presente; e attenermi fedelmente ad esso"

Un vero invito al "carpe diem" degli stoici.

"Per lungo tempo fui reporter di un giornale di non molto larga tiratura, il cui direttore non s'è ancora deciso a pubblicare la maggior parte dei miei articoli... Fatica che in questo caso fu poi l'unica ricompensa che ne ebbi".

T. è un reporte della natura, le notizie in Walden sono i suoni del bosco, le increspature del lago, la vita degli animali, il trascorrere delle stagioni, la neve, il vento, la pioggia. E scrive disinteressatamente, per la gioia di scrivere: questa è la vera ricompensa.

Sul vestiario:

"... noi siamo forse spinti a procurarcelo più spesso dall'amore della novità e dal ruspetto per l'opinione altrui che da necessità effettive" "Noi conosciamo pochissimi uomini, ma una quantità innumerevole di giacche e calzoni"

T, mette in contrapposizione il vestiario, l'essere alla moda o il corrispondere alle aspettative degli altri (cioè l'apparire e l'avere) allo scopo di una vita ben vissuta, che consiste nel miglioramento di se stessi (l'essere).

Contro il superfluo:
"Adesso le nostre case sono ingombre e stipate di mobili, e una buona massaia ne getterebbe subito la maggior parte tra la spazzatura".

"Ma, ahimè! gli uomini ora sono diventati strumenti dei loro strumenti."

"Prima di poter adornare le nostre case di oggetti bellissimi, dobbiamo non solo spogliare le pareti ma anche spogliare la nostra vita, e porre come fondamenta un perfetto governo domestico e una bella condotta di vita"

"Prima di poter adornare la nostra casa di oggetti bellissimi, dobbiamo non solo spogliare le pareti, ma anche spogliare la nostra vita, e porre come fondamenta un perfetto governo domestico e una bella condotta di vita".

Cambiare la propria vita

"... vidi una serpe mudata correre nell'acqua e mettersi a giacere sul fondo ... forse perché non era ancora uscita dal suo stato di torpore. Allora capii che é per ragioni simili [stato di torpore] che gli uomini rimangono nella loro attuale condizione, bassa e primitiva; e che - se sentissero sorgere in loro l'influsso vitale della primavera [spring of springs] - allora si solleverebbero necessariamente a una vita più alta e eterea"

Il valore dell'esperienza nella formazione

"Chi avrebbe compiuto maggior progresso, alla fine del mese: il ragazzo che s'è fatto il coltello a serramanico con il minerale che lui stesso ha scavato e fuso, leggendo ciò che gli era necessario a tale scopo, o quell'altro ragazzo che in quel tempo ha seguito le lezioni di metallurgia all'istituto ... ?

T. sottolinea il valore della pratica (pragmatismo americano), che qui è anche legame con la natura (il minerale).

La lentezza

"Dopotutto, non è detto che chi ha un cavallo che fa un miglio al minuto debba portare i messaggi più importanti. Ho imparato che il viaggiatore più velto è quello che va a piedi".

La libertà individuale

"... e anche perché desidero che al mondo ci siano tante persone diverse quanto più possibile: ma vorrei che ciascuno fosse così accorto da trovare e seguire la propria strada, non quella di suo padre, sua madre, o un suo vicino ... Possiamo non arrivare in porto nel tempo stabilito, ma seguiremo il vero cammino".


Links:
Edizione annotata http://www.kenkifer.com/Thoreau/index.htm




sabato 31 ottobre 2009

Una bellissima poesia di Mario Luzi

Vorrei arrivare al varco
con pochi, essenziali bagagli,
liberato dai molti inutili,
di cui l’epoca tragica e fatua
ci ha sovraccaricato…
E vorrei passare questa soglia
sostenuto da poche,
sostanziali acquisizioni
e da immagini irrevocabili
per intensità e bellezza
che sono rimaste
come retaggio.
Occorre una specie di rogo
purificatorio
del vaniloquio
cui ci siamo abbandonati
e del quale ci siamo compiaciuti.
Il bulbo della speranza,
ora occulto sotto il suolo
ingombro di macerie
non muoia,
in attesa di fiorire
alla prima primavera.

Mario Luzi

giovedì 13 agosto 2009

Strane bestie!


Una nota di Luigi Meneghello, pubblicata sul Sole 24ore, Domenicale, poco prima di morire:

Sogguardando da una finestrella vedo le finestre socchiuse della casa di fronte, i balconi con piante e fiori, qualche tranquillo segno di vita... Questa scena resterà così, tale e quale, il giorno dopo che avrò smesso di esserci io. La mia mancanza non inciderà su niente, il mondo qui e dappertutto sarà quello di sempre, intensamente indifferente al fatto che io ci sia o non ci sia. Mi colpisce l'idea che è una prospettiva vicina e (strane bestie!) la cosa mi appare rasserenante.

sabato 30 maggio 2009

La mia dichiarazione di voto



Sono sempre stato convinto che esprimere il proprio voto sia un diritto-dovere imprescindibile nonostante le delusioni e le insoddisfazioni che la politica ci presenta, specie in questi ultimi anni. Non solo perché la democrazia non può vivere senza partecipazione, ma anche perché spesso chi non vota per protesta, in realtà, si limita a questa semplice, infantile scelta, senza mai fare alcunché di concreto.
In ogni caso la mia prima scelta e scegliere di andare a votare.
Ma è anche importante che l’espressione del proprio voto parta da una scelta ragionata e ponderata, in base a delle convinzioni, più o meno condivisibili, ma che comunque si possano esprimere in forma razionale.
C’è, naturalmente, una scelta di campo alla base. Per me la scelta di campo è l’area di centro-sinistra, perché condivido i valori della giustizia sociale, dell’eguaglianza e del riformismo, che quest’area dovrebbe rappresentare. Al contrario non mi piace chi difende il privilegio, l’evasione fiscale e porta avanti una politica populista, chi spacca il paese e vuole portarci a diventare servi di un capo.
Nell’area di centro sinistra credo sia importante scegliere il partito che abbia una forza sufficiente per opporsi, cercando di rafforzarne l’unità e la determinazione, e quindi escludo, in primo luogo tutti i piccoli partiti, per due motivi: perché non avranno mai la forza di rappresentare una vera alternativa, perché nelle occasioni in cui hanno partecipato a coalizioni di governo hanno sempre difeso la loro piccola “parrocchia”, portando sempre divisioni e indebolendo l’alleanza in cui avevano liberamente accettato di partecipare. Per questo motivo escludo le liste della sinistra cosiddetta radicale (ma per me conservatrice), PDCI, Rifondazione, Sinistra e Libertà:
Escludo anche l’Italia del Valori, per diversi motivi: non sarà mai un’alternativa al centro destra, è un partito personalizzato (come quello di B.), è stato sleale con il PD, rifiutandosi di mantenere gli impegni di creare un unico gruppo parlamentare, porta avanti posizioni che, anziché rafforzare l’opposizione, mirano a indebolire e a cannibalizzare gli alleati.

Per questi motivi mi sembra giusto votare PD, cercando di rafforzare chi all’interno di questo partito vuole creare un partito nuovo, che non sia il semplice erede di vecchie tradizioni, che apra ai giovani e alle donne, che si ponga l’obiettivo di cambiare questo paese, mantenendo salde le radici democratiche della nostra Costituzione.
Alle Europee voterò PD, esprimendo la mia preferenza per Debora Serracchiani, che rappresenta una ventata di novità e di serietà, vuole rinnovare il PD, è una donna giovane e preparata.
Alle provinciali voterò Diego Zardini, per la sua preparazione e per la sua carica di entusiasmo.
Naturalmente tutto quanto detto sopra è opinabile, ma sono convinto che si tratta almeno di una SCELTA meditata e ponderata, che si basa su un ragionamento e sul confronto con candidati che ho avuto modo di ascoltare direttamente e “dal vivo”.

sabato 23 maggio 2009

Grande Michele Serra!

A me, sentirlo ripetere che è una vergogna e che è scandaloso, che a questi giudici non risponde e non risponderà mai, che a questi giornali non risponde e non risponderà mai, ormai non fa né caldo né freddo. Dopo tutti questi anni è solo una filastrocca risaputa, un suono tra i tanti, come i clacson per strada, come la musica di sottofondo negli ascensori. Quello che mi fa specie, a questo punto, non è lui; e perfino il suo destino personale non mi pare la cosa davvero rilevante. Quello che mi fa specie è il poderoso, compatto contorno di aiutanti, assistenti, avvocati, alleati, adulatori, seguaci, vassalli. È il consenso di massa, l' applauso convinto, l' amore senza se e senza ma di milioni di italiani. È lo smisurato cerchio di uomini e donne, la stragrande maggioranza in perfetta buona fede, la stragrande maggioranza bravissime persone, che lo circonda e lo protegge, lo ama e lo difende anche dall' evidenza. Finito lui, non sarà finito il palcoscenico sul quale si è esibito per vent' anni. Non sarà finito il suo pubblico, non sarà dispersa la sua gloria, non sarà ristabilito alcuno dei criteri (cancellati) che avrebbero dovuto e potuto arginarlo, fermarlo, magari evitarlo. Finito lui, non importa tra quanti anni, non sarà finita l' Italia che lo ha prodotto, adorato e portato al trionfo. In quella stessa Italia noi vivremo, con quella stessa Italia avremoa che fare. No, davvero non è lui il problema. Il problema siamo noi. - MICHELE SERRA


Lo penso da anni e, purtroppo, senza smentite. L'Italia l'è malada!!!!

lunedì 9 febbraio 2009

Emily Dickinson

The Heart asks Pleasure - first -
And then - Excuse from Pain -
And then - those little Anodynes -
That deaden suffering.

And then - to go to sleep -
And then - if it should be
The will of it’s Inquisitor
The Liberty to die.

Il cuore prima chiede gioia,
poi assenza di dolore,
poi quegli scialbi anodini
che attenuano il soffrire,
poi chiede il sonno, e infine,
se tanto consentisse
il suo tremendo Giudice,
libertà di morire.

giovedì 27 novembre 2008

Un articolo di Nadia Urbinati

“Meritocrazia” è la parola magica che pare ai più capace di liberare la società italiana dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse davvero riconosciuto, si dice, la nostra società si emanciperebbe dai lacci del nepotismo e del clientelismo.
Come recita il sottotitolo del libro di Roger Abravanel sulla meritocrazia, questa è la ricetta per valorizzare il talento e rendere il paese più ricco e più giusto. Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di governo o un´organizzazione dell´azione collettiva basato “sull´abilità “ricchezza ereditata, relazioni familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe, proprietà o altri determinanti storici di potere politico e posizione sociale”. John Rawls avrebbe sottoscritto questa definizione. Tuttavia resta difficile da spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto perché è impossibile stabilire con rigore e certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra di capire che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi riceve i frutti o è influenzato dall'operato.
Il giudizio rispetto al merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all´utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico, ovvero al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco non soltanto le qualità intrinseche e morali della persona, ma anche quella che per Adam Smith era una simpatetica corrispondenza tra i partner sociali. Per questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre diffidato di questo criterio se usato per distribuire risorse.
Non perché non pensano che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare l´effetto con la causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto.
Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un´eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere quanto necessari fossero i programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali parte con dei lacci alle caviglie. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no.
Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro competitore. Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni sociali e non si rifondi daccapo la società civile non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi dell´ingiustizia senza preoccuparsi di vedere con quali mezzi i concorrenti si apprestano a competere.
Parlare di merito senza intaccare i residui storici e naturali che condizionano le prestazioni individuali è a dir poco capzioso. Nella condizione in cui la nostra società si trova attualmente è davvero difficile che il riconoscimento del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia. Ne parlava su questo giornale alcune settimane fa Adriano Sofri. L´appartenenza di classe, sempre più determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a una buona occupazione (a un lavoro che piace non semplicemente a un lavoro necessario) rende il discorso sulla meritocrazia non proprio cristallino e la gara una gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza o truccata.
Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni che si annidano in molte università italiane potrebbe venir spontaneo pensare che l´unica soluzione per curare il malato di corruzione sia sottoporlo al salasso delle risorse. Per curare una università che non seleziona per merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto da più parti si dice con più frequenza, portando acqua al mulino governativo in maniera più o meno diretta. Nell'età premoderna si pensava che il modo migliore per guarire un malato fosse quello di salassarlo per togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire il malcapitato proprio con l´intento di salvarlo. Il corpo non rinvigorisce togliendogli il cibo, ma dandogli cibo buono. Non si tratta di una terapia veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia sembrano credere. E quindi non è tagliando i finanziamenti che si può pensare di risanare l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento. Anche perché la politica dei “meno soldi” non si traduce necessariamente in “più onestà”. Occorre invece far sì che i soldi siano meglio spesi e che siano messi in atto sistemi di controllo che controllino davvero (con anche l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di reclutamento efficaci e non corrotti.
Ma non ci si faccia illusioni sulla celerità della cura. Perché è evidente che la questione del merito non è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di tutto una questione di etica ? di chi valuta e di chi è valutato, dei sistemi di valutazione e, in primo luogo, di chi li escogita e chi li fa funzionare. Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo sempre. Per esperienza devo dire che spesso anche chi esalta il merito non è poi sempre pronto a onorarlo perché la logica del sistema ha più forza di quella del merito e dell'onestà.
Non è questa la ragione per la quale è così difficile che un esterno vinca una competizione nell'accademia italiana? Se la questione del merito è una questione di eguali opportunità e di etica pubblica o di responsabilità, allora, per sconfortante che la cosa possa apparire, non consente soluzioni veloci e facili. Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate a parenti e amanti (o ad allievi fedeli, una categoria altrettanto aberrante, eppure molto in uso) e ai finanziamenti statali elargiti a università private di ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di cui si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione di volere azzerare tutto togliendo le risorse. Ma si può voler creare indigenza per sconfiggere il furto?

Repubblica 27.11.08

giovedì 13 novembre 2008

Franz Kafka - Il messaggio dell'imperatore

L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera

giovedì 6 novembre 2008

Il discorso inedito di Silvio Berlusconi dopo la vittoria elettorale

Se ancora c'è qualcuno che dubita che l'Italia non sia un luogo nel quale nulla è impossibile, che ancora si chiede se il sogno dei padri della nostra Costituzione democratica e antifascista è tuttora vivo in questa nostra epoca, che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava.
Poco fa, questa sera ho ricevuto una telefonata estremamente cortese dall’onorevole Walter Veltroni.
L’onorevole Veltroni ha combattuto a lungo e con forza in questa campagna e si è impegnato per il Paese che ama.
Mi congratulo per il suo impegno e non vedo l'ora di lavorare con lui per rinnovare nei prossimi mesi la promessa di questa nazione.
Ci saranno battute d'arresto e false partenze. Ci saranno molti che non saranno d'accordo con ogni decisione o ogni politica che varerò da Presidente del Consiglio e già sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarò sempre onesto con voi in relazione alle sfide che dovremo affrontare. Vi darò ascolto, specialmente quando saremo in disaccordo.
E a quegli italiani il cui supporto devo ancora conquistarmi, dico: forse non ho ottenuto il vostro voto, ma sento le vostri voci, ho bisogno del vostro aiuto e sarò anche il vostro presidente.

sabato 13 settembre 2008

Necropoli / Boris Pahor



Incipit:
Domenica pomeriggio. Il nastro d'asfalto liscio e sinuoso che sale verso le alture fitte di boschi non è deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a vale, verso Schirmeck; così il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo. So bene che anch'io, con la mia macchina faccio parte di questa processione motorizzata, eppure sono sicuro che, vista la mia passata intimità con questi luoghi, se sulla strada fossi solo, il fatto di viaggiare in automobile non scalfirebbe l'immagine onirica che dalla fine della guerra riposa nell'ombra della mia coscienza. Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l'idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po' di gelosia non soltanto perché occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (n sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana. Ecco che però, giunta da chissà dove, inizia a insinuarsi nel mio animo anche una piccola soddisfazione per il fatto che questa altura dei Vosgi non sia più il territorio segreto di una lontana dannazione consumatasi tutta in se stessa, ma sia diventata un luogo verso cui si dirigono i passi di innumerevoli persone. E queste persone, anche se la loro immaginazione sarà insufficiente per la visita che li attende, riusciranno tuttavia a intuire, attraverso le vie del cuore, l'inconcepibile realtà del destino di quei loro figli perduti.

Anch'io avrei preferito, nella visita a Mauthausen, essere solo o in piccola compagnia per poter "intuire" la realtà di quel luogo. Per fortuna libri come questo, con la loro prosa asciutta e tagliente, priva di emotività, aspra nella fredda descrizione dell'inconcepibile, sono preziosi per chi voglia mantenere fare in modo che la memoria di queste storie resti una luce sempre accesa.
Pahor, in questo libro, più volte ci dice che per noi, venuti dopo, è impossibile capire e, pur visitando quei luoghi, non possiamo "viverli" come chi li ha vissuti e ha condiviso la sofferenza e l'annientamento. Credo che, per cercare di avvicinarci, dovremmo immaginare di tornare in un luogo dove la nostra famiglia è stata sterminata e noi siamo gli unici sopravvissuti di questa strage: ebbene, quei luoghi familiari parlerebbero solo a noi, quella sofferenza sarebbe solo nostra. Ma qui, più che un'esperienza privata e momentanea (un singolo delitto) abbiamo una condivisione di sofferenza e di morte tra migliaia di persone, un delitto continuato per giorni, mesi, anni, in un abbrutimento totale dell'individuo. Per questo l'esperienza e il messaggio dei luoghi sono così difficili da trasmettere a chi non li ha vissuti.

Ora lo so che avremmo dovuto balzare fuori dalle baracche, precipitarci giù dalle gradinate, assalire tutti insieme la baracca dalla quale un SS conduceva, a una a una, le ragazze nella baracca col forno ... Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n'era andato insieme al succo vitale che scorreva vi dai corpi con la diarrea. Perché quando la pelle diventa pergamena e le cosce si riducono allo spessore delle caviglie, anche i palpiti del pensiero diventano flebili bagliore di una torcia esaurita.

Chissà, forse solo un nuovo ordine monastico laico potrebbe risvegliare l'uomo standardizzato, un ordine che vestisse il saio striato degli internati e inondasse le capitali dei nostri Stati, disturbasse con il rumore dei suoi zoccoli il raccoglimento dei negozi lussuosi e dei passeggi. Ciò che qui è rimasto dei vasi con la cenere dovrebbe essere portato in processione nelle città.

Come avevo potuto essere tanto stupido da introdurre fra i morti il ritratto di una persona viva! [il ritaglio con la foro di Alida Valli] . Un morto tra i vivi ci può stare, ma il contrario no. Lo scheletrico abitante di un campo non può toccare i vivi neppure col pensiero! Una volta per sempre deve abbandonare tutto ciò che vive su un'invisibile isola di sogno, fuori dall'atmosfera terrestre, e non deve più avvicinarglisi né con l'immaginazione né col ricordo. E non deve mettere il ritratto di una giovane viva fra le tombe.

"Non siamo zingari" dissero indicando la grande I maiuscola segnata con la matita copiativa in mezzo al triangolo rosso. "Italiener und Zigenner, gleich!" [Italiani o Zingari, fa lo stesso], urlò lo stalliere ricompattando a pedate quei piccoli uomini.

Leggendo questo libro ho capito che il male è molto più forte, solido, resistente del bene. Boris Pahor, come tanti ex internati, sente fortissimo il senso di colpa, si accusa per avere barattato sigarette con cibo e quando va a visitare il suo campo non riesce a dormire in un albergo o in un letto normale. Dorme su un materassino, in auto, dopo aver tolto il sedile anteriore destro. Gli sembrerebbe un'offesa ai morti del lager dormire lì vicino in un letto comodo.
Invece, tra i persecutori è raro il pentimento e nemmeno uno dice un banale "Mi dispiace". Dal male estremo non c'è ritorno. Una volta imboccata la loro strada, i persecutori vanno avanti, solidi come rocce. La loro sconfitta è solo militare e non avviene su un piano etico. E' veramente preoccupante, perché ciò dimostra che il bene è debole e fragile e la sua vittoria non può mai darsi per scontata.

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B grande statista va a Londra

Quando James Landale della BBC gli ha chiesto come mai l'Italia fosse al 65mo posto nella lista stilata dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo dei paesi migliori per fare investimenti, dietro Giamaica, Perú e Turchia, ha iniziato a vaneggiare sul fatto che l'Italia abbia piú impianti TV e cellulari rispetto a qualunque altro paese europeo, un alto numero di automobili, il 72% delle opere d'arte europee, 100.000 chiese, 3.500 musei, 2.500 siti archeologici ed una squadra di calcio di prestigio mondiale.


Ho preso questa notizia, tra le tante come esempio di quanto siano divisi gli italiani. 

Quando ho sentito le dichiarazioni di B a Londra mi sono vergognato: sono dichiarazioni di un provincialismo imbarazzante, degne di un piazzista, di un venditore di fumo. Se il tuo paese è grande, è importante non hai bisogno di ripeterlo. Ma il  piazzista ha bisogno di elencare numeri e percentuali, magari un po' gonfiati,  per fare "bella figura", avrebbe potuto estrarre anche un bel campionario per illustrare quante belle cose abbiamo, noi Italiani.

Ma il punto più interessante è che di fronte a queste frasi, altri italiani (la maggior parte, credo), hanno reazioni del tutto opposte: pensano che sia giusto dire queste cose, non sentono la volgarità e il provincialismo, magari pensano che"gliele ha cantate a questi arroganti inglesi", ha difeso il nostro bel paese, in modo simpatico, ecc. ecc.

E questo esempio, vale, per innumerevoli questioni, anche più importanti: quello che per alcuni è populismo, demagogia, volgarità, provincialismo, per altri è semplicità, simpatia, vicinanza.

Ma un paese così dove può andare?

domenica 7 settembre 2008


Una solitudine troppo rumorosa /
Bohumil Hrabal


Incipit:
"Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è là la mia 'love story'. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro l mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti ... "

Un libro che è una vera boccata d'aria fresca. A parte il caratteristico e coinvolgente surrealismo ceco e praghese che ricorda altre notevoli letture (Il buon soldato Švejk, Praga magica), vorrei sottolineare tre aspetti:
1) la poeticità del testo: questo non è un romanzo, ma un testo poetico. La poesia lo percorre, a partire dal protagonista che ama il suo lavoro, è felice di offrire agli altri piccole gioie (i libri che riesce a raccogliere), che offre tutto quello che ha, senza chiedere niente, alle donne che ama. Stupendo esempio di testo poetico è quello relativo alla piccola zingara: ".... tanto più pensavo alla mia zingara, che non esultava mai, che non voleva niente altro che aggiungere carbone nella stufa e cucinare gulash di patate con salame di cavallo e andare a prendere le birre dalla brocca grande, non voleva altro che spezzare il pane come l'ostia santa e poi guardare attraverso lo sportellino aperto della stufa la stufa e i raggi, lo scoppiettio melodioso del fuoco, il canto del fuoco che lei conosceva dall'infanzia ..."
In fondo anche Hanta (il protagonista) è così, uno che "non voleva altro" che lavorare con la sua pressa, impossessarsi di nuovi pensieri e dare qualche gioia agli altri (le piccole gioie).
2) Il secondo aspetto è la capacità di offrire una scrittura "visiva" attraverso le immagini, la descrizione degli oggetti e, soprattutto, i colori: "mosca verde e azzurro metallico", "guanti arancioni e azzurro chiaro e berretti americani gialli", "tuta azzurra fino ai capezzoli", "girocolli verdi", "calzini viola", ecc.
E poi l'uso delle opere dei pittori per foderare i pacchi imballati: i Girasoli di van Gogh, Buongiorno, signor Gauguin. Tele molto colorate, in contrasto con il grigiore del sottosuolo dove lavora Hanta.
3) Il lavoro, la bellezza del lavoro che produce cose e, per quanto riguarda il protagonista, soprattutto la creatività, il lavoro come opera d'arte che si realizza nei pacchi foderati di riproduzioni artistiche, con dentro l'anima di un'opera classica.
Il lavoro è presente in tutto il testo, anche perché tutto avviene in un posto di lavoro e tutto si conclude lì. Hanta si realizza nel suo lavoro e immagina addirittura di portarsi a casa la pressa (come la locomotiva per lo zio), una volta in pensione. Il lavoro è presente nelle operaie di Libuse che macellano i polli, nella storia di Mancinka che attraverso innumerevoli fidanzati si fa costruire la casa (sterratore, muratore, falegname, idraulico, copritetti, imbianchino, ebanista e poi lo scultore), nell'elenco delle fasi per la produzione dei libri (scrivere, correggere, leggere, illustrare, comporre, refusare, ricomporre, ecc.).
Infine la crisi personale di Hanta è strettamente legata alla crisi del suo modo di lavorare: la gita a Bubny gli rivela un mondo nuovo, contrapposto al suo, che lo coinvolgeva sia fisicamente ("per gustare sulle dita la carta") sia spiritualmente e intellettualmente (la creazione dei pacchi, come opere d'arte):

" ... perché a un tratto seppi con precisione che quella pressa gigantesca era un colpo a tutte le presse piccole, sapevo d'un tratto che quello che stavo vedendo era una nuova epoca nella mia branca, che quelli erano ormai altri uomini, un altro modo di lavorare ... Era giunta la fine delle piccole gioie che in un piccolo deposito giungevano in forma di libri e libriccini ritrovati ..."

"... qui seppi che era definitivamente la fine dei vecchi tempi, che era finita l'epoca in cui l'operaio, in ginocchio e fra le dita e i palmi, combatteva col materiale come se ci lottasse, lo metteva sulla pala, sicché ogni vecchio tipo di operaio era distrutto e imbrattato dal lavoro, perché doveva far spremere il lavoro al corpo"

Non c'è più legame tra lavoro e vita, il lavoro non è più espressione, realizzazione di se stessi, diventa pura procedura tecnica, senza coinvolgimento e senza pensiero. Gli operai nuovi, anzi "i nuovi uomini" possono fare la gita in Grecia, senza nulla sapere della Grecia, senza, in sintesi, pensare.

Altre frasi interessanti:
"contro la mia volontà sono istruito"
"... un uomo che sa pensare, anche lui non è umano"
"in una solitudine popolata di pensieri"
"siamo come le olive, soltanto quando veniamo schiacciati esprimiamo il meglio di noi"
"pagine inorridite"





giovedì 14 agosto 2008

Il grande sertao / Joao Guimaraes Rosa



Ho rivendicato, nonostante tutto, uno dei diritti fondamentali del lettore: non finire un libro se non ti piace. Ho cercato di andare avanti, ma alla fine ho ceduto. Questo libro era stato segnalato da Magris e, conoscendo il suo stile di scrittura, mi aspettavo un racconto chiaro e scorrevole. Invece ...

Devo premettere che non amo il realismo magico, a parte il precursore "Cent'anni di solitudine", né mi attirano i libri di avventura. 
Questo è un romanzo "epico" che racconta le vicende degli jaguncos, banditi del sertao brasiliano, ma si tratta di vicende che si ripetono, sia pure con variazioni: la battaglia, l'assedio, l'attacco a sorpresa, la spedizione notturna, ecc. Il protagonista racconta ad un giudice le sue vicende ed anche il suo legame con il compagno di battaglia che viene presentato in modo volutamente ambiguo. Sembrano Achille e Patroclo oppure più vicini a noi i protagonisti di Brokeback Mountain, per l'ambientazione selvaggia.
Ci sono pagine molto belle, ma immerse in un mare di descrizioni spesso confuse e incomprensibili, con un eccessivo riferimento a termini ornitologici o faunistici.
Un linguaggio espressionistico, con termini inventati (quanta fatica, povero traduttore!), con alti livelli di ipnotismo dovuto alla ripetitività e alle frasi spezzate.
Eccessivo anche l'utilizzo di elenchi di nomi che provocano effetti di torpore e di noia.
Ho saputo più tardi che questo libro è un vero e proprio classico della letteratura brasiliana e che viene studiato nelle scuole. Forse la conoscenza della lingua e dell'ambiente naturale lo rende apprezzabile e appassionante.

martedì 29 luglio 2008

Nemico, amico, amante ... /Alice Munro



Un libro di racconti. Di solito non leggo racconti, faccio fatica a ricordarli. Ma questi mi sono piaciuti per la linearità,  la scorrevolezza del linguaggio e per la capacità di rendere storie spesso drammatiche (ci sono quasi sempre malattie gravi, morti e suicidi) con un senso di serena accettazione del destino. Sembra che le cose debbano andare come vanno e che i protagonisti sappiano fronteggiarle con un certo stoicismo. Anche i tradimenti appaiono, in qualche racconto, come delle luci improvvise che non portano a drammatici deragliamenti: c'è sempre una certa forza che impedisce e frena soluzioni tragiche.

sabato 19 luglio 2008

Mani di Patrick Leigh Fermor


Incipit: "Farà bene a stare attento, se va su ad Anavriti" ammonì il giovane barbiere con un sinistro schiocco di forbici. Le tuffò in un'altra manciata di capelli impastati di polvere. Il trac dell'amputazione, e un'altra ciocca si aggiunse al cerchio di detriti incolori per terra. Riflessa nello specchio di fronte,la testa emergente dal lenzuolo si rimpiccioliva a vista d'occhio. già la sentivo qualche libbra più leggera. "Sono gente stramba"

In fondo tutto il libro è contro la diffidenza di questo barbiere (ma potrebbe essere chiunque) per il diverso, il lontano, lo straniero. Libro scritto da un grande viaggiatore, di cui ho potuto vedere l'ampia villa dove vive, ormai vecchio, a Kardamili. Un innamorato della Grecia e del suo popolo, in particolare della popolazione del Mani, di cui descrive, in occasione del viaggio, storia, abitudini, costumi, carattere.
A volte c'è un ecesso di descrizione naturalistica e paesaggistica, con troppe (a volte troppo ardite) metafore, ma nel complesso il libro offre notevoli spunti di riflessione su molte questioni, dalla religione all'arte.
Con questo libro ho ripercorso le mie modeste esperienze di viaggio nel Peloponneso
e nel Mani, che mi aveva colpito per il paesaggio
arido e selvaggio,
quasi da "fine del mondo": è sulla punta del Mani, Capo Matapan, che c'era il Tenaro, la grotta per passare nell'Ade.
Nomi che ad altri dicono poco, suscitano ricordi particolari: Kardamili, Areopoli, Vathia (con le innumerevoli torri maniote), Porto Kagio.


"[I fucili] avevano un nome eufonico, che sembra più adatto a un fiore che a un fucile, e che in effetti somiglia alla parola greca per garofano e chiodo di garofano: kariofilia. Questa parola musicale e strana è una approssimativa ellenizzazione del nome di un armaiolo italiano i cui prodotti erano pregiatissimi in tutto il Levante. Carlo e figli"

Con quale facilità le popolazioni si spostavano nelle antiche terre greche, nel mondo conquistato ed ellenizzato da Alessandro, nel vasto spazio di Roma e dell'impero bizantino! Senza documenti, libera, senza pastoie, la gente errava a suo piacimento fra il Tamigi, il Danubio, l'Eufrate e l'alto Nilo, in ogni luogo, insomma, esente dalla minaccia barbarica, e spesso al di là. Oggi ognuno è numerato, inanellato come un piccione, rinchiuso in una gabbia di frontiere. Sul saldo telaio di popolazioni sedentarie si tesseva sempre, costante e irregolare nella trama e nell'ordito, un movimento spicciolo generato da irrequietezza, da intenti commerciali, sete di bottino, ricerca di colonie, fughe o esili, oppure un vero e proprio trapianto, dovuto forse a motivi politici alla ricerca di un rifugio.

Gli imperi erano più cosmopoliti e più facili da percorrere per i migranti, più eterogenei nella composizione delle diverse etnie. Lo stato nazionale è per sua natura chiuso.

"Perché non restate? ... Passeremo il tempo insieme ..."
Dia na perasome tin ora (per passare il tempo)
Una bellissime espressione greca

Arte orientale greca / Arte occidentale

[Le icone] sono in effetti, ideogrammi. Il loro legame con carne e sangue è talmente esiguo, che è quasi un caso che la notazione sia, nel suo modo molto rarefatto, antropomorfica. Sono, si potrebbe dire, dorate e illuminate radici cubiche del Logos.

Da questo momento si puà dire che in Oriente l'arte religiosa volle portare l'uomo a livello di Dio, e in Occidente Dio a livello dell'uomo, ponendo ciascuna delle due l'accento su una metà diversa della natura di Nostro Signore.

... i pittori greci di icone hanno scelto la strada più difficile. Hanno cercato di accedere allo spirito non per le facili vie della passione, ma tramite l'intelletto [Religione e filosofia]
... l'Occidente, dico, ha dipinto e scolpito Cristo come uomo. Le vette intellettuali indicate da Bisanzio non furono scalate, e la religione fu propagata nell'arte tramite le emozioni [elemento patetico]





Uomini grandi

Un paese è grande solo se sa produrre uomini saggi, e se ha il buon senso di eleggerli. Altrimenti gli individui, per quanto buoni e bravi e intelligenti, sono come degli zeri senza valore. Metti alla loro testa un governante in gamba, ed è come il numero in una cifra scritta, dà valore a tutti gli zeri, li muta nella somma di otto milioni nel caso della Grecia ...

sabato 31 maggio 2008

La fortezza di Robert Hasz


Hasz Robert
La fortezza / Robert Hasz ; traduzione di Andrea Rényi. - Roma : Nottetempo, c2008. - 325 p. ; 20 cm

Incipit:
"Quel pergolato aveva qualcosa di magico che nemmeno Livius riusciva a capire; è pur vero che allora non se n'era dato pensiero. Accettava semplicemente il fatto che nel mondo ci fosse un piccolo paradiso recintato, dove si sentiva sempre bene. tutte le volte che ci ripensava però doveva ammettere che quello era il giardino meno curato di tutti. Faceva fatica a immaginare Fabrio con le cesoie in mano mentre tagliava i ramoscelli superflui degli alberi da frutto, o mentre frugava con la vanga tra i tralci di vite. Sorrideva al solo pensiero".


Naturalmente c'è una parte, o meglio un'atmosfera, che ricorda "Il deserto dei tartari", ad esempio nella descrizione della fortezza:
"Davanti a loro, a distanza ravvicinata, nella semioscurità brumosa, si delineavano i contorni sfocati di una roccaforte. Un tempo era stata sicuramente un castello medioevale, lo testimoniavano le alte mura, più spesse alla base che in cima, i resti di bastioni e la grande porta ad arcoin cui terminava la strada asfaltata in salita"

Ma è una fortezza strana nella quale si muovono soldati senza armi e senza alcuna missione apparente, in un posto dove affiorano ricordi e in un tempo sfasato rispetto al tempo reale. Alla fine il mistero e la missione della fortezza saranno rivelate ed emergerà il richiamo alla "grande storia" della Yugoslavia (la salma del Maresciallo) e della sua tragica distruzione, anche se la vicenda resta per consapevole scelta, molto sfumata. Ma emerge una certa nostalgia, nonostante tutto.
Un libro che si legge volentieri.


lunedì 28 aprile 2008

Grande e preveggente Alexis!!

".... Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri...
Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto!
Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla.
Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere. Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo".

Da: De la démocratie en Amerique di Alexis De Tocqueville, 1840.

mercoledì 16 aprile 2008

Elezioni

Tristezza post elettorale, purtroppo l'Italia l'è malada e mi consolo con un bell'articolo di Michele Serra, pubblicato prima dei risultati:

Andare a votare mi è sempre piaciuto, amo la banalità della democrazia, nutro simpatia per i seggi, gli scrutatori, i tabelloni appesi, le guardie che guardano, la matita copiativa. Mi emoziono ogni volta, anche se le volte oramai sono tante. Non ho mai capito l’ignavia dei disinteressati, dei non partecipi per menefreghismo, e fatico a digerire anche la spocchia di quelli che non vanno a votare perché “non si riconoscono” in nessun partito, chissà se si riconosceranno nel re di Atlantide, negli anelli di Saturno, nella barba di Bakunin, nella loro mamma?

Temo proprio che perderò anche questa volta, d’altra parte questo paese è sempre stato un paese di destra, cattolico e di destra, gli elettori di sinistra sono abituati a perdere da generazioni, di padre in figlio, ci sono quelli che lo fanno apposta e votano l’estrema perché è bello sentirsi pochi ma buoni, ci sono quelli che invece cercano di fare mucchio (come me) ma passano gli anni e il mucchio non è quasi mai abbastanza grosso per governare. Da quando vado a votare ho vinto solo un paio di volte su venti, è una media da retrocessione. Incredibilmente ci credo ancora, mi piace ancora, specialmente se penso a tutta la brava gente che si è fatta un gran mazzo in campagna elettorale. Ho un paio di amici che rimarranno a casa, a misurare la puzza sotto il naso. Da dopodomani gli vorrò bene lo stesso, oggi no. Oggi li detesto.

da Repubblica del 13 aprile 2008

lunedì 17 marzo 2008

Bob Kennedy 18 marzo 1968

Quanta idealità in questo discorso e qunato ci mancano voci come queste!


"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jpnes, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta."

lunedì 17 settembre 2007

Raccontare una storia per salvare gli uomini

Raccontare una storia per salvare gli uomini di DAVID GROSSMAN

(da Repubblica, 5 settembre 2007)

Essere uno scrittore israeliano che apre il festival della letteratura di Berlino è per me un grande onore. Questa frase sarebbe stata impensabile e impronunciabile fino a pochi anni fa e ancora oggi non posso essere indifferente riguardo al suo significato.
Nonostante tra Germania e Israele - e tra israeliani, ebrei e tedeschi - si mantengano relazioni strette, una frase come questa non è né neutra né ovvia. C' è un posto nella coscienza, nel cuore, in cui certe frasi devono passare attraverso le lame affilate del tempo e della memoria, come un raggio di luce, per scomporsi in una miriade di suoni e di colori. E qui, a Berlino, non posso che cominciare il mio discorso con queste parole, che si scompongono dentro di me attraverso le lame affilate del tempo e della memoria.
Sono nato e cresciuto a Gerusalemme, in un quartiere, in una famiglia, dove la gente non era nemmeno in grado di pronunciare la parola "Germania". Faticava persino a dire "Shoah". Parlava di "ciò che è successo laggiù". È interessante notare che in ebraico, in yiddish, o in qualsiasi altra lingua parlata da ebrei, la Shoah è per lo più "qualcosa che è successo laggiù", diversamente da "ciò che è accaduto allora" per i non ebrei.

C' è una differenza abissale tra laggiù e allora. Allora è un avverbio di tempo che indica un passato che non esiste più. Laggiù è un avverbio di luogo e allude al fatto che da qualche parte, in un qualche posto, ciò che è successo ancora cova sotto le ceneri, si rafforza, e potrebbe tornare a esplodere. Non è una cosa finita. Di certo non per noi ebrei. Da bambino sentivo molto spesso parlare della "belva nazista" ma quando domandavo agli adulti chi fosse, loro si rifiutavano di spiegarmelo.

Dicevano che ci sono cose che un bambino non deve sapere. Più tardi scrissi in Vedi alla voce: amore di Momik, figlio di sopravvissuti all' Olocausto al quale i genitori non rivelano ciò che è avvenuto laggiù. Momik, pieno di paura, immagina la belva nazista come un mostro che domina un paese chiamato laggiù, maltratta le persone a cui vuole bene, fa cose che lasciano ferite indelebili e nega loro la possibilità di avere una vita normale, serena. (...) La mia generazione, quella dei nati nei primi anni Cinquanta in Israele, viveva in un silenzio carico di presenze, densamente affollato.
Nel quartiere in cui abitavo c' era gente che ogni notte aveva incubi, urlava. Più di una volta, quando entravamo in una stanza in cui degli adulti raccontavano episodi della guerra, la conversazione si interrompeva. Ma di tanto in tanto riuscivamo a captare frammenti di frasi: "L'ultima volta l'ho visto in Himmlerstrasse, a Treblinka"; "Ha perso i due figli durante la prima retata". (...) Quando avevo sette anni si è tenuto a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann e allora abbiamo cominciato ad ascoltare le descrizioni delle atrocità anche durante la cena. La mia generazione ha perso l'appetito, e non solo per il cibo.
Lo ha perso per qualcosa di più profondo che noi bambini, allora, naturalmente non capivamo e che ci si è chiarito in seguito. Forse era la perdita dell'illusione che i nostri genitori potessero proteggerci da ciò che ci faceva paura, o della convinzione che noi ebrei potessimo un giorno vivere sicuri e sereni come gli altri popoli. Ma forse, più di tutto, percepivamo la perdita della nostra naturale fiducia di bambini negli altri, nella bontà del prossimo, nella sua compassione.
All'incirca vent' anni fa, quando mio figlio maggiore aveva tre anni, nella scuola materna che lui frequentava fu celebrata, come tutti gli anni, la giornata della memoria per le vittime della Shoah. Lui
non capì molto di quello che gli venne spiegato. Tornò a casa. Confuso e spaventato. "Papà, cosa sono i nazisti? Cos' hanno fatto e perché?". Io non volevo dirglielo. Io, che ero cresciuto in un silenzio che mi aveva provocato ansie e incubi, che avevo scritto un libro su un bambino che era quasi impazzito a causa del silenzio dei genitori, capii all'improvviso perché i miei e quelli dei miei amici avevano taciuto. Sentivo che se avessi raccontato a mio figlio ciò che era avvenuto laggiù, se glielo avessi accennato, pur con enorme delicatezza, qualcosa della sua purezza di bambino di tre anni sarebbe stato contaminato.
Sentivo che nel momento in cui quelle possibilità crudeli si fossero formulate nella sua coscienza innocente, lui non sarebbe mai più stato lo stesso bambino. E non sarebbe più stato un bambino. Dopo che fu pubblicato Vedi alla voce: amore in Israele alcuni critici scrissero che appartenevo alla "seconda generazione della Shoah", che ero figlio di "sopravvissuti all'Olocausto". Non lo sono. Mio padre arrivò nella terra di Israele dalla Polonia nel 1936. Mia madre è nata in Palestina, prima della fondazione dello Stato.
Eppure sono figlio di "sopravvissuti alla Shoah" perché anche a casa mia, come in tante altre case israeliane, era teso un filo carico di angoscia che potevamo toccare in qualsiasi momento. E anche se stavamo molto attenti e non facevamo movimenti bruschi, avvertivamo un costante fremito di insicurezza nella possibilità di esistere, di sospetto nei confronti degli altri e di cosa questi altri potessero farti quando meno te lo aspettavi. (...)
Chi come me è nato nell'Israele del dopo Shoah si porta dentro la sensazione - di cui ci era proibito parlare allora e che forse non eravamo nemmeno in grado di esprimere a parole - che noi ebrei intratteniamo un dialogo diretto con la morte. Che la vita, anche quando è piena di energie e di speranze e della fertilità di una nazione giovane, in rinnovamento, è più che altro uno sforzo enorme, costante, di sfuggire alla minaccia della morte. Nell' Israele degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo in momenti di disperazione ma anche in quelli in cui l'esaltazione per la "creazione di una nazione" si affievoliva soltanto di poco, in cui ci sentivamo un po' stanchi della nostra formidabile rinascita, in quegli attimi di malinconia, privata e nazionale, potevamo percepire la morsa di gelo che ci stringeva il cuore e ci sussurrava con voce sommessa ma perentoria: la vita svanisce così in fretta, tutto è talmente fragile. Il corpo, la famiglia.
La morte è reale, tutto il resto è un'illusione. Nel momento in cui ho capito che sarei diventato uno scrittore, ho capito anche che avrei scritto della Shoah. Penso che queste due consapevolezze siano nate in me simultaneamente. Forse anche perché fin da giovane ho avuto la sensazione che tutti i libri che avevo letto sulla Shoah non rispondessero a domande semplici, vitali, che dovevo pormi e alle quali dovevo rispondere da solo.
E più il tempo passava più sentivo crescere in me la sensazione che non sarei stato in grado di comprendere la mia esistenza in Israele come uomo, padre, scrittore, israeliano, ebreo, fintanto che non avessi scritto della vita che non avevo vissuto laggiù, durante la Shoah, e cosa mi sarebbe successo se fossi stato una vittima, o uno degli assassini. Perché volevo sapere entrambe le cose. Non mi accontentavo di una.(...) Volevo sapere cosa avrei fatto per contrastare questo tentativo di annientamento. Quale scintilla di umanità mi sarebbe rimasta dentro in una realtà il cui unico obiettivo era spegnerla. A una domanda come questa ognuno deve rispondere da sé. Ma forse posso dare un suggerimento.
Nella tradizione ebraica c' è una leggenda, o una credenza, secondo la quale in ogni uomo esiste un ossicino chiamato "luz" - "nocciolo" in ebraico - sistemato in cima alla colonna vertebrale. Questo ossicino racchiude l'essenza dell'anima ed è indistruttibile. Anche se l'intero corpo dovesse disintegrarsi o bruciare, il nostro "nocciolo" rimarrà intatto, preserverà la peculiarità che c' è in ciascuno di noi, la radice del nostro essere. Ed è a partire da questo ossicino che l'uomo si ricreerà nel giorno della resurrezione dei morti.(...) La seconda domanda che mi sono posto mentre scrivevo Vedi alla voce: amore è correlata alla prima e in un certo senso scaturisce da essa. Mi sono chiesto come una persona normale - come lo erano molti nazisti e loro sostenitori - possa entrare a far parte di un meccanismo di distruzione di massa. In altre parole cosa devo reprimere, offuscare, rimuovere, uccidere di me per poter collaborare a un genocidio programmato, per essere in grado di uccidere un altro essere umano, per volere lo sterminio di un popolo intero, o accettarlo in silenzio.
Forse però dovrei affinare la domanda: in questo momento sto forse collaborando - coscientemente o inconsapevolmente, attivamente o passivamente - a un processo il cui scopo è danneggiare un altro uomo o un gruppo di persone? "La morte di un uomo è una tragedia", ha detto Stalin, "ma quella di milioni è statistica".
Parliamo per un attimo di come una tragedia si trasforma in statistica. Non dico, naturalmente, che siamo tutti degli assassini. È ovvio che no. Eppure la maggior parte di noi sembra quasi indifferente alla sofferenza di popoli interi, vicini e lontani, o a quella di centinaia di milioni di esseri umani poveri, affamati, ammalati, sia nelle nostre nazioni che in altre parti del mondo. Impariamo a non curarci del dolore di estranei che lavorano per noi, del patimento di popoli che vivono sotto occupazione - nostra o di altri -, o in un regime dittatoriale o in condizioni di schiavitù.
Con stupefacente facilità creiamo meccanismi che hanno il compito di farci prendere le distanze dalla sofferenza altrui. Riusciamo, nella nostra coscienza e a livello emotivo, a ignorare il nesso causale che esiste fra la prosperità economica delle nazioni occidentali e la povertà altrui; tra il nostro benessere e le vergognose condizioni di lavoro di altra gente; tra la qualità della nostra vita, i nostri condizionatori d' aria e le nostre automobili, e le sciagure ecologiche che si abbattono su altri.
Questi "altri" vivono in condizioni talmente terribili che per lo più non hanno nemmeno la possibilità di porre domande come quelle che pongo io ora. Non è solo il genocidio ad annientare il "nocciolo" di un essere umano. Anche la fame, la povertà, le malattie, l'esilio spengono e uccidono gradualmente l'anima del singolo, e talvolta di un popolo intero.
Noi non vogliamo assumerci nessuna responsabilità personale per le cose terribili che avvengono a poca distanza da noi. Né mediante azioni dirette né limitandoci a esprimere solidarietà. Ci fa comodo - quando si parla di responsabilità personale - far parte di una massa indistinta, priva di volto, di identità, e all'apparenza libera da oneri e colpe. E probabilmente è questa la grande domanda che l'uomo moderno deve porsi: in quale situazione, in quale momento, io divento "massa"?
Ci sono definizioni diverse per il processo con il quale un individuo si confonde nella massa o accetta di consegnarle parti di sé. E siccome noi siamo uomini di letteratura, ne sceglierò una conforme ai nostri interessi. Ho l'impressione che ci trasformiamo in "massa" nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le cose secondo un nostro lessico, e accettiamo automaticamente e senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci da altri. Io mi trasformo in "massa" quando cesso di formulare con le mie parole compromessi e scelte morali che sono disposto a compiere.(...)
Ricorro alla figura dello scrittore ebreo polacco Bruno Shultz per illustrare l'incontro tra un singolo che possedeva un linguaggio estremamente peculiare e un "linguaggio di massa" l'incontro tra la tragedia e la statistica. Mi riferisco alla vicenda del suo assassinio durante la seconda guerra mondiale, nel ghetto della sua città, Drohobycz. La storia è nota, e forse non è neppure vera, è una leggenda, un aneddoto sul quale negli anni si è costruito "il mito di Shulz" fra i suoi estimatori in tutto il mondo. Ma anche se fosse un aneddoto, tocca un punto profondo, vero. "Gli aneddoti sono sostanzialmente fedeli alla verità" scrive Ernesto Sabato, "proprio perché sono finzioni, inventati in dettaglio per adeguarsi con grande precisione a una certa persona".
E infatti, anche se questa particolare storia sulla morte di Shulz non è vera, ciò che essa esprime è sostanzialmente fedele alla verità ironica e tragica di quest' uomo, all'orrore del possibile incontro tra il "singolo" e la "massa", e quindi la racconterò così come l'ho sentita la prima volta. Nel ghetto di Drohobycz, durante la guerra, un ufficiale delle Ss aveva costretto Shulz a dipingere un affresco a casa sua. Un avversario di quell'ufficiale, che aveva litigato con lui a causa di un debito di gioco, incontrò per caso Shulz per strada, estrasse la rivoltella e gli sparò, per vendicarsi dell'uomo per il quale lui stava lavorando. Stando alle voci l'assassino si recò poi dal suo rivale e gli disse: "Ho ucciso il tuo ebreo". E quello rispose: "Benissimo, e ora io ucciderò il tuo".
Venni a conoscenza di questa storia subito dopo aver finito di leggere per la prima volta il libro di Bruno Shulz. Ricordo che chiusi il volume e uscii di casa. Girai per ore come immerso in una nebbia. Ero in uno stato in cui, per dirla con semplicità, non volevo più vivere. Non volevo continuare a esistere in un mondo in cui potevano accadere cose come questa, in cui ci sono persone come quegli ufficiali nazisti che pensavano cose come queste. In cui esiste un linguaggio che permette a mostri simili di pronunciare frasi quali "Ho ucciso il tuo ebreo" e "Benissimo, ora io ucciderò il tuo".
Scrissi Vedi alla voce: amore per restituire a me stesso, fra le altre cose, la voglia di vivere, l'amore per la vita. E forse anche per guarire dall'offesa che provavo - a nome di Bruno Shulz - per il modo in cui il suo assassinio era stato descritto e "spiegato". Una spiegazione disumana, "di massa". Come se gli esseri umani fossero pedine di scambio, o rotelle di un meccanismo, o accessori che si possono sostituire con altri, o soltanto parte di una statistica. Negli scritti di Bruno Shulz ogni frammento di realtà ha una propria personalità. Ogni nube passeggera, ogni mobile, ogni manichino di sarto, ogni ciotola di frutta, ogni cagnolino, ogni raggio di sole, ogni oggetto, anche il più banale, possiede una propria individualità, una propria essenza, un proprio carattere. E in ogni sua pagina, in ogni suo brano, esplode la vita, ricca di contenuto e di significato.
Una vita che all'improvviso merita questo nome. Un'opera enorme che avviene simultaneamente in tutti i substrati del conscio e dell'inconscio, dell'illusione, del sogno, dell'incubo, dei sensi, dei sentimenti, di un linguaggio ricco di sfumature. Ogni riga è una ribellione contro ciò che Shulz definisce "il muro fortificato che grava sul significato"; è una protesta contro la desolazione, la banalità, la routine, la stupidità, gli stereotipi, la tirannia del semplicismo, della massa. (...)
Quando terminai di leggere il libro di Shulz capii che lui mi dava, con la sua scrittura, una chiave perché io potessi scrivere della Shoah. Non di morte e di sterminio ma della vita, di ciò che i nazisti avevano distrutto meccanicamente, in maniera industrializzata, di massa. Ricordo anche che, con l'arroganza del giovane scrittore, dissi a me stesso che volevo scrivere un libro che tremasse sullo scaffale. Che fosse vitale come un battito di ciglia nella vita di un uomo.
Non una "vita" tra virgolette che trascorre fiacca, ma una come quella che Shulz ci insegna. Una vita vera, al quadrato, nella quale non dobbiamo accontentarci di non ammazzare il prossimo ma dobbiamo fare in modo che esso viva, così come il momento appena trascorso, le visioni viste, le parole pronunciate migliaia di volte, e te, e me.
La realtà in cui viviamo oggi non è forse crudele come quella creata dai nazisti ma certi suoi meccanismi hanno leggi di fondo molto simili che offuscano l' individualità dell'uomo e lo portano a rifiutare obblighi e responsabilità verso il destino degli altri. E una realtà sempre più dominata dall'aggressività, dall'estraneità, dall' incitamento all'odio e alla paura; dove il fanatismo e il fondamentalismo sembrano farsi più forti ogni giorno mentre altre forze perdono la speranza di un cambiamento. I valori e gli orizzonti del nostro mondo, l'atmosfera che vi si respira e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da ciò che noi chiamiamo mass media, un'espressione coniata negli anni Trenta del secolo scorso quando i sociologi cominciarono a parlare di "società di massa". Ma siamo davvero consapevoli del significato di questa espressione? Di quale processo i mass media abbiano subìto? Ci rendiamo conto che gran parte di essi non solo convogliano un tipo di comunicazione destinata alle masse ma trasformano i loro utenti in massa? E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio povero e volgare, trattando problemi politici e morali complessi con semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un'atmosfera di prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce, rendendo kitsch tutto ciò che toccano: le guerre, la morte, l'amore, l'intimità. A un primo sguardo sembra che questo tipo di comunicazione si incentri sul singolo, sull'individuo, non sulle masse. Ma è una suggestione pericolosa.
I mezzi di comunicazioni di massa pongono il singolo in primo piano, lo consacrano persino, incanalandolo sempre più verso se stesso. Anzi, in fin dei conti, esclusivamente verso se stesso: verso i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue aspirazioni, le sue passioni. In mille modi, palesi o nascosti, liberano l'individuo da ciò di cui lui è in ogni caso ansioso di liberarsi: la responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle sue azioni. E nel momento in cui lo fanno ottenebrano la sua coscienza politica, sociale e morale, lo trasformano in un materiale docile alle manipolazioni da parte di chi controlla i mezzi di comunicazione e di altri. In altre parole lo trasformano in massa. (...)
È questo il messaggio dei mass media: un ricambio rapido, tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni a essere significative e importanti ma il ritmo con cui si susseguono, la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo zapping.
La letteratura non ha rappresentanti influenti nei centri di potere globali che ho appena descritto, e fatico a credere che sia in suo potere apportarvi qualche cambiamento. Può però proporre un diverso modo di vivere: secondo un ritmo interno, una coerenza personale più adatta ai nostri bisogni spirituali e naturali di quanto ci venga prepotentemente imposto da apparati esterni. Io so che quando leggo un buon libro qualcosa dentro di me si chiarisce. La mia percezione di essere una creatura particolare si fa più netta. La voce precisa, distinta, che mi giunge dall'esterno risveglia in me altre voci, alcune delle quali erano mute in precedenza. E anche se migliaia di altre persone leggono lo stesso libro nel momento in cui lo sto leggendo io, ognuna lo vive in modo diverso. Per ognuno quel libro è una cartina tornasole di tipo particolare. Un buon libro - e non ce ne sono molti perché la letteratura, naturalmente, è sensibile alle lusinghe e ai trabocchetti della comunicazione di massa - fa sì che il lettore si distingua dalla massa. (...)
Quando finii di scrivere Vedi alla voce: amore capii di averlo scritto per dire che chi annienta un uomo, qualunque uomo, a conti fatti distrugge un'opera geniale, unica nel suo genere, specifica e infinita che non si potrà mai più ricreare, né mai ve ne sarà una simile. Negli ultimi quattro anni ho scritto un romanzo che intende dire la stessa cosa, ambientato però altrove, in una realtà diversa. La protagonista è una donna israeliana di circa 50 anni, madre di un soldato che parte per la guerra. La sua preoccupazione per il figlio la porta a presagire la tragedia in agguato, e lei cerca con tutte le sue forze di scongiurarla lottando contro il destino che attende il ragazzo. Compie una lunga marcia, percorrendo quasi la metà di Israele e raccontando senza posa del figlio. È così infatti che cerca di proteggerlo, facendo l'unica cosa che è in suo potere per rendere l'esistenza del figlio più viva e concreta: raccontare la storia della sua vita. E un giorno, sul piccolo quaderno che porta con sé, scrive: "Migliaia di attimi e di ore e di giorni, milioni di azioni, un'infinità di gesti, di tentativi, di errori, di parole e di pensieri. Tutto per creare un unico essere umano". E poi aggiunge: "Un essere umano che è così facile distruggere".

(Traduzione di Alessandra Shomroni)

venerdì 31 agosto 2007

A proposito di tolleranza..

Una frase interessante di Lars Gustafsson in un articolo su El Pais:

"Per cominciare vorrei suggerire due assiomi più o meno ovvi: la tolleranza dell'intolleranza produce intolleranza; l'intolleranza dell'intolleranza produce tolleranza ... "

lunedì 27 agosto 2007

Licenziati 5 "fannulloni"

In questi giorni è uscita sui giornali la notizia di 5 licemziamenti per scarso rendimento di dipendenti pubblici nella provincia di Bolzano.
Le prime reazioni dei Sindacati sono state per fortuna di condanna nei confronti di chi nel pubblico impiego non lavora e non sono scattate reazioni di difesa ad oltranza. Tuttavia è stato anche detto che questi licenziamenti sono la prova che se si vuole si può licenziare anche nel pubblico.
Ma proprio lo scalpore della notizia dimostra il contrario: che è molto difficile licenziare nel pubblico, altrimenti perchè i giornali avrebbero dedicato così tanto spazio? Inoltre, bisognerebbe vedere come andrà a finire dopo i ricorsi.
E' stato anche detto che se non vengono colpiti i settori di nullafacenti è colpa dei dirigenti. Infatti bisognerebbe colpire anche questi e l'unica strada sono seri meccanismi di VALUTAZIONE INDIPENDENTE delle persone e dei servizi.
Ma mi piacerebbe che i sindacati rispondessero a questa semplice domanda: se uno lavora a fianco di alcuni fannulloni e si rivolge al sindacato, cosa farebbe il sindacato? Siamo convinti che prenderebbe qualche iniziativa? E se i fannulloni fossero iscritti al sindacato?

venerdì 24 agosto 2007

"Se io cambio, il mondo cambia" (Gandhi)

Mi piacerebbe che nel nostro paese si uscisse dalla logica dei piccoli orticelli e che sia le persone che le organizzazioni (sindacati, partiti, ecc.) uscissero dalla logica di "avere la verità in tasca" e imparassero a mettersi in discussione.
Insomma per superare la realtà dello "specchio rotto" (vedi E. Scalfari), bisognerebbe essere meno egoisti e corporativi e, soprattutto, avere l'umiltà di imparare anche dagli altri e di ragionare sui fatti e i dati concreti.

Spero che il Partito democratico sia un'occasione per un nuovo inizio, anche se non mi faccio molte illusioni, perchè sono convinto che viviamo in un'epoca di decadenza e di regressione antropologica (veline, tronisti, Corona, ecc. ecc.), che purtroppo non risparmia la cosiddetta "gente".

Ma la polemica Bindi-Veltroni su cosa si basa? Boh!!!

mercoledì 22 agosto 2007

C'è grossa crisi

Sono un dipendente universitario, iscritto ormai da più di 20 anni alla CGIL. Da qualche tempo provo molto disagio per molte scelte sindacali, che mi sembrano fatte sempre con atteggiamenti difensivi e poco attenti alle situazioni reali.
In particolare ho spesso riscontrato, al di là di quanto viene scritto nei documenti sindacali, un atteggiamento di rifiuto dei sistemi di valutazione del personale, proposti con scarsa convinzione dall’Amministrazione pubblica. Credo che nel settore del pubblico impiego la valutazione sia essenziale e che non sia corretto aggrapparsi all’incapacità dei dirigenti di valutare, per bocciare ogni tentativo di premiare il merito e di adottare equilibrati sistemi di selezione.
Su questa questione, che tra l’altro è al centro del dibattito politico-sindacale, anche con interventi a mio avviso interessanti e provocatori (vedi Ichino: I nullafacenti), ho constatato un notevole ritardo in molte delle strutture sindacali e una grave mancanza di dibattito.
Si è creato un meccanismo perverso per cui, mentre a livello nazionale le OOSS firmano memorandum nei quali sottolineano l’importanza del merito e della selettività, nella pratica continuano a contrastare ogni anche minimo tentativo di vera valutazione, con la giustificazione che tanto i dirigenti non sanno valutare oppure prospettano sistemi di valutazione solo delle strutture, rifiutando la valutazione individuale.

Non sono nemmeno d’accordo che il Sindacato abbia potere decisionale o di veto sui sistemi organizzativi: il Sindacato dovrebbe essere informato sui criteri, sulle modalità della riorganizzazione, con la possibilità di avanzare proposte e suggerimenti, ma poi la dirigenza deve avere la sua autonomia e deve prendersi le sue responsabilità. Non è possibile alcuna efficienza, se non si può toccare niente e se, per fare uno spostamento o una riorganizzazione, è necessario avere prima il placet di tutti. In questo sistema non si fa altro che perpetuare una dirigenza pigra e inerte, un clima di stasi per mantenere tranquille situazioni di rendita e spesso di inefficienza.

Cos’è un servizio pubblico

Temo, tuttavia, al di là dei protocolli d’intesa firmati dalle OO.SS sul pubblico impiego nei quali si sottolinea l’importanza del merito e della valutazione, che ci sia, nella pratica concreta, un approccio sbagliato da parte del Sindacato in generale nei confronti dell’impiego pubblico.
Il pubblico impiego ha senso solo se è servizio per il pubblico e spesso ci si dimentica che il lavoro nel pubblico ha senso solo se si fa la “felicità” (o almeno la soddisfazione) dell’utente. Chi lavora alle dipendenze dello Stato dovrebbe sentire questa spinta in più, questo senso di svolgere un ruolo che è diverso da quello privato. Non si tratta di essere dei “missionari”, ma di avere coscienza di essere pagati con i soldi di tutti.
Ciò non significa accettare condizioni di sfruttamento o rinunciare ad avere uno stipendio adeguato, ma tanto più possiamo essere rivendicativi, quanto più il nostro lavoro è ritenuto utile, importante, qualitativamente efficace.
E’ così? No, se guardo ai servizi pubblici del nostro Paese, non mi sembra che sia così. Eppure i servizi pubblici in altri Paesi europei funzionano, sono molto più efficienti del nostro pur a parità di dipendenti.
Quando poi si parla di utenza è sbagliato riferirsi solo all’utenza particolare dei vari enti pubblici. Bisogna considerare anche la più vasta utenza che è il Paese nel suo complesso. I soldi pubblici dovrebbero servire per avere servizi efficienti, senza sprechi, a vantaggio di tutti i contribuenti italiani.
Ma una vera valutazione richiede Agenzie esterne e indipendenti, che sappiano valutare dirigenti e impiegati, attraverso efficaci griglie che misurino l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni, il raggiungimento degli obiettivi, la soddisfazione degli utenti, ecc.

Colpa dei dirigenti, colpa del Governo, colpa degli altri …

Di fronte a queste considerazioni, ognuno, nel nostro Paese, si difende dando la colpa agli altri, a chi sta sopra o a chi sta sotto. Non c’è mai una assunzione di responsabilità.
Ma credo che un sindacato serio dovrebbe porsi anche il problema di eliminare le sacche di inefficienza, denunciando chiunque non faccia il proprio dovere e rinunciando alla difesa corporativa.
In una relazione sindacale mi è capitato di leggere: “La polemica estenuante sui fannulloni del Pubblico Impiego non è certamente estranea alle dinamiche del rinnovo dei contratti pubblici: che la Pubblica Amministrazione abbia sacche non marginali di inefficienza e improduttività è questione che riguarda anche noi, interessati alla sua efficacia per il servizio nei confronti dei cittadini; ma ben altro è la polemica del tutto ideologica che in questi mesi si è aperta …”
Ecco il tipico “benaltrismo” di molta sinistra politica e sindacale. Si riconosce il problema, ma poi non si propone niente, nemmeno, ad esempio il licenziamento immediato dei dipendenti condannati in via definitiva.


Perché i giovani non si iscrivono al Sindacato?

Dopo tanti anni e tanti tentativi a vuoto di creare un ricambio generazionale all’interno delle strutture dirigenziali della CGIL, viene da chiedersi perché nonostante l’aumento del personale, i giovani non si iscrivano, né partecipino alla vita sindacale..
Ci saranno senz’altro responsabilità organizzative, difficoltà di impegnarsi nel lavoro sindacale, ma credo, sperando di sbagliare e di essere contraddetto, che non sia solo questo. Chi si iscrive al sindacato oggi lo fa perché viene da una tradizione familiare o personale di interesse per la politica: è un’adesione ideologica e quindi molto limitata.
Credo che la maggior parte non si iscriva per diversi motivi: perché si parla un linguaggio spesso vecchio e burocratizzato, ma soprattutto perché, in fondo, per i cosidetti “garantiti” i diritti fondamentali sono assodati e perché, nel complesso, non si sta male nel pubblico impiego. Magari si guadagna poco, ma in fondo c’è la possibilità, per molti, di trovare una propria nicchia. Insomma ci si adatta, magari brontolando e lamentandosi qualche volta. Se non si sta male, se i diritti sono garantiti, a cosa serve iscriversi al Sindacato? La lamentazione, un certo disagio si possono benissimo esprimere in qualche assemblea, tanto non si rischia niente.
Un sindacato di pura rivendicazione salariale, che si limita a fare gli accordi nazionali o decentrati, non suscita una grande attrazione, anche perché gli accordi li fa, magari in ritardo e senza grandi mobilitazioni.
Insomma non c’è bisogno di sacrifici e di lotte dure, anche perché non ci sentiamo “sfruttati”. Se fossimo sfruttati, ci ribelleremmo con forza, ma la parola “sfruttamento” non è utilizzabile nel pubblico impiego per il personale a tempo indeterminato, anche se poi si trova sempre chi sventola le bandiere ideologiche come i sindacati dell’ultrasinistra.
Invece ci sarebbe tanto bisogno di trovare “soddisfazione, felicità, significato” nel lavoro che facciamo, “per perseguire in modo trasparente e giudicabile la missione assegnata”. Anche il protocollo usa la parola "missione": ma poi se ne dimentica immediatamente e nelle contrattazioni si parla solo di soldi: Più soldi alla scuola, all’Università e alla ricerca non servono a niente se non c’e’ una valutazione dei risultati e di come i soldi vengono spesi.
Invece si svalorizza il lavoro, quando lo si considera solo in termini economici o quando lo si vede come una “maledizione” da concludere in fretta per andare in pensione, magari a 57 anni (all’Università fa ridere pensare che uno a 57/60 anni DEBBA andare in pensione).

Sulle pensioni

E vengo all’ultimo motivo di dissenso con le linee attuali del Sindacato: il tema delle pensioni e, in particolare, dell’aumento dell’età pensionabile.
I sindacati, ormai da anni, ci dicono che non è necessario 1) aumentare l’età pensionabile, 2) cambiare i coefficienti e adeguarli all’aumento del tempo di vita e che si possono 3) aumentare le pensioni basse, 4) eliminare il lavoro precario.
Di fronte a queste posizioni mi sembra di vivere nel paese di Bengodi, dove, nonostante l’enorme debito, riusciamo ad accontentare tutti.
Io non so se hanno torto o ragione le organizzazioni sindacali oppure gli economisti, la Banca Europea, la Commissione europea che un giorno sì e l’altro pure ci invitano a modificare il nostro sistema pensionistico.
Tuttavia vorrei solo che mi si dimostrasse che Paesi come la Germania sono in mano a governanti idioti, dal momento che hanno portato l’età pensionabile a 67 anni per gli uomini, nonostante i tedeschi vivano in un Paese democratico e in presenza di sindacati abbastanza forti. Ma la media dell’età pensionabile è quasi dovunque superiore a quella italiana, in Paesi che non hanno un debito pubblico paragonabile al nostro
Bisognerebbe allora ragionare non in modo ideologico, accettando l’aumento dell’età pensionabile (con incentivi e disincentivi), escludendo i lavori usuranti e, in cambio, chiedendo una vera uniformazione dei sistemi pensionistici dei diversi settori e l’eliminazione dei trattamenti privilegiati per certe categorie.
Certo che finché nei documenti sindacali si scrive: “Non siamo interessati a riforme punitive che si occupino di ciò che accadrà tra 30 anni. Siamo più interessati ai prossimi 5 anni, e su questi vogliamo proposte e risultati”, siamo proprio lontani da qualsiasi ipotesi di prospettare un futuro sostenibile per chi andrà in pensione tra qualche anno. E comunque la logica del “risultato immediato” è quella che ci ha portato al debito pubblico più alto in Europa ed è la stessa che, su un piano diverso, non fa niente per l’emergenza climatica.

il cannocchiale