mercoledì 27 dicembre 2017

Revolutionary road / Richard Yates

Revolutionary road / Richard Yates ; traduzione di Adriana dell'Orto. - Roma : Minimum fax, 2011 (edizione digitale)

Incipit:
"L'ultima eco della prova generale si spense, e gli attori della Compagnia dell'Alloro si ritrovarono senza altro da fare che starsene lì, silenziosi e smarriti, a guardare oltre le luci della ribalta verso una platea deserta, battendo le palpebre; usavano appena respirare, mentre la figura tozza e solenne del regista emergeva tra le nude sedie per raggiungerli sul palcoscenico e dalle quinte tirava fuori, trascinandola rumorosamente, una scala doppia.Vi saliva fino a metà, e da qui si voltava e gli diceva, raschiandosi più volte la gola, che erano tipi maledettamente in gamba e che era un piacere lavorarci assieme"

Non a caso, il libro si apre con una recita, a al centro della quale c'è la protagonista femminile del racconto, April, la moglie di Frank Wheeler. Non a caso, perché tutto il seguito sembra una recita, nella quale i due protagonisti ricoprono delle parti, mascherando i loro veri desideri, le loro ambizioni, i loro sogni.  Ma si tratta di sogni, ambizioni e desideri irrealistici, che generano solo frustrazioni e alla fine dolorose incomprensioni.
Vorrebbero "rivoluzionare" le loro vite, sognano una nuova vita a Parigi, per uscire dal provincialismo del loro ambiente, che ritengono inferiore. In realtà, restano dei "piccolo borghesi" che non hanno il coraggio di cambiare e di rimettersi in gioco.
L'ultima recita di April è una pagina densa e tragica: finge di essere la perfetta mogliettina americana serve al marito, che sta andando al lavoro, la colazione e tutto sembra tornare alla normalità dopo la pesante lite della sera precedente, ma sarà questo l'ultimo atto di una vita basata sulla falsità.

"Sai cosa c'è di bello nella verità? Che nessuno la dimentica. Nessuno dimentica la verità, si diventa solo più bravi a mentire".

"Non possiamo continuare a fingere che è la vita che volevamo. Avevamo dei progetti, tu avevi dei progetti. Guarda noi due: siamo cascati nella stessa ridicola illusione. L'idea che devi ritirarti dalla vita, sistemarti nel momento in cui hai dei figli ... era una bugia".

Personaggi:
April, la moglie
Frank Wheler, il marito
I due bambini
Shep e Milly Campbell: gli amici vicini, compagni di bevute
Helen Givins, la vicina che vende case; il marito Howard e John, il loro figlio pazzo
Maureen Grube, la segretaria

Temi:
Europa (Parigi) come via di fuga; Aborto; Lavoro; Frustrazione; Verità; Falsità; Adulterio; Conformismo; Infelicità; Mediocrità

Epoca: anni '50 (scritto nel 1961)

Luogo: Connecticut (casa), New York (lavoro)

Links:
wikipedia.org
ilsole24ore
mangialibri.com
bibliomaniarecensioni
librofilia.it
conparole.it
marieclaire.it




venerdì 7 aprile 2017

Ho servito il re d’Inghilterra / Bohumil Hrabal



Ho servito il re d’Inghilterra / Bohumil Hrabal ; traduzione dal ceco di Sergio Corduas. – Roma : edizioni e/o, 2006. – Ebook

Incipit:

"State attenti a quello che adesso vi dico.  Quando arrivai all’hôtel Praga, il capo mi prese per l’orecchia sinistra e tirandomela dice: «Qui tu sei piccolo di sala, perciò ricordati! Non hai visto niente, non hai sentito niente! Ripeti!». E così dissi che al lavoro non vedevo niente e non sentivo niente. E il capo mi tirò per l’orecchia destra e disse: «Ma ricordati anche che devi vedere tutto e sentire tutto! Ripeti!». E così ripetei stupito che avrei visto tutto e sentito tutto. E così incominciai. Tutte le mattine alle sei eravamo in sala, una specie di schieramento, il signor hôtelier arrivava, a un lato del tappeto stavano il maître e i camerieri e in fondo io, piccolino proprio come un piccolo di sala, e all’altro lato stavano i cuochi e le cameriere dei piani e le sguattere e la credenziera, e il signor hôtelier ci passava accanto e guardava se avevamo le pettorine pulite, e i colletti e i frac senza macchie, e se non mancavano bottoni, e se le scarpe erano lucide, e si chinava per accertare con l’olfatto se ci eravamo lavati i piedi, poi diceva: «Buon giorno signori, buon giorno signore…»."

Si tratta il lungo racconto che il protagonista Jan Dite fa a degli ascoltatori ignoti. Una narrazione quasi ipnotica, con periodi molto lunghi, che potrebbe svolgersi, tra una birra e l’altra, in qualche locale praghese. Anche il modo di narrare non è lineare: spesso un particolare fa venire in mente ricordi di molto tempo prima e il percorso e, talvolta, zizzagante, come quello di un ubriaco.
Anche le vicende narrate sono spesso surreali e, comunque, abbiamo solo la versione di chi narra in prima persona. Tutto è soggettivo e visto dall’unica prospettiva del protagonista narratore.
La vicenda si svolge in Cecoslovacchia nei vari alberghi nei quali lavora Jan. La prima parte è più “allegra”, mentre nella seconda, con le vicende della guerra mondiale e dell’occupazione nazista, il racconto assume toni più cupi. Jan percorre la vita e la storia con leggerezza, senza esserne mai travolto, con fatalismo e con capacità di adattamento.
Il suo sogno è quello di arricchirsi per poter aprire un proprio albergo. Riesce a realizzarlo, ma, nonostante tutto, non riesce mai ad essere riconosciuto come un pari dagli altri albergatori. E’ sempre considerato un semplice cameriere arricchito.
Oltre il tema del denaro, c’è il tema dell’amore e del sesso, che affronta con molto rispetto e dolcezza, fin da quando comincia a frequentare il Paradiso e a coprire di fiori il corpo delle donne che frequenta.

”Con i soldi si può comprare non soltanto una bella fanciulla, ma con i soldi si può anche comprare la poesia.”

I clienti dell’hotel Praga sono i notabili della città e i commessi viaggiatori che commerciano i loro prodotti (bilance, affettatrici, giochi, prodotti di gomma).
L’altro hotel è l’hotel La Quiete, dove il direttore, su una carrozzella dirige il personale con i fischi. Qui conosce il maitre Zdenek che Jan ammira molto.
Dopo sei mesi torna a Praga, all’hotel Parigi, un hotel molto lussuoso diretto dal signor Srombek.  Questo hotel era frequentato da agenti di borsa che si incontravano con belle signorine. Qui diventa cameriere di sala, sotto la direzione del maitre Skrivanek, quello che aveva servito il re d’Inghilterra, e che era in grado di prevedere da dove venivano i clienti e che cosa avrebbero ordinato. In questo albergo c’era una “chambre-separee”, o gabinetto di visitazione, dove degli agenti di borsa anziani si limitavano a guardare e a spogliare una signorina, stesa su un tavolo, mangiando e bevendo.

”E così, saziati gli sguardi, quei borsisti finivano la visitazione, versavano champagne alla signorina e … brindavano con lei”.

E’ in questo albergo, dotato di posate d’oro, che si svolge il banchetto di 300 persone per l’imperatore d’Abissinia, dopo il quale Jan viene premiato con una medaglia e una fascia azzurra “per meriti verso il trono dell’imperatore d’Abissinia”.
Poi conosce Liza, una tedesca di Cheb, che faceva la maestra di ginnastica, una sportiva, il cui padre gestiva un ristorante. Proprio per il suo rapporto con una donna tedesca, viene licenziato e, considerato un traditore, non riesce più a trovare lavoro.

”Ogni volta arrivava … l’informazione che ero un ceco  con sentimenti  filotedeschi”.

Siamo nel periodo dell’occupazione tedesca, durante il quale si mette insieme a Liza e si vendica dei suoi ex colleghi e del padrone dell’hotel Parigi che l’avevano maltrattato per il suo tradimento.
Vive con Liza, che fa alla crocerossina, in mezzo ai tedeschi e con lei fa l’amore.
Si trasferisce in un altro albergo, in mezzo ai boschi, in montagna sopra Decin. In questo albergo i nazisti cercano di creare gli “uomini nuovi”, di razza pura, accoppiando sane ragazze ariane con giovani soldati.
Tutto nell’albergo è in funzione di questo progetto: statue degli eroi, colonnati, rilievi che illustravano il glorioso passato della Germania.
“La prima stazione europea di allevamento di razze per essere umani”, dove “si compivano coiti  nazionalsocialisti”. È qui che Jan cambia anche il nome, che diventa tedesco, Herr Ditie, anche se le giovani vergini tedesche da accoppiamento lo ignorano “come se io fossi un tavolino di servizio”.

Per sposare Liza deve superare un esame, per verificare se era in  grado di “fecondare sangue germanico ariano”: viene esaminato da un medico e il suo sperma viene analizzato. Alla fine ottiene il permesso di matrimonio e si sposa con Liza, con una cerimonia tipicamente nazista.
Nonostante tutto, è sempre considerato un estraneo (“la mano non me la davano”). Ritorna ancora questo senso di inadeguatezza, questo sentirsi sempre non accettato che è un elemento costante del libro:
- non è accettato, nonostante la sua ricchezza dargli hoteliers cechi;
- non è accettato dai tedeschi, nonostante sia sposato con una di loro.

Alla fine, riesce a mettere incinta Liza e  nasce Siegfried, il figlio strano che passa il tempo a martellare chiodi sui pavimenti.
Dopo essere stato licenziato, prende servizio al ristorante Cestino, dove i soldati tedeschi si incontrano con le loro mogli o fidanzate, prima di partire per il fronte russo, dove la guerra per la Germania non procede bene (“Non c’era allegria, ma tristezza malinconica”).
Non c’è più l’uomo nuovo, “vittorioso e strillone e orgoglioso, ma al contrario l’uomo umile e  meditabondo, con i begli occhi di un animale spaventato”.
Per un periodo, dopo essere stato scambiato per una spia alla stazione di Praga, viene arrestato dai tedeschi, al posto del maitre Zdenek, come fosse un bolscevico.
Una volta rilasciato, accompagna un compagno di prigionia, che aveva ucciso il padre, nel paese di Lidice, che trovano completamente distrutto dai tedeschi per rappresaglia in seguito ad un attentato.
Si sposta a Cheb, dove il padre di Liza gestiva l’hotel Città di Amsterdam e dove la moglie e il figlio si erano rifugiati. Liza resta sepolta dalle macerie durante un bombardamento, mentre il figlio, che continua a martellare chiodi sul pavimento, viene messo in un istituto per bambini disturbati.
Con i soldi di rari francobolli rubatii da Liza agli ebrei, riesce, finalmente, a realizzare il sogno di acquistare un hotel prima la periferia di Praga, poi in un altro posto. Infine, decide di “costruire un albergo, molto diverso da tutti gli altri alberghi”, in una cava abbandonata vicino a Praga.
L’albergo si trova in una ex fonderia ed ha molto successo: si chiama hotel Alla cava. Lo frequentano scrittori e uomini famosi, tra i quali Syeinbeck  e Maurice Chevalier.
È qui che Jan raggiunge il massimo del successo e spera, finalmente, di essere riconosciuto anche degli altri hoteliers.

”Perché anch’io ero un milionario, speravo che il mio nome come nome di milionario sarebbe stato sui giornali, che sarebbe stato accanto a quelli di Sronbek e Brandejs e degli altri”.

In realtà questo riconoscimento non avverrà mai e sarà sempre considerato un inferiore.
L’hotel Cava, alla fine, viene requisito e “tutti i diritti di proprietà passavano al popolo”.
Jan viene internato in un vecchio seminario insieme ai milionari, per punizione, ma, in realtà, si tratta di una “prigione” dorata in cui  prigionieri e guardie ci scambiano i ruoli.
Nell’internato “si cucinava alla grande ed era, praticamente, l’hotel di lusso”.
Dopo che l’internato fu chiuso, Jan fu mandato in una brigata di lavoro nei boschi, lontano dalla gente, in una casa forestale, insieme ad un professore di letteratura francese e ad una bella ragazza, Marcela.
Il loro lavoro consisteva nel collaborare all’abbattimento di alberi di abete, dai quali si ricavava il legno per strumenti musicali (abeti musicali risonanti). Da questo momento inizia per Jan un percorso di solitudine sempre maggiore: la sua vita, prima piena di contatti e di rapporti intensi con uomini e donne, vivace e ricca di eventi, cambia completamente. Dopo una breve sosta a Praga, inizia il lavoro di cantoniere, in un posto isolato tra le montagne, per dare il cambio ad una famiglia di zingari nel lavoro di selciatura di una strada. Abita in un’osteria abbandonata, con una stalla e una legnaia, insieme ad un cavallino, una capra, un cane e un gatto.
Gli unici rapporti con altri esseri umani avvengono in paese quando va a fare provviste: nell’osteria fa lunghi discorsi sulla morte e scopre che “l’essenza della vita sta nel domandare della morte”.
Gli animali sono gli unici compagni di una vita in cui, più e più volte, “l’incredibile è diventato realtà”.
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mercoledì 1 marzo 2017

VINCI SIMONA
La prima verità / Simona Vinci. – Torino : Einaudi, 2016. – 397 p. ; 20 cm.

Incipit
”Un lettino di ferro con le sbarre bianche e un corpo nudo, quello di una bambina tra il sette e dieci anni. Che è una femmina, si capisce solo del taglio tra le gambe unite e tenute ferme da una cinghia di contenzione. Anche le braccia sono legate alle sponde con due strisce di tela e tutto il peso del corpo si regge sui gomiti. Dietro la schiena, un cuscino macchiato e sotto il sedere, una tela cerata. Nell’angolo il fondo a destra si intravede un materasso a righe.
Poi c’è il buio.”

Un libro che parla di manicomi, di repressione di malati (ma anche di politici), di torture e di sofferenze.
Gli ambienti sono diversi: per gran parte la storia è ambientata nell’isola di Leros, dove, per lungo tempo, fino agli anni ‘70, furono internati, in un lugubre edificio, i “matti” di tutta la Grecia e, dopo il colpo di Stato dei colonnelli, nel 1969, anche gli oppositori politici. Tra questi il poeta Yannis Ritsos,  al quale si ispira uno dei personaggi del libro.
Un altro luogo è Budrio, dove il rapporto con i “matti”, seppure meno drammatico, è frequente e colpisce la fantasia dei bambini. A Budrio c’erano due istituti psichiatrici: il San Gaetano e Villa Donini, con un totale di circa 600 ricoverati.
Infine, l’ultimo luogo raccontato nelle pagine finali del libro è Freetown in Sierra Leone: si tratta dell’ospedale psichiatrico Kissy Mental, che era l’unico in tutto il Paese.

Questo libro mi ha colpito perché condivido con l’autrice l’interesse per la storia dei manicomi e delle tante vite legate a queste istituzioni. C’è sempre in questi luoghi qualcosa di misterioso, di segreto e di vergognoso, come se fossero luoghi sotterranei. Per questo siamo attratti nel desiderio di esplorarli e affascinati dalla ricerca del segreto, anche se, spesso, alla fine, ci troviamo davanti a vicende banali, di “ordinaria follia” e non riusciamo raggiungere una comprensione maggiore di quella dalla quale eravamo partiti.
Ho segnato un pezzo che mi ha colpito, che riguarda la passione per le ricerche negli archivi e per lo scavo nei faldoni, la curiosità che ci spinge, come dei “minatori”, a cercare tra le storie delle risposte:

“Questa stanza nel seminterrato di un edificio di un’isola sperduta nell’Egeo, con i suoi veli di ragnatele che sembravano millenarie, lo strato di polvere oleoso che ricopriva ogni cosa, per lei era un sogno … Una fila di faldoni scoloriti e in disordine. Registri annuali, cartelle di pazienti, fotografie, tutto affastellato senza un ordine cronologico, quasi scompigliato di proposito, come se conoscere la storia di quel posto e delle persone che ci erano finite dentro dovesse risultare impossibile a chiunque avesse osato metterci le mani in mezzo …  Forse, pensò Angela, dietro non c’era niente di strano o misterioso, niente che valesse la pena di essere indagato, davvero doveva trattarsi solo di incuria e disinteresse, perché in effetti le vite di quelle persone erano irrilevanti. Erano irrilevanti i loro nomi, le loro facce, le diagnosi a loro riferite, irrilevante la durata del loro passaggio in questo posto in particolare e, in generale, del loro passaggio sulla terra. Decine, centinaia, migliaia di disadattati, psicopatici, cerebrolesi, deficienti, handicappati, casi umani tutti diversi, ma in fondo tutti uguali”
(Pagine 64 65)

Dunque “irrilevanti”, da nascondere, da tenere lontani (non a caso i manicomi erano costruiti sempre lontani dalle città e addirittura nelle isole chiusa). Ma questo disordine dell’archivio corrisponde bene al disordine del “mondo di sopra”, dove si aggirano i “matti”, lasciati a se stessi, tra la sporcizia, oggetti di semplice custodia o peggio di contenzione, e mai di cura.

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martedì 7 febbraio 2017

Il mondo di ieri / Stefan Zweig

Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo / Stefan Zweig ; traduzione di Lavinia Mazzucchetti.  - Milano : A. Mondadori, 2015. - XVI, 371 p. ; 20 cm.

Incipit
"Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l'età d'oro della sicurezza. Nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria tutto pareva duraturo e lo Stato medesimo appariva il garante supremo di tale continuità. I diritti da lui concessi ai cittadini erano garantiti dal parlamento, dalla rappresentanza del popolo liberamente eletta, e ogni dovere aveva i suoi precisi limiti. La nostra moneta, la corona austriaca, circolava in pezzi d'oro e garantiva così la sua stabilità. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli era dovuto, quel che era permesso e quel che era proibito: tutto aveva una sua norma, un peso e una misura precisi. Chi possedeva un capitale era in grado di calcolare con esattezza il reddito annuo corrispondente; il funzionario, l'ufficiale potevano con certezza cercare nel calendario l'anno dell'avanzamento o quello della pensione. Ogni famiglia aveva un bilancio preciso, sapeva quanto potesse spendere per l'affitto e il vitto, per le vacanze o per gli obblighi sociali, e vi era anche sempre una piccola riserva per gli imprevisti, per le malattie e il medico. Chi possedeva una casa la considerava asilo sicuro dei figli e dei nipoti; fattorie e aziende passavano per eredità di generazione in generazione; appena un neonato era in culla, si metteva nel salvadanaio o si deponeva alla cassa di risparmio il primo obolo per il suo avvenire, una piccola riserva per il suo cammino. Tutto nel vasto impero appariva saldo e inamovibile e al posto più alto stava il sovrano vegliardo; ma in caso di sua morte si sapeva (o si credeva di sapere) che un altro gli sarebbe succeduto senza che nulla si mutasse nell'ordine prestabilito. Nessuno credeva a guerre, a rivoluzioni e sconvolgimenti. Ogni atto radicale, ogni violenza apparivano ormai impossibili nell'età della ragione",

"Sicurezza", "stabilità": parole lontanissime dal nostro tempo, dalla nostra società insicura, "liquida", senza certezze e piena di sfiducia e di rancore,
Zweig, in questo meraviglioso libro, racconta la sua vita dal periodo della giovinezza nella Vienna della belle époque alle tragiche vicende dei due periodi bellici, quelli della prima e della seconda guerra mondiale, che vive con profonda e dolorosa partecipazione.
Colpisce come la società di allora non avesse percepito i segnali che preannunciarono lo scoppio delle due guerre e si illudessero, fino all'ultimo, che la pace fosse ancora possibile.
Soprattutto non si resero conto della peste del nazionalismo che pervase le classi dirigenti e i popoli europei portandoli alla catastrofe.
Purtroppo, l'attualità sembra riportarci questa peste, allorché interi Paesi riscoprono l'orgoglio nazionale e ricercano nemici esterni, mentre si affievolisce il ricordo delle tragedie del Novecento
Il libro di Zweig è un'ode accorata ad un'Europa solidale, che riscopra la civiltà e lo spirito dei suoi tempi e dei suoi uomini migliori, superando i nazionalismi e gli egoismi.

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