sabato 11 settembre 2010

Bea vita! Crudo Nord Est di Romolo Bugaro


Incipit:
Parto da una nota personale, personalissima, diciamo pure intima, anche se non proprio clamorosa, visto che potrebbe essere sottoscritta da un esercito di persone.
Per arrivare subito al punto ricorro alla musica e precisamente a Creep, vecchio e magnifico pezzo dei Radiohead. Il ritornello della canzone dice: What the hell am I doin' here / I don't belong here ...
Che ci faccio in questo posto? Io non appartengo a questo posto.
E' la sensazione che provo ogni giorno, da sempre. Come la stanchezza quand'è tardi. Potevo confessare di meglio, mi rendo conto. Tuttavia è un problema diffuso. Si tratta di un senso di isolamento, incompatibilità ed esclusione (con sottili venature ideologiche) capace di schermare e rendere fuori portata le vite normali degli altri e capace di spingere in modo continuo, come una centrifuga, verso l'esterno.

Un testo incisivo e sferzante sul nordest, sullo spreco di vite dedicate al consumo, al denaro, all'immagine. Vite adattate, senza speranze, chiuse e opache. Qui è difficile vivere per i non-insediati.
Bugaro le descrive, queste vite, senza giudicarle apertamente, ne mette in evidenza tutti gli aspetti come scrivesse un diario clinico, senza mai nominare la malattia. Siamo noi che dobbiamo cercare di completare la diagnosi. Quanto alla terapia, proprio non c'è.
Il senso di estraneità rispetto al mondo del nordest lo condivido interamente, consapevole delle accuse di snobismo che ritengo scontate. Non ho mai sopportato il localismo, il provincialismo e ora il leghismo che è la suprema incarnazione di localismo e provincialismo. Non riesco a leggere l'Arena, il giornale della mia città, al massimo lo sfoglio, ho bisogno di Repubblica e di Internazionale. Ho bisogno di scappare, di evadere. Vado in vacanza in Grecia, o all'estero comunque, per uscire da un mondo chiuso e asfittico. Ho sempre invidiato i toscani, gli emiliani e anche i mantovani, magari idealizzandoli e mitizzandoli. Insomma capisco molto bene i non-insediati in questa regione sempre più degradata sia culturalmente che esteticamente. E, se non avessi legami pratici qui, cambierei città e regione. In esilio volontario.


La sapienza secondo Montaigne


Capita alle persone veramente sapienti quello che capita alle spighe di grano: si levano e alzano la testa dritte e fiere finché sono vuote, ma quando sono piene di chicchi cominciano ad umiliarsi e ad abbassare il capo.

Montaigne

Storia secondo Musil


Il cammino della storia non è quello di una palla da biliardo, che segue una inflessibile legge causale; somiglia piuttosto a quello di una nuvola, a quello di chi va bighellonando per le strade, e qui è sviato da un'ombra, là da un gruppo di persone o dallo spettacolo di una piazza barocca, e infine giunge in un luogo che non conosceva e dove non desiderava andare.

Musil

Ritratto



Ritratto è nello stesso tempo copia di una persona, immagine che la riporta alla memoria e alla conoscenza (da ritraho) e oggetto che sostituisce un'assenza, che cerca di renderla presente (da protraho), verbo cui si ricollega il nome in inglese e in francese (portrait).

domenica 29 agosto 2010

I Vicerè di Federico De Roberto



Incipit:
Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell'arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s'udì e crebbe rapidamente il rumore d'una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto sul quale pareva avesse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall'arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano, intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano.
"Don Salvatore?... Che c'è?... Che novità?..."
Ma quegli fece col braccio un gesto disperato e salì le scale a quattro a quattro.
Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, non comprendendo; ma sua moglie, la moglie di Baldassarre, la lavandaia,
una quantità d'altri servi già circondavano la carrozzella, si segnavano udendo il cocchiere narrare, interrottamente:
"La principessa... Morta d'un colpo... Stamattina, mentre lavavo la carrozza..."
"Gesù!... Gesù!..."

Un bellissimo romanzo che racconta la storia di una nobile famiglia siciliana, di discendenza spagnola, gli Uzeda. Parla delle rivalità tra i parenti, della loro lotta per mantenere e accrescere ricchezza e potere, utilizzando ogni possibile mezzo, sullo sfondo della storia d'Italia, negli ultimi anni dell'Ottocento. In realtà è la storia e la descrizione, almeno per quanto mi ha colpito nel libro, del carattere degli italiani (non solo dei siciliani): emerge la mancanza di valori, il trasformismo politico, l'ipocrisia religiosa, l'assenza di scrupoli. Tutto viene raccontato con un linguaggio scorrevole, senza che l'autore (in base ai criteri veristi) intervenga e commenti dall'esterno. Le parole e le azioni dei tanti personaggi che si alternano e interagiscono sono più che sufficienti a creare un mondo dove domina la falsità, l'arroganza, l'ipocrisia. Una visione totalmente pessimistica nella quale non si salva nessuna classe sociale, nemmeno il popolo che si lascia ingannare dalle parole e dai lustrini del potere, in questo caso dal fasto della nobiltà. In questo senso è un libro attualissimo (purtroppo!).

Personaggi:
Baldassarre: il maestro di casa, sempre fedele e pronto a sopire le dicerie della servitù, ma alla fine abbandona la casa, deluso per il matrimonio imposto a Teresina. Lo rivedremo tra i sostenitori di Don Raimondo, nella sua fase politica.

Donna Teresa Risà in Uzeda: principessa di Francalanza di Mirabello, figlia del barone di Riscemi, sposa il principe Consalvo Uzeda di Francalanza, più giovane di lui di dieci anni, con cui dà alla luce 7 figli. Dopo la prematura morte del marito, si dedica da sola all'amministrazione dello sterminato patrmonio della famiglia. L'annuncio della sua morte e la lettura del testamento danno l'avvio al romanzo.

Il signor Marco: l'amministratore dei beni della principessa. Resta in servizio anche dopo la sua morte, ma in seguito verrà licenziato.

Padre Don Blasco Uzeda: cognato della principessa Teresa, benedettino vizioso e collerico, seminatore di zizzannia nella famiglia, costretto in gioventù a prendere i voti, conduce una vita tutt'altro che ispirata ai valori cristiani (la Sigaraia è la sua amante fissa); dopo l'Unità d'Italia e la soppressione dell'ordine benedettino è ridotto allo stato laicale e ricompra all'asta alcuni dei beni del suo ex convento. Dal suo iniziale sostegno ai Borboni, si sposta per interesse su posizioni liberali.

Padre Don Ludovico Uzeda: priore e poi cardinale, secondogenito della principessa Teresa, costretto a farsi monaco, diventa priore del convento dei Benedettini e poi cardinale. E' odiatissimo da Don Blasco.

Donna Ferdinanda Uzeda: cognata della principessa Teresa, detta "la zitellona", rimasta nubile per volere delle famiglia, riesce da sola ad accumulare un cospicuo patrimonio, attraverso l'usura. Gretta e ignorante, è appassionata di araldica della storia della nobiltà e della sua famiglia. Sempre fedele ai Borboni e contraria all'Unità d'Italia.

Angiolina: la monaca di San Placido, figlia della principessa, costretta a farsi suora con il nome di Suor Maria Crocifissa.

Donna Graziella: cugina del primogenito Uzeda, don Giacomo. Da giovani i cugini avrebbero voluto sposarsi, ma la volontà della principessa Teresa impose al figlio di sposare donna Margherita. Sempre presente nelle vicende famigliari, riesce a barcamenarsi, alleandosi sempre con i vincenti e, alla fine, corona l suo sogno e sposa Giacomo, rimasto vedovo.

Don Giacomo Uzeda: principe di Francavlla, primogenito della principessa Teresa e del principe Consalvo, è odiato dalla madre che gli preferisce il fratello più giovane, Raimondo. Avido, aggressivo e superstizioso, sposa donna Margerita per volontà della madre (vedi Donna Graziella). Dopo la morte della madre, pur essendo il primogenito è costretto a dividere l'eredità con il fratello Raimondo. Userà ogni mezzo per impossessarsi di tutta la ricchezza famigliare e alla fine ci riuscirà. Morirà di cancro, dopo aver diseredato il primogenito Consalvo e aver nominato erede universale la figlia Teresina.

Donna Lucrezia Uzeda: figlia della principessa Teresa, sposa, dopo la morte della madre e contro la di lei volontà, l'avvocato Benedetto Giulente, impegnato nei moti risorgimentali e poi in politica. Il matrimonio fortemente voluto da Lucrezia è reso possibile dal fatto che, con l'Unità d'Italia, anche gli Uzeda devono accettare di interagire con la borghesia liberale emergente.

Donna Chiara Uzeda: figlia della principessa Teresa, sposata con il marchese Federico di Villardita. Sempre in lotta per la maternità, alla fine, dopo aver abortito, costringe il marito a fare un figlio con una serva, suscitando scandalo. Passerà la fine della sua vita ritirata in campagna e schiavizzata dal figlio tanto desiderato.

Don Ferdinando Uzeda: figlio della principessa Teresa, detto "il babbeo". Vive ritirato in un podere, sperimentando costosi e inutili interventi agricoli. In seguito viene colto dalla paranoia per le malattie e accumula libri che parlano di medicina. Infine muore rifiutando di curarsi per paura che i dottori lo avvelenino. Vive alla Pietra dell'Ovo, almeno nella fase "agricola" della sua vita.

Don Raimondo Uzeda: conte di Lumera, figlio prediletto della principessa Teresa, amante del lusso, delle belle donne e del gioco, sposa, per volontà della madre, in prime nozze la baronessina milazzese Matilde Palmi, da cui ha due figlie, Teresa e Lauretta. Dopo la morte di Matilde, sposa Donna Isabella Fersa. Coerede, insieme al fratello Giacomo dello sterminato patrimonio degli Uzeda, sparisce dalla scena in seguito allo scandalo per i suoi rapporti con l'amante Isabella Fersa, che frequenta in modo sfacciato, umiliando la moglie. Di queste sue debolezze ne approfitterà il fratello Giacomo, che lentamente riuscirà ad impossessarsi dell'intero patrimonio.

Baronessa Matilde Palmi: moglie infelice del conte Raimondo, malvista da tutta la famiglia del marito, perchè considerata poco nobile rispetto agli Uzeda. Il marito la tradisce continuamente e apertamente e, alla fine, morirà di dolore, lasciandolo vedovo e libero di sposarsi con donna Isabella Fersa.

Don Gaspare Uzeda: duca d'Oragna, cognato della principessa, deputato al Parlamento e poi senatore del Regno; inizialmente borbonico, fiutando il rivolgimento dell'assetto politico, prima si barcamena e poi sposa la causa dei liberali che lo sosterranno nella carriera politica; eletto deputato, anche grazie all'aiuto dell'avvocato Giulente, marito della nipote Lucrezia, pur non essendo in grado di sostenere un discorso in pubblico, si barcamenerà per anni tra la destra e la sinistra storica, fino a diventare senatore.

Don Eugenio Uzeda: cognato della principessa Teresa, appare come un fallito prima nella sua iniziativa di avere un ruolo alla corte dei Borboni, poi come "archeologo e, infine, come editore e curatore di un libro sulla nobiltà siciliana, che cerca di vendere ai parenti. Sempre in miseria e mal vestito, muore senza ricevere alcun aiuto.

Consalvo Uzeda: figlio primogenito di Giacomo, il principe, e della principessa Margherita. Viene mandato giovane nel convento dei Benedettini, dal quale non vede l'ora di fuggire. Sempre in lotta con il padre, dopo un periodo di giovanile spensieratezza durante il quale sarà protagonista di bravate con altri compagni poco raccomandabili, far un lungo viaggio all'estero. Al ritorno si immergerà nei libri e inizierà l'ascesa politica, spostandosi a seconda del vento e riuscendo a diventare prima sindaco e poi deputato. Il padre lo diserederà in punto di morte per il suo rifiuto di sposarsi e di dare un erede al casato.

Benedetto Giulente: marito di Lucrezia, liberale, sempre attivo nei moti risorgimentali (ferito al Volturno), metterà la sua capacità al servizio di Don Gasapre Uzeda, nella speranza di diventare deputato. Ma sarà Consalvo che gli ruberà il posto agognato.

Teresina Uzeda: secondogenita di Giacomo e sorella di Consalvo, viene mandata da piccola in collegio a Finze. Umile e rispettosa, al contrario del fratello, soggiogata dalla figura autoritaria del padre e dall'influenza dei religiosi, accetterà di sposare Michele, anziché il fratello Giovannino, suo cugino, di cui è segretamente innamorata. Eredita tutta la proprietà Uzeda, alla morte del padre, ma poi si accorderà con Consalvo per una suddivisione più equa.

Giovannino Radalì: "il figlio del pazzo" (duca Mario), cugino di Consalvo, di cui fu compagno in monastero. Destinato alla vita monastica dalla madre, che vuole favorire il fratello primogenito Michele. Si salverà per la soppressione dei monasteri dopo l'Unità. Innamorato di Teresina, destinata a suo fratello, si ritira deluso in campagna. In seguito ad un grave attacco di malaria, ritorna in famiglia, si riprende e sembra riaccendersi l'amore represso tra lui e la cognata Teresina, ma vista l'impossibilità di coronare il suo sogno, si suicida.

Margherita: la principessa, moglie imposta a Giacomo. Sempre sottomessa al marito, svolge il ruolo di moglie e madre in silenzio e, alla fine, lascia alla cugina del marito, donna Graziella, il ruolo di padrona di casa. Ammalata di colera, muore e, con la sua morte, rende possibile il l'agognato matrimonio tra Giacomo e donna Graziella.

MicheleRadalì: fratello di Giovannino, primogenito, sposerà Teresina, pur non essendo amato, per volontà della madre. Cugino d Consalvo e di Teresina.

Donna Caterina Bonella: moglie del duca Mario Radalì (il pazzo), col quale ha due figli, Michele e Giovannino.

Fra Carmelo: fratello bastardo di Don Blasco, gli fa da servitore devoto e umile. Cura l'educazione di Consalvo in convento, esaltando la memoria e il ruolo del monastero benedettino. Con la chiusura del convento, vagherà quasi impazzito, sopportato a stento dagli ex monaci che, al contrario di lui, si sono rapidamente adattati ai tempi nuovi (vedi Don Blasco).

Donna Isabella Fersa: moglie del ricco conte Fersa, lo abbandona per amore di Raimondo, suscitando scandalo.

Federico: marchese di Villardita, marito di Chiara e succube della moglie. Accetterà di fare un figlio (Tancredi) con la sua serva pur di accontentare il desiderio di maternità della moglie.

Garino: marito di Lucia (la sigararia), che è l'amante di don Blasco. Gli fa da servitore e barbiere, ubbidendo a tutti i suoi voleri, disponibile anche a portare le corna pur di guadagnare.

Lucia: la sigaraia, amante di Don Blasco, mantenuta con il marito Garino dal vecchio monaco.

Ecco come nel romanzo vengono sintetizzati i personaggi principali:

Sette figlioli, possiamo contarli: il principe Giacomo e la signorina Lucrezia che è in casa con lui: due; il Priore di San Nicola [Ludovico] e la monaca di San Placido [Angiolina, suor Crocifissa]: quattro; donna Chiara, maritata col marchese di Villardita [Federico]: e cinque; il cavalier Ferdinando che sta alla Pietra dell'Ovo: sei; e finalmente il contino Raimondo che ha la figlia del barone Palmi [Matilde] ... Poi vengono i cognati; i quattro cognati: il duca d'Oragna [Gaspare], fratello del principe morto, padre don Blasco, anch'egli monaco benedettino, il cavalier don Eugenio e donna Ferdinanda, la zitellona ...

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mercoledì 11 agosto 2010

Il viaggiatore e il chiaro di luna / Antal Szerb


Incipit:
In treno filò tutto liscio. I problemi cominciarono a Venezia con le calli. La ragnatela di calli apparve a Mihaly a destra e sinistra appena il motoscafo si staccò dal pontile della fermata e lasciò il Canal Grande per seguire una scorciatoia. Ma in quel momento non prestò loro grande attenzione perché il suo interesse era totalmente assorbito dalla "venezianità" di Venezia: l'acqua in mezzo alle case, le gondole, la laguna, la limpidezza dei tetti color rosso-rosa. Perché Mihaly si trovava in Italia per la prima volta, a trentasei anni, in viaggio di nozze.

I personaggi:
Mihaly: il protagonista, sembra u eterno adolescente, lscia la moglie durante il viaggio di nozze e inizia un lungo pellegrinaggio in Italia, per ritrovare se stesso e per guarire dalla "nostalgia" delle sue amicizie adolescenziali.
Erzsi: la moglie abbandonata di M., che si trasferisce a Parigi. Anche lei cerca di ricostruire se stessa e alla fini si ritrova e si riconosce nella sicurezza "borghese" del matrimonio precedente con Zoltan Pataki.
Zoltan Pataki: ex marito di Erzsi, fa di tutto per riconquistarla e, alla fine ci riesce.
Tamas Ulpius: l'amico suicida di M, che ha un'enorme influenza su di lui. La sua ombra lo accompagna fno al tentativo fallito di suicidio del finale.
Eva Ulpius: la sorella di Tamas, della quale anche M. è innamorato. Il viaggio di M. e il soggiorno a Roma hanno lo scopo di ritrovare Eva e la liberazione dal suo fantasma, sarà anche la sua liberazione.
Janos Szepetneki: l'amico "borderline" di M., un disonesto intrallazzatore, dal carattere forte. E' l'opposto di M.
Ervin: l'amico ebreo, poi cattolico di M. Partecipa in giovinezza al circolo degli Ulpius ed è innamorato di Eva. Poi ha una conversione profonda e diveta frate francescano. M. lo incontrerà nel convento di Gubbio (Pater Severinus) e cercherà auto da lui. Muore di tubercolosi.
Waldheim: studioso di storia delle religioni, accompagna M. per un certo periodo nel suo soggiorno romano e gli parla della morte come desiderio erotico.
Italia (Paese): è uno dei protagonisti del romanzo. Tutta la storia si svolge in Italia e parla di un viaggio in Italia, tipico degli intellettuali del nord Europa. Oltre a Venezia, c'è la Toscana, l?Umbria (Gubbio, Foligno) e, soprattutto, Roma.

E' molto interessante l'inizio del libro e tutto il racconto della fase adolescenziale che è molto coinvolgente. Emergono le amicizie intense e totalizzanti, i rapporti ambigui, le paure, le sfide che sono tipiche dell'adolescenza. Anche un certo romanticismo, caratteristico di tante fasi giovanili. Poi, a mio avviso, il romanzo si perde u po' e questa fase adolescenziale appare troppo prolungata nel protagonista. Ci sono delle cadute ingenue e passaggi troppo bruschi e poco credibili. Non c'è mai un vero scontro tra i personaggi e tutto appare morbidamente superabile. Più avvincente e realistica è la parte finale in cui M. esce dal suo torpore e proprio la banalità del reale (il battesimo, l'ubriacaura con gli italiani) sembra salvarlo dal suo mondo sotterraneo.
Interessante l'Italia vista dall'occhio stralunato di Mihali, molto diversa dall'immagine di un italiano: sembra quasi, per la sua forza ammaliatrice, un paese orientale, misterioso, esotico.

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sabato 31 luglio 2010

Dopo molte estati / Aldous Huxley


Ho comprato questo libro in una libreria antiquaria, essendo irreperibile nelle biblioteche vicine. Era il libro citato dal protagonista del film "A single man" di Tom Ford. Chissà perché mi aveva colpito. Me lo sono procurato e non sono pentito.


Incipit:
Avevano stabilito tutto per telegramma: Geremia Pordage doveva cercare un autista negro in uniforme grigia con un garofano all'occhiello; l'autista negro doveva cercare un inglese di mezza età che portava in mano le Opere poetiche di Wordsworth. Sebbene la stazione fosse affollata, si trovarono senza difficoltà.
"L'autista del signor Stoyte?"
"Il signor Pordage""
Geremia annuì e, col suo Wordsworth in mano e l'ombrello nell'altra, tese un poco le braccia, un gesto di manichino implorante, che esibisse, con piena e umoristica coscienza dei propri difetti, una figura meschina, accentuata dal più ridicolo fra i vestiti. "Eccomi" pareva voler dire "eccomi qui, povere cosa, ma così sono io". Il diminuirsi come misura difensiva e per così dire profilattica, era diventato un'abitudine per lui".

Il romanzo è ambientato a Los Angeles, con riferimenti a Beverly Hills (qui tradotto "colline Beverly") e ad Holliwood. Inizia con l'arrivo a Los Angeles di Geremia Pordage, uno studioso inglese, su invito di un ricco magnate, Beppe Stoyte, per schedare un vecchio archivio di una famiglia nobliare inglese.
Beppe Stoyte in realtà non è affatto interessato alla cultura. Se ne serve solo per esibire la sua enorme ricchezza. Vive in una specie di castello (che Pordage chiama "l'Oggetto" e che ha ispirato quello di Citizen Kane nel film di Orson Wells), pieno di opere d'arte (addirittura un Vermeer nell'ascensore). Beppe - meglio Joseph (ma qui i nomi di questa vecchia traduzione sono tutti italianizzati) - è ossessionato dalla morte ed è vittima inconsapevole del suo consulente medico, il dottor Obispo, che sfrutta la paura del magnate per spillargli denaro e per poter fare ricerche sulla longevità. Per i suoi esperimenti studia le carpe che vivono centinaia di anni, con lo scopo di scoprire il loro segreto e di utilizzare i risultati per aumentare la durata della vita umana. Obispo approfitta della sua influenza su Stoyte per amoreggiare con la sua bimba amante, Virginia, una ragazza facilmente corrompibile, nonostante la sua superficiale fede nella Madonna. Le ricerche di Obispo sulla longevità delle carpe troveranno una conferma nelle carte consultate da Pordage, in particolare nel diario di un vecchio nobile inglese che racconta la sua esperienza e la scoperta del potere vitale ottenuto mangiando gli intestini di questo pesce.
Altri personaggi, non secondari, sono Pete, vittima innocente delle gelosia di Slyte, e Propter, il filosofo che vive in maniera semplice e indipendente. Sono i dialoghi tra Pete e Propter e, soprattutto, i lunghi discorsi di Propter che percorrono il romanzo nella parte filosofica. La filosofia di Propter è una vera e propria filosofia stoica: "liberazione dalla personalità, liberazione dal tempo e dalla brama, liberazione dentro l'unione con Dio". In particolare - e questa è la parte più interessante - la lotta per affermare gli ideali, secondo Propter, non è altro che una forma, ancora più pericolosa, di affermazione dell'ego.
"Il sacrificio di se stesso ad una causa che non sia la più alta è il sacrificio a un ideale, che è semplicemente una proiezione dell'ego"
Propter vede che il male pervade il mondo e sembra quasi suggerire una posizione di "non impegno", di azioni limitate, senza avere la pretesa di imporre il bene. Alla fine del romanzo sembra che il male prevalga sul bene: c'è un assassinio non punito e un colpevole che la fa franca. Ma Propter direbbe che ciò è indifferente: il male è parte dell'uomo e, finché l'uomo non riuscirà ad affermare il piano dell'animalità e quello della spiritualità (contrapposti al piano dell'umanità), non ci sarà nulla da fare e la morte di Pete, sul piano generale ella vicenda umana, è solo un accidente.

Il testo è molto scorrevole, con qualche lungaggine nella parte "filosofica". Bellissima la lettera che Geremia scrive alla madre, nella quale ci offre un interessante quadro di rapporto edipico, accettato e consapevole, anzi rivendicato con orgoglio (Parte II, cap. 1). Riporto solo la parte finale della lettera, ma varrebbe le pana di leggerla tutta:
"Bene, non ho altro da dire, come solevo scrivere quando ero a scuola - e a caratteri grandi, ricordate?, nello sforzo di far sì che le parole riempissero una mezza pagina del quaderno. Non ho altro da dire, tranne, naturalmente, l'indicibile, e quello lo lascio non detto perché voi lo conoscete già".
E' una bella frase anche per concludere questa nota.

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sabato 24 luglio 2010

Senilità di Italo Svevo


Incipit:
"Subito, con le prime parole che le rivolse, volle avvisarla che non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria. Parlò cioè a un dipresso così: – T'amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d'accordo di andare molto cauti. – La parola era tanto prudente ch'era difficile di crederla detta per amore altrui, e un po' più franca avrebbe dovuto suonare così: – Mi piaci molto, ma nella mia vita non potrai essere giammai più importante di un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia"

Personaggi:
Emilio Brentani: il protagonista, vorrebbe vivere una semplice avventura con Angiolina, pensando di controllare razionalmente la storia e, invece, inganna gli altri e, soprattutto, se stesso. La sua è una storia di menzogne e di auto illusioni. E' lui l'"assassino" della sorella Amelia?
Angiolina: una ragazza facile che racconta bugie, ma che, alla fine, sembra anche il personaggio più autentico, nel senso che almeno non inganna se stessa. E' sempre vista con gli occhi degli altri: o di Emilio o dell'amico Stefano o di altri ancora che riferiscono quello che fa. E' Emilio che la vuole vedere diversa da quello che è e la "costruisce" e che nel finale la trasforma in un simbolo ideale: Angiolina, in realtà, è la vita, la giovinezza, la libertà che Emilio vorrebbe possedere, senza riuscirci, anche perché mai è disposto a mettere in gioco la sua monotona vita impiegatizia.
Amelia: la sorella di Emilio, una "vita strozzata", "nata grigia", coinvolta senza volerlo nella vicenda del fratello, che la trascura per vivere la sua avventura con Angiolina. Anche lei vive una specie di "avventura" immaginaria, durante il delirio della malattia, quando immagina il matrimonio con Stefano, lo scultore amico di Emilio. La passeggiata con Stefano e il fratello è l'unico momento vitale di questo personaggio, che muore tragicamente, portando con sé il segreto che è la causa della malattia.
Stefano Baldi: l'artista un po' fallito, amico di Emilio: Ma è veramente un amico? O prevale in lui la volontà di dominare, di primeggiare, come quando, uscendo in compagnia con Emilio, Angiolina e Giulia, vuole far vedere la sua forza, la sua capacità di dominare le donne, umiliando Emilio che appare, invece, debole e inetto.

La parola "inettitudine" alla vita è quella che più esprime i caratteri dei personaggi e che caratterizza il romanzo: inettitudine non tanto come incapacità di affrontare e superare eventi tragici, ma semplicemente come incapacità di esprimere i propri sentimenti in modo autentico e di opporsi alla forza misteriosa che sembra costringerli a vivere nella menzogna e nell'auto inganno (appare qui evidente il riferimento alla "volontà" di Schopenhauer).

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sabato 10 luglio 2010

L'eresia si Spinoza / Steven Nadler


L' eresia di Spinoza. L'immortalità e lo spirito ebraico di Steven Nadler. Torino : Einaudi, c2005

Incipit:
E' uno splendido mistero. Nel 1656, Bento de Spinoza aveva ventitré anni. Era un rampollo di una famiglia abbastanza in vista, ma non troppo ricca, della comunità sefardita di Amsterdam ...Aveva grandi doti intellettuali che certo non erano passate inosservate agli occhi dei rabbini. Forse Baruch (nome che significa, sia in ebraico sia in portoghese, "benedetto") era stato addirittura destinato a una carriera di rabbino. A diciassette anni, invece, fu costretto a interrompere gli studi. Il fratello maggiore, Isaac, era infatti morto nel frattempo, cosa che costrinse il giovane Bento a occuparsi degli affari di famiglia, impegnata in attività commerciali. nel giro di pochi anni, sul finire del 1654, quando anche il padre morì, Spinoza si ritrovò alla guida della ditta di famiglia ... Poi il 27 luglio 1656 ... il seguente proclama fu letto in ebraico, dinanzi all'arca della Torah, nell'affollatissima sinagoga dell'Houtgracht:

I Senhores della ma' amad da lungo tempo a conoscenza delle opinioni e delle azioni malvagie di Baruch de Spinoza, hanno cercato in vari modi e con diverse promesse di farlo tornare sulla retta via. Ma non essendo riusciti a correggerlo in alcun modo e continuando viceversa a ricevere quotidianamente informazioni fondate sulle abominevoli eresie che egli ha compiuto e insegnato, nonché dei suoi atti mostruosi, e disponendo di numerosi testimoni credibili ... hanno deciso ... che il suddetto Espinoza sia scomunicato ed espulso dal popolo di Israele. Su decreto degli angeli e su ordine dei santi, noi scomunichiamo, espelliamo, malediciamo e danniamo Baruch de Espinoza ... che egli sia maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando rientra. Il Signore non lo risparmierà: al contrario, la collera del Signore e la sua gelosia su abbatteranno su quest'uomo, e tutte le maledizioni scritte in questo libro [la Torah] penderanno su di lui, e il Signore cancellerà il suo nome da sotto il cielo. Il Signore lo allontanerà con tutto il male dalle tribù di Israele, in obbedienza a tutte le maledizioni scritte in questo libro della legge"

Il libro cerca di rispondere alla domanda del perché verso Spinoza fosse proclamato un cherem (bando) così duro, il più duro mai emesso dai rabbini della comunità ebraica di Amsterdam. Vengono analizzate le posizioni filosofiche di Spinoza, in rapporto alle opere di carattere religioso scritte dai rabbini di Amsterdam, della produzione di Maimonide e di Gersonide, i più influenti filosofi ebrei. Il punto nodale che emerge e che spiega, alla luce delle argomentazioni dell'autore, la durezza del cherem, è la questione dell'immortalità dell'anima e della sua sopravvivenza dopo la morte, negata decisamente da Spinoza. Tale negazione, che pure in un contesto diverso avrebbe potuto essere tollerata, in quanto non facente parte dei dogmi della religione ebraica, nella particolare situazione politica degli ebrei olandesi, fuggiti dalle persecuzioni spagnole, molti dei quali ex conversos (ex convertiti con la forza al cattolicesimo) e, quindi, timorosi di scontentare le autorità olandesi, apparve scandalosa e intollerabile. Spinoza diventa un caso emblematico, per cui la sua negazione dell'immortalità dell'anima deve essere punita in modo esemplare. Ma lasciamo parlare l'Autore che, nella parte finale, sintetizza con chiarezza i motivi di un bando così duro:
"Solo, il bando di Spinoza ... è particolare: è il più violento e collerico mai pronunciato dai chachamin di Amsterdam. E ciò per una ragione precis, come ho cercato di mostrare, ossia perché una certa tesi di Spinoza era davvero intollerabile. Oltre a negare la paternità mosaica del Pentateuco, oltre a sostenere che Dio esiste solo in un senso filosofico, Spinoza negava l'immortalità dell'anime. E la Amsterdam ebraica del seicento non era certo il posto giusto per farlo".
Interessanti anche le pp. 178-185 sull'utilizzo della speranza e del timore da parte delle istituzioni religiose (ma anche di quelle politiche) per controllare e tener a bada i fedeli e i sudditi.

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sabato 5 giugno 2010

Fuoco pallido di Valdimir Nabokov


Incipit:
Fuoco pallido, poema in distici eroici si novecentonovantanove versi, suddivisi in quattro canti, fu composto da John Francis Shade (nato il 5 luglio 1898 e morto il 21 luglio 1959) durante gli ultimi venti giorni di vita, nella sua abitazione di New Wye, Appalachia, USA. Il manoscritto, quasi per intero una Bella Copia dalla quale è stato fedelmente tratto il presente testo a stampa. consiste di ottanta schede di formato medio ....

Sembra un inizio di un libro noioso, scritto da un professore "trombone" pignolo, ma, in realtà, alla seconda lettura (che ritengo indispensabile) tutto appare meraviglioso e coinvolgente, una sfida che rallegra il cuore e il cervello.
Definito un "metaromanzo", è composto in realtà da quattro opere, che richiedono di saltare, faticosamente (ma ne vale la pena!) da una pagina all'altra.
La prima opera è la Prefazione, firmata da Charles Kimbote, un personaggio che nel corso del romanzo si rivela essere stato il re di Zembla, fuggito dalla sua terra in modo rocambolesco. Ma forse dietro Kimbote potrebber nascondersi anche altre identità: oltre al re di Zembla, il professor Botkin (anagramma di Kimbote), un pazzo, oppure lo stesso Shade che fingerebbe di essere oltre che l'autore del poema, anche il prefatore e il commentatore.

La seconda opera è il poema "Fuoco pallido", in quattro canti, che inizia così:

Ero l’ombra del beccofrusone ucciso
dal falso azzurro nel vetro:
ero il fumo denso di peli bruciati – e io
vivevo, volavo, nel cielo riflesso.
E dall’interno, poi, avrei duplicato
me stesso…

Il Poema parla della vita di Shade (ombra), dell'amore per la moglie Sybil (odiatissima da Kimbote), del suicidio della figlia.

La terza opera è il Commento di Kimbote, che occupa la maggior parte delle pagine del libro. Si presenta come commento al poema, ma in realtà è la visione di un commentatore deluso e talvolta polemico, che si aspettava di aver influenzato con le proprie storie la poesia di Shade, ma che si accorge che l'opera parla di tutt'altro.
Kimbote si vendica e, nel commento, parla pe la maggior parte della storia del re di Zembla (cioè di se stesso), della sua prigionia dopo la Rivoluzione estremista, della sua fuga tra le montagne, del tentativo di un sicario (Gradus) di uccidere il re, dopo una lunga ricerca per rintracciarlo.
I personaggi principali del romanzo sono quindi John Shade (il poeta ammirato da Kimbote che verrà ucciso forse per sbaglio da Gradus), Kimbote (ex re di Zembla) e Gradus: sono le loro storie al centro del libro che si incastrano o, meglio, si confondono. Kimbote cerca di trovare nel poema accenni alla sua storia, ma emergono con chiarezza ridicole forzature. Qui si nasconde anche la satira di Nabokov sui commentatori che vorrebbero forzare gli autori e portarli su strade a lro estranee.
Nella bellissima scrittura di Nabokov emergono spesso note ironiche e satiriche, a volte sottili, a volte dure, ma soprattutto emerge la sua capacità di rendere centrali i piccoli particolari, gli oggetti minuti. La sua è una scrittura "fotografica" e il suo obiettivo preferito e il "macro", che ingrandisce e distorce i particolari e, in questo modo, li rende affascinanti, talvolta inquietanti.

Ultima parte è l'Indice analitico che sintetizza gli aspetti e i riferimenti dei vari personaggi e luoghi e nel quale si evidenzia un altro aspetto fondamentale della scrittura di Nabokov: l'amore per il linguaggio, il gusto per i giochi di parole, gli spiazzamenti etimologici. Tra gli altri personaggi importanti oltre a quelli già nominati, c'è Disa, la triste regina, moglie di Charles II, il Benamato re di Zembla e anche il paese di Zembla, completamente inventato con i suoi monti, castelli, città assume il ruolo di personaggio.

Pr dare un'idea delle cose che più mi hanno affascinato in questa lettura e che hanno premiato la fatica e la pazienza, è più utile segnalare alcuni passi. In questo passo, Kimbote racconta la vicenda della sua presa di possesso della casa, presa in affitto dal giudice Goldsworth, vicina alla villa del poeta Shade:

Il giudice Goldsworth aveva moglie e quattro figlie; i ritratti di famiglia mi accolsero nell'ingresso, perseguitandomi poi di stanza in stanza e benché sia convinto che Alphina (9), Betty (10), Candida (12) e Dee (14) [notare l'ordine alfabetico dei nomi!] si trasformeranno in breve tempo da scolarette orribilmente graziose in giovani signore eleganti e madri eccellenti, devo confessare che quelle loro impertinenti fotografie mi irritarono a un punto tale che alfine le raccolsi a una a una e le buttai tutte dentro un armadio, sotto le forme ordinatamente schierate dei loro indumenti invernali avvolti in sudari di cellophane [non è questa una fotografia?] ... Ciò che mi sorprese alquanto fu che fosse lui, il mio istruito locatore, a dirigere la casa, e non la "sua signora". Oltre a farmi trovare un inventario dettagliato di tutti quegli oggetti, che si radunano attorno a un nuovo affittuario come una torma tumultuante di indigeni minacciosi, si era dato l'incantevole pena di scrivere su foglietti di carta raccomandazioni, spiegazioni, ingiunzioni ed elenchi integrativi. Qualunque cosa toccassi, quel primo giorno di permanenza nella casa, forniva un aggio di Goldsworthiana. Girai la chiave dell'armadietto dei medicinali della seconda stanza da bagno, ed ecco uscire svolazzando un messaggio per informarmi che il raccoglitore di lamette da barba era troppo pieno e non si poteva adoperare; aprii il frigorifero, e quello con un latrato mi diffidò dall'introdurre "specialità nazionali il cui odore sia difficile da eliminare"; aprii il cassetto centrale dello scrittoio, nello studio. e scoprii un catalogue raisonnè del suo misero contenuto che comprendeva una serie di posacenere, un tagliacarte damaschinato ... e un'agendina tascabile vecchia e mai usata, che se ne stava lì. a maturare, aspettando ottimisticamente che si ripresentassero le dovute corrispondenze calendaristiche. Nella dispensa, su un pannello specificatamente adibito allo scopo, ra le comunicazioni dettagliate relative a istruzioni idrauliche, disquisizioni elettriche, dissertazioni cartacee e così via, trovai anche la dieta del gatto neo in dotazione alla casa:
lun., merc., ven.: fegato
mar., giov., sab.: pesce
dom.: carne macinata
... Ma forse la comunicazione più ridicola riguardava la manipolazione delle tende delle finestre, che dovevano essre chiuse in modo diverso a seconda dell'ora del giorno, affinché il sole non si posasse sulla tappezzeria dei divani e poltrone. per ciascuna delle numerose finestre era fornita una descrizione della posizione del sole, sia giornaliera sia stagionale, e se avessi mai tenuto conto di quella storia, sarei stato impegnato quanto un velista in una regata. Tuttavia, un poscritto suggeriva geneosamente che, invece di issare e ammainare l tende, forse avrei preferito spostare avanti e indietro, fuori dalla portata del sole, i mobili più preziosi ... Non mi è possibile, ahimè, riportare qui il programma meticoloso degli spostamenti, ma mi pare che avrei dovuto fare l'arrocco lungo prima di coricarmi e l'arrocco corto al mattino, come prima cosa"

Quanta ironia e quanti "oggetti" amati e fotografati, che sembrano avere una vita e un'anima.

Suggerisco anche di leggere il bellissimo passo sul suicidio, su quale sistema sia preferibile per evitare inutili e ridicoli tentativi alle pagine 215-218 (edizione Adelphi)

In conclusione, si tratta di un "libro-miniera", perché c'è tanto materiale da scavare ed è sempre possibile trovare un filone nuovo. Complimenti ai traduttori che hanno accettato una grande, ma affascinante sfida,

Essendo un "libro-miniera", sono stati fatti numerosi "scavi", specialmente in lingua inglese. Li riporto di seguito:





sabato 3 aprile 2010

Nessuno al mio fianco / Nadine Gordimer

Incipit:

"E quello chi era? C'è sempre qualcuno che nessuno ricorda. Nelle fotografie di gruppo soltanto quelli che sono diventati celebri, nel bene o nel male, o le facce che possono essere ricordate attraverso comuni esperienze, occupano lo spazio e il tempo appiattiti sulla lucida carta. Chi poteva essere? Le mani penzoloni, i piedi ben allineati per la macchina fotografica, il sorrisetto di profilo rivolto al personaggio che doveva diventare il centro del momento immortalato, la sola immagine sviluppata con maggiore intensità, e ai margini di questo centro focale c'è un'appendice, che potrebbe anche essere tagliata fuori perchè, nel riconoscimento e nel particolare ricordo che desta la fotografia, la figura periferica non è mai stata presente. Ma se venisse qualcuno e riconoscesse la persona che nessuno ricorda, subito subito si svilupperebbe un'altra lettura della fotografia. Lì ci sarebbe immediatamente qualcos'altro, qualche altro significato, e cioè la presenza di ciò che è stato accettato nel tempo. Qualcosa di segreto, forse, colto così distrattamente".

Il libro racconta le vicende di due coppie, Vera Stark e il marito Ben, una coppia di bianchi, e Sibongile e Didymus Maqoma, neri, nel Sudafrica dell'apartheid, nel momento di passaggio dal regime razzista a quello iniziato con la liberazione di Mandela. In realtà il personaggio centrale è quello di Vera. E' lei che non vuole nessuno al suo fianco: una donna indipendente, libera, sessualmente aperta che sembra vivere solo per il suo impegno politico. Mi ricorda la "militanza" dei sessantottini, nella quale non c'era spazio per la famiglia, l'amore, la vita quotidiana, ma solo per la politica, vissuta giorno per giorno, insieme al sesso. Nel complesso è un libro che non mi è piaciuto, dove prevale l'aspetto dell'introspezione psicologica. Non ho percepito nessuna drammaticità riguardo alle vicende e alla storia del Sudafrica, che è vista dalla piccola prospettiva dei pochi militanti protagonisti. Ci sono anche episodi sanguinosi, ma sembrano scorrere abbastanza lievemente, senza un grande coinvolgimento. Infine, la scrittura è talvolta complicata e contorta ed i dialoghi spesso incomprensibili.

C'è un passo che mi è piaciuto molto. E' una parte del discorso di un delegato ad un Congresso del partito vincitore, che comincia a dovere fare i conti con i compromessi del potere:

"Abbiamo fatto molti compromessi con il passato. Abbiamo inghiottito molte cose indegne. Abbiamo stabilito rapporti che non avremmo mai immaginato possibili o necessari ... Ma se vogliamo veramente servire il nostro popolo, se vogliamo convincerlo, in ogni baracca o accampamento, che quando segna con la croce un pezzo di carta nelle nostre prime elezioni uninominali ha realmente la possibilità di essere guidato e rappresentato da uomini e donne onesti, che non cercano il potere per dormire tra lenzuola di seta, per assicurarsi ingenti stipendi, per corrompere ed essere corrotti, per appropriarsi di denaro e per proteggere altri che rubano, per dissipare i fondi segreti del denaro pubblico con appalti che non saranno mai realizzati, se vogliamo chiedere al nostro popolo di dare fiducia a una nuova costituzione, dobbiamo prima esporre pubblicamente la nostra vita per assicurarne l'integrità, dobbiamo giurare, qui e subito, e ribadirlo in una costituzione che noi non spartiremo mai con il potere ciò che ha spartito il precedente regime. ... Noi non pagheremo gli aerei privati che portano i nostri ministri all'estero, non pagheremo i conti d'albergo pr le loro famiglie e le loro amanti, non daremo appannaggi ai membri del parlamento per guidare le loro Mercedes, non nasconderemo sotto l'etichetta "top secret" le spese di denaro pubblico, che l'opinione pubblica non deve sapere. Non dobbiamo dire alla nostra gente: non vi mentiremo, non vi imbroglieremo, non vi deruberemo ...

Una pagina in cui risplende la bellezza della Politica.

domenica 21 febbraio 2010

Lessico famigliare di Natalia Ginzburg


Incipit:
"Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: «Non fate malagrazie!»
Se inzuppavamo il pane nella salsa, gridava: « Non leccate i piatti! Non fate sbrodeghezzi! Non fate potacci!» Sbrodeghezzi e potacci erano, per mio padre, anche i quadri moderni, che non poteva soffrire."

Una storia di "ambiente", più che di eventi, anche se attraversa tutto il periodo del fascismo e poi del primo dopoguerra. Ma la storia "grande" è, per così dire, riflessa nella "piccola" storia di una famiglia borghese, non spocchiosa o arrogante. Elitaria nel senso di credere in alcuni valori alti, con fermezza e senso di responsabilità. Una famiglia in cui l'educazione era considerata un compito importante, una famiglia antifascista nella cultura prima ancora che nelle scelte politiche.
Emerge tra le altre la figura del padre, sempre tranciante nei giudizi, un uomo forte nel carattere, con un bel lessico triestino: "sbrodeghezzi", "sempia", "asina". Parole che, pur apparentemente offensive, esprimono una calda partecipazione ad una vita famigliare, sempre vivace e mai noiosa.
La drammaticità degli eventi storici durante il fascismo e poi durante le guerra, pur pesando sul piccolo mondo di questa famiglia torinese, con l'esilio, il confino, la prigionia, non sembra scalfire la forza e la resistenza dei protagonisti.

Recensioni



domenica 10 gennaio 2010

Herzog di Saul Bellow


Incipit:
Se sono matto, per me va benissimo, pensò Moses Herzog. C'era della gente che pensava che fosse toccato, e per qualche tempo persino lui l'aveva dubitato. Ma adesso, benché continuasse a comportarsi in maniera un po' stramba, si sentiva pieno di fiducia, allegro, lucido e forte. Gli pareva d'essere stregato, e scriveva lettere alla gente più impensata. Era talmente infatuato da quella corrispondenza, che dalla fine di giugno, dovunque andasse, si trascinava dietro una valigia piena di carte. Se l'era portata, quella valigia, da New York a Martha's Vineyard. Ma da Martha's Vineyard era riscappato indietro subito; due giorni dopo aveva preso l'aereo per Chicago, e da Chicago era filato in un paesino del Massachusetts occidentale. Lì, nascosto in mezzo alla campagna, scriveva a più non posso, freneticamente, ai giornali, agli uomini pubblici, ad amici e parenti e finì per scrivere pure ai morti, prima ai suoi morti e poi anche ai morti famosi.

Ho fatto molta fatica a leggere questo libro, ma ci sono riuscito. E' un libro pieno di elucubrazioni del protagonista Moses Herzog, il quale vive una crisi esistenziale, in seguito alla rottura del suo secondo matrimonio con Madeleine, che gli preferisce il suo amico Valentine. Herzog reagisce a questa crisi scrivendo lettere a tutti, ma si tratta di lunghe e pesanti elucubrazioni di difficile lettura. Proprio queste lettere, a mio avviso, rappresentano la parte più noiosa del libro. Qualche pagina interessante qua e là, soprattutto quando Bellow (Herzog) racconta la storia della famiglia di origine ebraica, venuta dalla Russia, il difficile inserimento prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Emerge un ambiente ebraico-americano ed Herzog è il tipico intellettuale, un po' frustrato. A me ricorda la figura del "trombone", tipico dell'Accademia italiana: ma qui si tratta di un "trombone", senza pubblico, o con un pubblico molto limitato, al contrario dei "tromboni" italiani, che hanno bisogno di pubblico e di potere.
Anche le pagine finali in cui Herzog trascorre qualche ora con la figlia piccola e viene coinvolto in un incidente e fermato dalla polizia, per il possesso di una pistola, sono interessanti e avvincenti, ma nel complesso prevale un giudizio negativo. Peccato!