mercoledì 22 agosto 2007

C'è grossa crisi

Sono un dipendente universitario, iscritto ormai da più di 20 anni alla CGIL. Da qualche tempo provo molto disagio per molte scelte sindacali, che mi sembrano fatte sempre con atteggiamenti difensivi e poco attenti alle situazioni reali.
In particolare ho spesso riscontrato, al di là di quanto viene scritto nei documenti sindacali, un atteggiamento di rifiuto dei sistemi di valutazione del personale, proposti con scarsa convinzione dall’Amministrazione pubblica. Credo che nel settore del pubblico impiego la valutazione sia essenziale e che non sia corretto aggrapparsi all’incapacità dei dirigenti di valutare, per bocciare ogni tentativo di premiare il merito e di adottare equilibrati sistemi di selezione.
Su questa questione, che tra l’altro è al centro del dibattito politico-sindacale, anche con interventi a mio avviso interessanti e provocatori (vedi Ichino: I nullafacenti), ho constatato un notevole ritardo in molte delle strutture sindacali e una grave mancanza di dibattito.
Si è creato un meccanismo perverso per cui, mentre a livello nazionale le OOSS firmano memorandum nei quali sottolineano l’importanza del merito e della selettività, nella pratica continuano a contrastare ogni anche minimo tentativo di vera valutazione, con la giustificazione che tanto i dirigenti non sanno valutare oppure prospettano sistemi di valutazione solo delle strutture, rifiutando la valutazione individuale.

Non sono nemmeno d’accordo che il Sindacato abbia potere decisionale o di veto sui sistemi organizzativi: il Sindacato dovrebbe essere informato sui criteri, sulle modalità della riorganizzazione, con la possibilità di avanzare proposte e suggerimenti, ma poi la dirigenza deve avere la sua autonomia e deve prendersi le sue responsabilità. Non è possibile alcuna efficienza, se non si può toccare niente e se, per fare uno spostamento o una riorganizzazione, è necessario avere prima il placet di tutti. In questo sistema non si fa altro che perpetuare una dirigenza pigra e inerte, un clima di stasi per mantenere tranquille situazioni di rendita e spesso di inefficienza.

Cos’è un servizio pubblico

Temo, tuttavia, al di là dei protocolli d’intesa firmati dalle OO.SS sul pubblico impiego nei quali si sottolinea l’importanza del merito e della valutazione, che ci sia, nella pratica concreta, un approccio sbagliato da parte del Sindacato in generale nei confronti dell’impiego pubblico.
Il pubblico impiego ha senso solo se è servizio per il pubblico e spesso ci si dimentica che il lavoro nel pubblico ha senso solo se si fa la “felicità” (o almeno la soddisfazione) dell’utente. Chi lavora alle dipendenze dello Stato dovrebbe sentire questa spinta in più, questo senso di svolgere un ruolo che è diverso da quello privato. Non si tratta di essere dei “missionari”, ma di avere coscienza di essere pagati con i soldi di tutti.
Ciò non significa accettare condizioni di sfruttamento o rinunciare ad avere uno stipendio adeguato, ma tanto più possiamo essere rivendicativi, quanto più il nostro lavoro è ritenuto utile, importante, qualitativamente efficace.
E’ così? No, se guardo ai servizi pubblici del nostro Paese, non mi sembra che sia così. Eppure i servizi pubblici in altri Paesi europei funzionano, sono molto più efficienti del nostro pur a parità di dipendenti.
Quando poi si parla di utenza è sbagliato riferirsi solo all’utenza particolare dei vari enti pubblici. Bisogna considerare anche la più vasta utenza che è il Paese nel suo complesso. I soldi pubblici dovrebbero servire per avere servizi efficienti, senza sprechi, a vantaggio di tutti i contribuenti italiani.
Ma una vera valutazione richiede Agenzie esterne e indipendenti, che sappiano valutare dirigenti e impiegati, attraverso efficaci griglie che misurino l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni, il raggiungimento degli obiettivi, la soddisfazione degli utenti, ecc.

Colpa dei dirigenti, colpa del Governo, colpa degli altri …

Di fronte a queste considerazioni, ognuno, nel nostro Paese, si difende dando la colpa agli altri, a chi sta sopra o a chi sta sotto. Non c’è mai una assunzione di responsabilità.
Ma credo che un sindacato serio dovrebbe porsi anche il problema di eliminare le sacche di inefficienza, denunciando chiunque non faccia il proprio dovere e rinunciando alla difesa corporativa.
In una relazione sindacale mi è capitato di leggere: “La polemica estenuante sui fannulloni del Pubblico Impiego non è certamente estranea alle dinamiche del rinnovo dei contratti pubblici: che la Pubblica Amministrazione abbia sacche non marginali di inefficienza e improduttività è questione che riguarda anche noi, interessati alla sua efficacia per il servizio nei confronti dei cittadini; ma ben altro è la polemica del tutto ideologica che in questi mesi si è aperta …”
Ecco il tipico “benaltrismo” di molta sinistra politica e sindacale. Si riconosce il problema, ma poi non si propone niente, nemmeno, ad esempio il licenziamento immediato dei dipendenti condannati in via definitiva.


Perché i giovani non si iscrivono al Sindacato?

Dopo tanti anni e tanti tentativi a vuoto di creare un ricambio generazionale all’interno delle strutture dirigenziali della CGIL, viene da chiedersi perché nonostante l’aumento del personale, i giovani non si iscrivano, né partecipino alla vita sindacale..
Ci saranno senz’altro responsabilità organizzative, difficoltà di impegnarsi nel lavoro sindacale, ma credo, sperando di sbagliare e di essere contraddetto, che non sia solo questo. Chi si iscrive al sindacato oggi lo fa perché viene da una tradizione familiare o personale di interesse per la politica: è un’adesione ideologica e quindi molto limitata.
Credo che la maggior parte non si iscriva per diversi motivi: perché si parla un linguaggio spesso vecchio e burocratizzato, ma soprattutto perché, in fondo, per i cosidetti “garantiti” i diritti fondamentali sono assodati e perché, nel complesso, non si sta male nel pubblico impiego. Magari si guadagna poco, ma in fondo c’è la possibilità, per molti, di trovare una propria nicchia. Insomma ci si adatta, magari brontolando e lamentandosi qualche volta. Se non si sta male, se i diritti sono garantiti, a cosa serve iscriversi al Sindacato? La lamentazione, un certo disagio si possono benissimo esprimere in qualche assemblea, tanto non si rischia niente.
Un sindacato di pura rivendicazione salariale, che si limita a fare gli accordi nazionali o decentrati, non suscita una grande attrazione, anche perché gli accordi li fa, magari in ritardo e senza grandi mobilitazioni.
Insomma non c’è bisogno di sacrifici e di lotte dure, anche perché non ci sentiamo “sfruttati”. Se fossimo sfruttati, ci ribelleremmo con forza, ma la parola “sfruttamento” non è utilizzabile nel pubblico impiego per il personale a tempo indeterminato, anche se poi si trova sempre chi sventola le bandiere ideologiche come i sindacati dell’ultrasinistra.
Invece ci sarebbe tanto bisogno di trovare “soddisfazione, felicità, significato” nel lavoro che facciamo, “per perseguire in modo trasparente e giudicabile la missione assegnata”. Anche il protocollo usa la parola "missione": ma poi se ne dimentica immediatamente e nelle contrattazioni si parla solo di soldi: Più soldi alla scuola, all’Università e alla ricerca non servono a niente se non c’e’ una valutazione dei risultati e di come i soldi vengono spesi.
Invece si svalorizza il lavoro, quando lo si considera solo in termini economici o quando lo si vede come una “maledizione” da concludere in fretta per andare in pensione, magari a 57 anni (all’Università fa ridere pensare che uno a 57/60 anni DEBBA andare in pensione).

Sulle pensioni

E vengo all’ultimo motivo di dissenso con le linee attuali del Sindacato: il tema delle pensioni e, in particolare, dell’aumento dell’età pensionabile.
I sindacati, ormai da anni, ci dicono che non è necessario 1) aumentare l’età pensionabile, 2) cambiare i coefficienti e adeguarli all’aumento del tempo di vita e che si possono 3) aumentare le pensioni basse, 4) eliminare il lavoro precario.
Di fronte a queste posizioni mi sembra di vivere nel paese di Bengodi, dove, nonostante l’enorme debito, riusciamo ad accontentare tutti.
Io non so se hanno torto o ragione le organizzazioni sindacali oppure gli economisti, la Banca Europea, la Commissione europea che un giorno sì e l’altro pure ci invitano a modificare il nostro sistema pensionistico.
Tuttavia vorrei solo che mi si dimostrasse che Paesi come la Germania sono in mano a governanti idioti, dal momento che hanno portato l’età pensionabile a 67 anni per gli uomini, nonostante i tedeschi vivano in un Paese democratico e in presenza di sindacati abbastanza forti. Ma la media dell’età pensionabile è quasi dovunque superiore a quella italiana, in Paesi che non hanno un debito pubblico paragonabile al nostro
Bisognerebbe allora ragionare non in modo ideologico, accettando l’aumento dell’età pensionabile (con incentivi e disincentivi), escludendo i lavori usuranti e, in cambio, chiedendo una vera uniformazione dei sistemi pensionistici dei diversi settori e l’eliminazione dei trattamenti privilegiati per certe categorie.
Certo che finché nei documenti sindacali si scrive: “Non siamo interessati a riforme punitive che si occupino di ciò che accadrà tra 30 anni. Siamo più interessati ai prossimi 5 anni, e su questi vogliamo proposte e risultati”, siamo proprio lontani da qualsiasi ipotesi di prospettare un futuro sostenibile per chi andrà in pensione tra qualche anno. E comunque la logica del “risultato immediato” è quella che ci ha portato al debito pubblico più alto in Europa ed è la stessa che, su un piano diverso, non fa niente per l’emergenza climatica.

il cannocchiale

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