giovedì 21 agosto 2014

Il cielo è dei violenti / Flannery O'Connor



O'Connor Flannery
Il cielo è dei violenti / Flannery O'Connor ; traduzione di Ida Omboni ; prefazione di Marisa Caramella. - Torino : Einaudi, 2008 (Letture Einaudi, 10). - 202 p. ; 20 cm. - Tit.orig.: The violent bear it away

Incipit:
Lo zio di Francis Marion Tarwater era morto solo da mezza giornata quando il ragazzo si ubriacò troppo per finire la fossa, e un negro di nome Buford Munson, che era venuto a riempire una brocca, dovette terminare di scavarla e trascinarci il corpo, che era ancora seduto alla tavola della prima colazione, per dargli una sepoltura da cristiani, con le insegne del Salvatore sopra la testa e abbastanza terra perché i cani non lo scavassero fuori. Budford era arrivato verso mezzogiorno e quando, al tramonto, se ne andò, il ragazzo, Tarwater, non era ancora tornato dalla distilleria".

Un libro duro, a volte difficile, ma cosa mi ha spinto a terminare la lettura? Il clima torbido, chiuso, claustrofobico che si respira dalla prima all'ultima pagina. Prevalgono i colori scuri e notturni e, anche nelle parti "soleggiate", domina l'ansia, la paura, la violenza.
Ci sono tre personaggi principali. Il prozio del ragazzo Tarwater, un "profeta" che vuole fare del nipote il suo erede, istruendolo e dandogli precise indicazioni per indirizzare la sua vita futura, il nipote Tarwater, un ragazzo che, da piccolo, è stato rapito dal prozio, cresciuto in una baracca in campagna, l'altro zio, il maestro Rayber, anch'egli educato per un certo periodo dal vecchio zio, dal quale, però, è riuscito a fuggire, ribellandosi, e che vive in città con il figlio anormale, Bishop.
Nella vicenda emerge una competizione violenta tra il prozio "profeta" e lo zio per impossessarsi dell'anina del giovane Tarwater. In entrambi i casi si manifesta una violenza che mira a condizionare la vita del ragazzo. Nel periodo in cui vive in campagna e, soprattutto, con la morte del prozio, sembra che il giovane rifiuti gli insegnamenti e il destino di "profeta". Infatti, si ribella con violenza, rifiutandosi di seppellire il vecchio, incendiando la baracca e incenerendo il corpo del prozio.
Ci sono qui dei passi molto belli, in cui il ragazzo si sdoppia in un alter ego con il quale dialoga e polemizza.
Il prozio rappresenta la parte irrazionale, religiosa, in contrasto con quella rappresentata dal maestro Rayber, lo zio di città, dal quale si rifugia dopo essere fuggito dalla campagna.
Ma anche Rayber esercita la sua violenza e vuole rieducare il nipote, cancellando l'influenza fondamentalista del prozio. Egli rappresenta la parte razionale e antireligiosa. Anch'egli fallirà e Tarwater resterà un ribelle, impossibile da rieducare. Tra questi opposti, il ragazzo non riuscirà, fino alla fine a trovare il suo equilibrio.
Ciò che colpisce è l'assenza di qualsiasi elemento affettivo tra i personaggi, sempre un po' "sopra le righe", vigili. ansiosi. Il Dio al quale si riferiscono appare come un Dio terribile, un Dio dell'antico testamento, violento e incomprensibile.
Un'ultima osservazione: mi ha colpito l'irrelevanza dei pochi personaggi femminili. Le donne (madri e mogli) sono considerate "puttane" dal prozio. La moglie del maestro, l'assistente sociale, ha una piccola parte, ma poi sparisce, abbandonando il marito e il figlio anormale, senza curarsene. L'unica donna forte è quella che, nell'ultimo capitolo, rimprovera il ragazzo per aver abbandonato il corpo del prozio, senza seppellirlo. E' l'unico momento in cui il ragazzo sembra vergognarsi e non sentirsi sicuro.
Una lettura interessante, che spinge a leggere ancora qualcosa di questa scrittice: in particolare, i racconti che la critica giudica le sue opere migliori.

Flannery O’Connor, maestra di scrittura
La parola come skandalon: Flannery O'Connor, "Il cielo è dei violenti"
L'angolo di Jane






Le montagne dei Paesi Bassi / Cees Nooteboom



Noteboom Cees
Le montagne dei Paesi Bassi / Cees Nooteboom ; introduzione di Enzo Siciliano. - Milano: Iperborea, c1996. - 149 p. ; 20 cm. - Tit. orig.: In Nederland.

Incipit:
"C'era una volta un tempo che, secondo alcuni, dura ancora. A quel tempo i Paesi Bassi erano molto più grandi di oggi. Altri dicono che non è vero e altri ancora sostengono che quel tempo è sì esustito, ma ormai non c'è più. Se sia così, non lo so. Quanto a me, posso affermare di aver visto con i miei occhi la bandiera olandese sventolare sui più alti passi d'Europa. Il Nord era anche allora dalle parti di Dakkum, di Rooderschool e di Pieterburen, il confine meridionale si trovava però a molti giorni di viaggio - anche in macchina - da Amsterdam e dall'Aia."

Una fiaba? Certo se inizia con "c'era una volta", se la geografia dei luoghi è incerta, se i personaggi sono molto delineati, non ci sono dubbi. E' la storia di Kai e di Lucia, due bellissimi giovani che si esibiscono come prestigiatori e che sono costretti ad abbandonare i Paesi Bassi del nord per la regione montagnosa e piena di pericoli del sud.
Fin qui non ci sarebbe nulla di speciale, una storia, un'avventura che prevede difficoltà e ostacoli, con il necessario lieto fine della fiaba.
Ma il racconto è fatto in prima persona da uno scrittore-personaggio, Alfonso Tiburon de Mendoza, ispettore delle strade di Saragoza, al quale piace giocare con la storia, fare rapide ed efficace incursioni con commenti e notazioni linguistiche molto stimolanti. Ad esempio (p. 50):
"Camino, carretera, weg, via, strada. Mi ha sempre dato da pensare il fatto che in nederlandese la parola weg, via, significhi anche "assente". El camino, in spagnolo, è semplicemente la strada, ma anche il viaggio. Ora il viaggio comporta per ddefinizione l'assenza dal luogo da cui si è partiti e tuttavia manca in questa aprola la brutale immediatezza che c'è in weg".
Ci sono dei capitoletti in cui lo scrittore inteviene e, addirittura, polemizza con i personaggi: ad esempio, il cap. 22, in cui critica pesantemente le religioni, le sette, le utopie, dopo che, nel cap. precedente, Lucia era stata sedotta da un guru biondo e bellissimo, capo di una setta.

"Solo allora cadde davvero il silenzio, quel silenzio totale, assoluto, che nasce dall'assenza di qualsiasi altro essere umano e che suscita in noi l'idea dlla nostra propria assenza tanto da farci dubitare della realtà del nostro esistere"
Sensazione che si prova talvolta in qualche landa solitaria e che ho provato molte volte viaggiando in Grecia.


VOLTI – Cees Nooteboom