lunedì 17 settembre 2007

Raccontare una storia per salvare gli uomini

Raccontare una storia per salvare gli uomini di DAVID GROSSMAN

(da Repubblica, 5 settembre 2007)

Essere uno scrittore israeliano che apre il festival della letteratura di Berlino è per me un grande onore. Questa frase sarebbe stata impensabile e impronunciabile fino a pochi anni fa e ancora oggi non posso essere indifferente riguardo al suo significato.
Nonostante tra Germania e Israele - e tra israeliani, ebrei e tedeschi - si mantengano relazioni strette, una frase come questa non è né neutra né ovvia. C' è un posto nella coscienza, nel cuore, in cui certe frasi devono passare attraverso le lame affilate del tempo e della memoria, come un raggio di luce, per scomporsi in una miriade di suoni e di colori. E qui, a Berlino, non posso che cominciare il mio discorso con queste parole, che si scompongono dentro di me attraverso le lame affilate del tempo e della memoria.
Sono nato e cresciuto a Gerusalemme, in un quartiere, in una famiglia, dove la gente non era nemmeno in grado di pronunciare la parola "Germania". Faticava persino a dire "Shoah". Parlava di "ciò che è successo laggiù". È interessante notare che in ebraico, in yiddish, o in qualsiasi altra lingua parlata da ebrei, la Shoah è per lo più "qualcosa che è successo laggiù", diversamente da "ciò che è accaduto allora" per i non ebrei.

C' è una differenza abissale tra laggiù e allora. Allora è un avverbio di tempo che indica un passato che non esiste più. Laggiù è un avverbio di luogo e allude al fatto che da qualche parte, in un qualche posto, ciò che è successo ancora cova sotto le ceneri, si rafforza, e potrebbe tornare a esplodere. Non è una cosa finita. Di certo non per noi ebrei. Da bambino sentivo molto spesso parlare della "belva nazista" ma quando domandavo agli adulti chi fosse, loro si rifiutavano di spiegarmelo.

Dicevano che ci sono cose che un bambino non deve sapere. Più tardi scrissi in Vedi alla voce: amore di Momik, figlio di sopravvissuti all' Olocausto al quale i genitori non rivelano ciò che è avvenuto laggiù. Momik, pieno di paura, immagina la belva nazista come un mostro che domina un paese chiamato laggiù, maltratta le persone a cui vuole bene, fa cose che lasciano ferite indelebili e nega loro la possibilità di avere una vita normale, serena. (...) La mia generazione, quella dei nati nei primi anni Cinquanta in Israele, viveva in un silenzio carico di presenze, densamente affollato.
Nel quartiere in cui abitavo c' era gente che ogni notte aveva incubi, urlava. Più di una volta, quando entravamo in una stanza in cui degli adulti raccontavano episodi della guerra, la conversazione si interrompeva. Ma di tanto in tanto riuscivamo a captare frammenti di frasi: "L'ultima volta l'ho visto in Himmlerstrasse, a Treblinka"; "Ha perso i due figli durante la prima retata". (...) Quando avevo sette anni si è tenuto a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann e allora abbiamo cominciato ad ascoltare le descrizioni delle atrocità anche durante la cena. La mia generazione ha perso l'appetito, e non solo per il cibo.
Lo ha perso per qualcosa di più profondo che noi bambini, allora, naturalmente non capivamo e che ci si è chiarito in seguito. Forse era la perdita dell'illusione che i nostri genitori potessero proteggerci da ciò che ci faceva paura, o della convinzione che noi ebrei potessimo un giorno vivere sicuri e sereni come gli altri popoli. Ma forse, più di tutto, percepivamo la perdita della nostra naturale fiducia di bambini negli altri, nella bontà del prossimo, nella sua compassione.
All'incirca vent' anni fa, quando mio figlio maggiore aveva tre anni, nella scuola materna che lui frequentava fu celebrata, come tutti gli anni, la giornata della memoria per le vittime della Shoah. Lui
non capì molto di quello che gli venne spiegato. Tornò a casa. Confuso e spaventato. "Papà, cosa sono i nazisti? Cos' hanno fatto e perché?". Io non volevo dirglielo. Io, che ero cresciuto in un silenzio che mi aveva provocato ansie e incubi, che avevo scritto un libro su un bambino che era quasi impazzito a causa del silenzio dei genitori, capii all'improvviso perché i miei e quelli dei miei amici avevano taciuto. Sentivo che se avessi raccontato a mio figlio ciò che era avvenuto laggiù, se glielo avessi accennato, pur con enorme delicatezza, qualcosa della sua purezza di bambino di tre anni sarebbe stato contaminato.
Sentivo che nel momento in cui quelle possibilità crudeli si fossero formulate nella sua coscienza innocente, lui non sarebbe mai più stato lo stesso bambino. E non sarebbe più stato un bambino. Dopo che fu pubblicato Vedi alla voce: amore in Israele alcuni critici scrissero che appartenevo alla "seconda generazione della Shoah", che ero figlio di "sopravvissuti all'Olocausto". Non lo sono. Mio padre arrivò nella terra di Israele dalla Polonia nel 1936. Mia madre è nata in Palestina, prima della fondazione dello Stato.
Eppure sono figlio di "sopravvissuti alla Shoah" perché anche a casa mia, come in tante altre case israeliane, era teso un filo carico di angoscia che potevamo toccare in qualsiasi momento. E anche se stavamo molto attenti e non facevamo movimenti bruschi, avvertivamo un costante fremito di insicurezza nella possibilità di esistere, di sospetto nei confronti degli altri e di cosa questi altri potessero farti quando meno te lo aspettavi. (...)
Chi come me è nato nell'Israele del dopo Shoah si porta dentro la sensazione - di cui ci era proibito parlare allora e che forse non eravamo nemmeno in grado di esprimere a parole - che noi ebrei intratteniamo un dialogo diretto con la morte. Che la vita, anche quando è piena di energie e di speranze e della fertilità di una nazione giovane, in rinnovamento, è più che altro uno sforzo enorme, costante, di sfuggire alla minaccia della morte. Nell' Israele degli anni Cinquanta e Sessanta, non solo in momenti di disperazione ma anche in quelli in cui l'esaltazione per la "creazione di una nazione" si affievoliva soltanto di poco, in cui ci sentivamo un po' stanchi della nostra formidabile rinascita, in quegli attimi di malinconia, privata e nazionale, potevamo percepire la morsa di gelo che ci stringeva il cuore e ci sussurrava con voce sommessa ma perentoria: la vita svanisce così in fretta, tutto è talmente fragile. Il corpo, la famiglia.
La morte è reale, tutto il resto è un'illusione. Nel momento in cui ho capito che sarei diventato uno scrittore, ho capito anche che avrei scritto della Shoah. Penso che queste due consapevolezze siano nate in me simultaneamente. Forse anche perché fin da giovane ho avuto la sensazione che tutti i libri che avevo letto sulla Shoah non rispondessero a domande semplici, vitali, che dovevo pormi e alle quali dovevo rispondere da solo.
E più il tempo passava più sentivo crescere in me la sensazione che non sarei stato in grado di comprendere la mia esistenza in Israele come uomo, padre, scrittore, israeliano, ebreo, fintanto che non avessi scritto della vita che non avevo vissuto laggiù, durante la Shoah, e cosa mi sarebbe successo se fossi stato una vittima, o uno degli assassini. Perché volevo sapere entrambe le cose. Non mi accontentavo di una.(...) Volevo sapere cosa avrei fatto per contrastare questo tentativo di annientamento. Quale scintilla di umanità mi sarebbe rimasta dentro in una realtà il cui unico obiettivo era spegnerla. A una domanda come questa ognuno deve rispondere da sé. Ma forse posso dare un suggerimento.
Nella tradizione ebraica c' è una leggenda, o una credenza, secondo la quale in ogni uomo esiste un ossicino chiamato "luz" - "nocciolo" in ebraico - sistemato in cima alla colonna vertebrale. Questo ossicino racchiude l'essenza dell'anima ed è indistruttibile. Anche se l'intero corpo dovesse disintegrarsi o bruciare, il nostro "nocciolo" rimarrà intatto, preserverà la peculiarità che c' è in ciascuno di noi, la radice del nostro essere. Ed è a partire da questo ossicino che l'uomo si ricreerà nel giorno della resurrezione dei morti.(...) La seconda domanda che mi sono posto mentre scrivevo Vedi alla voce: amore è correlata alla prima e in un certo senso scaturisce da essa. Mi sono chiesto come una persona normale - come lo erano molti nazisti e loro sostenitori - possa entrare a far parte di un meccanismo di distruzione di massa. In altre parole cosa devo reprimere, offuscare, rimuovere, uccidere di me per poter collaborare a un genocidio programmato, per essere in grado di uccidere un altro essere umano, per volere lo sterminio di un popolo intero, o accettarlo in silenzio.
Forse però dovrei affinare la domanda: in questo momento sto forse collaborando - coscientemente o inconsapevolmente, attivamente o passivamente - a un processo il cui scopo è danneggiare un altro uomo o un gruppo di persone? "La morte di un uomo è una tragedia", ha detto Stalin, "ma quella di milioni è statistica".
Parliamo per un attimo di come una tragedia si trasforma in statistica. Non dico, naturalmente, che siamo tutti degli assassini. È ovvio che no. Eppure la maggior parte di noi sembra quasi indifferente alla sofferenza di popoli interi, vicini e lontani, o a quella di centinaia di milioni di esseri umani poveri, affamati, ammalati, sia nelle nostre nazioni che in altre parti del mondo. Impariamo a non curarci del dolore di estranei che lavorano per noi, del patimento di popoli che vivono sotto occupazione - nostra o di altri -, o in un regime dittatoriale o in condizioni di schiavitù.
Con stupefacente facilità creiamo meccanismi che hanno il compito di farci prendere le distanze dalla sofferenza altrui. Riusciamo, nella nostra coscienza e a livello emotivo, a ignorare il nesso causale che esiste fra la prosperità economica delle nazioni occidentali e la povertà altrui; tra il nostro benessere e le vergognose condizioni di lavoro di altra gente; tra la qualità della nostra vita, i nostri condizionatori d' aria e le nostre automobili, e le sciagure ecologiche che si abbattono su altri.
Questi "altri" vivono in condizioni talmente terribili che per lo più non hanno nemmeno la possibilità di porre domande come quelle che pongo io ora. Non è solo il genocidio ad annientare il "nocciolo" di un essere umano. Anche la fame, la povertà, le malattie, l'esilio spengono e uccidono gradualmente l'anima del singolo, e talvolta di un popolo intero.
Noi non vogliamo assumerci nessuna responsabilità personale per le cose terribili che avvengono a poca distanza da noi. Né mediante azioni dirette né limitandoci a esprimere solidarietà. Ci fa comodo - quando si parla di responsabilità personale - far parte di una massa indistinta, priva di volto, di identità, e all'apparenza libera da oneri e colpe. E probabilmente è questa la grande domanda che l'uomo moderno deve porsi: in quale situazione, in quale momento, io divento "massa"?
Ci sono definizioni diverse per il processo con il quale un individuo si confonde nella massa o accetta di consegnarle parti di sé. E siccome noi siamo uomini di letteratura, ne sceglierò una conforme ai nostri interessi. Ho l'impressione che ci trasformiamo in "massa" nel momento in cui rinunciamo a pensare, a elaborare le cose secondo un nostro lessico, e accettiamo automaticamente e senza critiche espressioni terminologiche e un linguaggio dettatoci da altri. Io mi trasformo in "massa" quando cesso di formulare con le mie parole compromessi e scelte morali che sono disposto a compiere.(...)
Ricorro alla figura dello scrittore ebreo polacco Bruno Shultz per illustrare l'incontro tra un singolo che possedeva un linguaggio estremamente peculiare e un "linguaggio di massa" l'incontro tra la tragedia e la statistica. Mi riferisco alla vicenda del suo assassinio durante la seconda guerra mondiale, nel ghetto della sua città, Drohobycz. La storia è nota, e forse non è neppure vera, è una leggenda, un aneddoto sul quale negli anni si è costruito "il mito di Shulz" fra i suoi estimatori in tutto il mondo. Ma anche se fosse un aneddoto, tocca un punto profondo, vero. "Gli aneddoti sono sostanzialmente fedeli alla verità" scrive Ernesto Sabato, "proprio perché sono finzioni, inventati in dettaglio per adeguarsi con grande precisione a una certa persona".
E infatti, anche se questa particolare storia sulla morte di Shulz non è vera, ciò che essa esprime è sostanzialmente fedele alla verità ironica e tragica di quest' uomo, all'orrore del possibile incontro tra il "singolo" e la "massa", e quindi la racconterò così come l'ho sentita la prima volta. Nel ghetto di Drohobycz, durante la guerra, un ufficiale delle Ss aveva costretto Shulz a dipingere un affresco a casa sua. Un avversario di quell'ufficiale, che aveva litigato con lui a causa di un debito di gioco, incontrò per caso Shulz per strada, estrasse la rivoltella e gli sparò, per vendicarsi dell'uomo per il quale lui stava lavorando. Stando alle voci l'assassino si recò poi dal suo rivale e gli disse: "Ho ucciso il tuo ebreo". E quello rispose: "Benissimo, e ora io ucciderò il tuo".
Venni a conoscenza di questa storia subito dopo aver finito di leggere per la prima volta il libro di Bruno Shulz. Ricordo che chiusi il volume e uscii di casa. Girai per ore come immerso in una nebbia. Ero in uno stato in cui, per dirla con semplicità, non volevo più vivere. Non volevo continuare a esistere in un mondo in cui potevano accadere cose come questa, in cui ci sono persone come quegli ufficiali nazisti che pensavano cose come queste. In cui esiste un linguaggio che permette a mostri simili di pronunciare frasi quali "Ho ucciso il tuo ebreo" e "Benissimo, ora io ucciderò il tuo".
Scrissi Vedi alla voce: amore per restituire a me stesso, fra le altre cose, la voglia di vivere, l'amore per la vita. E forse anche per guarire dall'offesa che provavo - a nome di Bruno Shulz - per il modo in cui il suo assassinio era stato descritto e "spiegato". Una spiegazione disumana, "di massa". Come se gli esseri umani fossero pedine di scambio, o rotelle di un meccanismo, o accessori che si possono sostituire con altri, o soltanto parte di una statistica. Negli scritti di Bruno Shulz ogni frammento di realtà ha una propria personalità. Ogni nube passeggera, ogni mobile, ogni manichino di sarto, ogni ciotola di frutta, ogni cagnolino, ogni raggio di sole, ogni oggetto, anche il più banale, possiede una propria individualità, una propria essenza, un proprio carattere. E in ogni sua pagina, in ogni suo brano, esplode la vita, ricca di contenuto e di significato.
Una vita che all'improvviso merita questo nome. Un'opera enorme che avviene simultaneamente in tutti i substrati del conscio e dell'inconscio, dell'illusione, del sogno, dell'incubo, dei sensi, dei sentimenti, di un linguaggio ricco di sfumature. Ogni riga è una ribellione contro ciò che Shulz definisce "il muro fortificato che grava sul significato"; è una protesta contro la desolazione, la banalità, la routine, la stupidità, gli stereotipi, la tirannia del semplicismo, della massa. (...)
Quando terminai di leggere il libro di Shulz capii che lui mi dava, con la sua scrittura, una chiave perché io potessi scrivere della Shoah. Non di morte e di sterminio ma della vita, di ciò che i nazisti avevano distrutto meccanicamente, in maniera industrializzata, di massa. Ricordo anche che, con l'arroganza del giovane scrittore, dissi a me stesso che volevo scrivere un libro che tremasse sullo scaffale. Che fosse vitale come un battito di ciglia nella vita di un uomo.
Non una "vita" tra virgolette che trascorre fiacca, ma una come quella che Shulz ci insegna. Una vita vera, al quadrato, nella quale non dobbiamo accontentarci di non ammazzare il prossimo ma dobbiamo fare in modo che esso viva, così come il momento appena trascorso, le visioni viste, le parole pronunciate migliaia di volte, e te, e me.
La realtà in cui viviamo oggi non è forse crudele come quella creata dai nazisti ma certi suoi meccanismi hanno leggi di fondo molto simili che offuscano l' individualità dell'uomo e lo portano a rifiutare obblighi e responsabilità verso il destino degli altri. E una realtà sempre più dominata dall'aggressività, dall'estraneità, dall' incitamento all'odio e alla paura; dove il fanatismo e il fondamentalismo sembrano farsi più forti ogni giorno mentre altre forze perdono la speranza di un cambiamento. I valori e gli orizzonti del nostro mondo, l'atmosfera che vi si respira e il linguaggio che lo domina sono dettati in gran parte da ciò che noi chiamiamo mass media, un'espressione coniata negli anni Trenta del secolo scorso quando i sociologi cominciarono a parlare di "società di massa". Ma siamo davvero consapevoli del significato di questa espressione? Di quale processo i mass media abbiano subìto? Ci rendiamo conto che gran parte di essi non solo convogliano un tipo di comunicazione destinata alle masse ma trasformano i loro utenti in massa? E lo fanno con prepotenza e cinismo, utilizzando un linguaggio povero e volgare, trattando problemi politici e morali complessi con semplicismo e falsa virtù, creando intorno a noi un'atmosfera di prostituzione spirituale ed emotiva che ci irretisce, rendendo kitsch tutto ciò che toccano: le guerre, la morte, l'amore, l'intimità. A un primo sguardo sembra che questo tipo di comunicazione si incentri sul singolo, sull'individuo, non sulle masse. Ma è una suggestione pericolosa.
I mezzi di comunicazioni di massa pongono il singolo in primo piano, lo consacrano persino, incanalandolo sempre più verso se stesso. Anzi, in fin dei conti, esclusivamente verso se stesso: verso i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue aspirazioni, le sue passioni. In mille modi, palesi o nascosti, liberano l'individuo da ciò di cui lui è in ogni caso ansioso di liberarsi: la responsabilità verso gli altri per le conseguenze delle sue azioni. E nel momento in cui lo fanno ottenebrano la sua coscienza politica, sociale e morale, lo trasformano in un materiale docile alle manipolazioni da parte di chi controlla i mezzi di comunicazione e di altri. In altre parole lo trasformano in massa. (...)
È questo il messaggio dei mass media: un ricambio rapido, tanto che talvolta sembra che non siano le informazioni a essere significative e importanti ma il ritmo con cui si susseguono, la cadenza nevrotica, avida, commerciale, seduttrice che creano. Secondo lo spirito del tempo il messaggio è lo zapping.
La letteratura non ha rappresentanti influenti nei centri di potere globali che ho appena descritto, e fatico a credere che sia in suo potere apportarvi qualche cambiamento. Può però proporre un diverso modo di vivere: secondo un ritmo interno, una coerenza personale più adatta ai nostri bisogni spirituali e naturali di quanto ci venga prepotentemente imposto da apparati esterni. Io so che quando leggo un buon libro qualcosa dentro di me si chiarisce. La mia percezione di essere una creatura particolare si fa più netta. La voce precisa, distinta, che mi giunge dall'esterno risveglia in me altre voci, alcune delle quali erano mute in precedenza. E anche se migliaia di altre persone leggono lo stesso libro nel momento in cui lo sto leggendo io, ognuna lo vive in modo diverso. Per ognuno quel libro è una cartina tornasole di tipo particolare. Un buon libro - e non ce ne sono molti perché la letteratura, naturalmente, è sensibile alle lusinghe e ai trabocchetti della comunicazione di massa - fa sì che il lettore si distingua dalla massa. (...)
Quando finii di scrivere Vedi alla voce: amore capii di averlo scritto per dire che chi annienta un uomo, qualunque uomo, a conti fatti distrugge un'opera geniale, unica nel suo genere, specifica e infinita che non si potrà mai più ricreare, né mai ve ne sarà una simile. Negli ultimi quattro anni ho scritto un romanzo che intende dire la stessa cosa, ambientato però altrove, in una realtà diversa. La protagonista è una donna israeliana di circa 50 anni, madre di un soldato che parte per la guerra. La sua preoccupazione per il figlio la porta a presagire la tragedia in agguato, e lei cerca con tutte le sue forze di scongiurarla lottando contro il destino che attende il ragazzo. Compie una lunga marcia, percorrendo quasi la metà di Israele e raccontando senza posa del figlio. È così infatti che cerca di proteggerlo, facendo l'unica cosa che è in suo potere per rendere l'esistenza del figlio più viva e concreta: raccontare la storia della sua vita. E un giorno, sul piccolo quaderno che porta con sé, scrive: "Migliaia di attimi e di ore e di giorni, milioni di azioni, un'infinità di gesti, di tentativi, di errori, di parole e di pensieri. Tutto per creare un unico essere umano". E poi aggiunge: "Un essere umano che è così facile distruggere".

(Traduzione di Alessandra Shomroni)

venerdì 31 agosto 2007

A proposito di tolleranza..

Una frase interessante di Lars Gustafsson in un articolo su El Pais:

"Per cominciare vorrei suggerire due assiomi più o meno ovvi: la tolleranza dell'intolleranza produce intolleranza; l'intolleranza dell'intolleranza produce tolleranza ... "

lunedì 27 agosto 2007

Licenziati 5 "fannulloni"

In questi giorni è uscita sui giornali la notizia di 5 licemziamenti per scarso rendimento di dipendenti pubblici nella provincia di Bolzano.
Le prime reazioni dei Sindacati sono state per fortuna di condanna nei confronti di chi nel pubblico impiego non lavora e non sono scattate reazioni di difesa ad oltranza. Tuttavia è stato anche detto che questi licenziamenti sono la prova che se si vuole si può licenziare anche nel pubblico.
Ma proprio lo scalpore della notizia dimostra il contrario: che è molto difficile licenziare nel pubblico, altrimenti perchè i giornali avrebbero dedicato così tanto spazio? Inoltre, bisognerebbe vedere come andrà a finire dopo i ricorsi.
E' stato anche detto che se non vengono colpiti i settori di nullafacenti è colpa dei dirigenti. Infatti bisognerebbe colpire anche questi e l'unica strada sono seri meccanismi di VALUTAZIONE INDIPENDENTE delle persone e dei servizi.
Ma mi piacerebbe che i sindacati rispondessero a questa semplice domanda: se uno lavora a fianco di alcuni fannulloni e si rivolge al sindacato, cosa farebbe il sindacato? Siamo convinti che prenderebbe qualche iniziativa? E se i fannulloni fossero iscritti al sindacato?

venerdì 24 agosto 2007

"Se io cambio, il mondo cambia" (Gandhi)

Mi piacerebbe che nel nostro paese si uscisse dalla logica dei piccoli orticelli e che sia le persone che le organizzazioni (sindacati, partiti, ecc.) uscissero dalla logica di "avere la verità in tasca" e imparassero a mettersi in discussione.
Insomma per superare la realtà dello "specchio rotto" (vedi E. Scalfari), bisognerebbe essere meno egoisti e corporativi e, soprattutto, avere l'umiltà di imparare anche dagli altri e di ragionare sui fatti e i dati concreti.

Spero che il Partito democratico sia un'occasione per un nuovo inizio, anche se non mi faccio molte illusioni, perchè sono convinto che viviamo in un'epoca di decadenza e di regressione antropologica (veline, tronisti, Corona, ecc. ecc.), che purtroppo non risparmia la cosiddetta "gente".

Ma la polemica Bindi-Veltroni su cosa si basa? Boh!!!

mercoledì 22 agosto 2007

C'è grossa crisi

Sono un dipendente universitario, iscritto ormai da più di 20 anni alla CGIL. Da qualche tempo provo molto disagio per molte scelte sindacali, che mi sembrano fatte sempre con atteggiamenti difensivi e poco attenti alle situazioni reali.
In particolare ho spesso riscontrato, al di là di quanto viene scritto nei documenti sindacali, un atteggiamento di rifiuto dei sistemi di valutazione del personale, proposti con scarsa convinzione dall’Amministrazione pubblica. Credo che nel settore del pubblico impiego la valutazione sia essenziale e che non sia corretto aggrapparsi all’incapacità dei dirigenti di valutare, per bocciare ogni tentativo di premiare il merito e di adottare equilibrati sistemi di selezione.
Su questa questione, che tra l’altro è al centro del dibattito politico-sindacale, anche con interventi a mio avviso interessanti e provocatori (vedi Ichino: I nullafacenti), ho constatato un notevole ritardo in molte delle strutture sindacali e una grave mancanza di dibattito.
Si è creato un meccanismo perverso per cui, mentre a livello nazionale le OOSS firmano memorandum nei quali sottolineano l’importanza del merito e della selettività, nella pratica continuano a contrastare ogni anche minimo tentativo di vera valutazione, con la giustificazione che tanto i dirigenti non sanno valutare oppure prospettano sistemi di valutazione solo delle strutture, rifiutando la valutazione individuale.

Non sono nemmeno d’accordo che il Sindacato abbia potere decisionale o di veto sui sistemi organizzativi: il Sindacato dovrebbe essere informato sui criteri, sulle modalità della riorganizzazione, con la possibilità di avanzare proposte e suggerimenti, ma poi la dirigenza deve avere la sua autonomia e deve prendersi le sue responsabilità. Non è possibile alcuna efficienza, se non si può toccare niente e se, per fare uno spostamento o una riorganizzazione, è necessario avere prima il placet di tutti. In questo sistema non si fa altro che perpetuare una dirigenza pigra e inerte, un clima di stasi per mantenere tranquille situazioni di rendita e spesso di inefficienza.

Cos’è un servizio pubblico

Temo, tuttavia, al di là dei protocolli d’intesa firmati dalle OO.SS sul pubblico impiego nei quali si sottolinea l’importanza del merito e della valutazione, che ci sia, nella pratica concreta, un approccio sbagliato da parte del Sindacato in generale nei confronti dell’impiego pubblico.
Il pubblico impiego ha senso solo se è servizio per il pubblico e spesso ci si dimentica che il lavoro nel pubblico ha senso solo se si fa la “felicità” (o almeno la soddisfazione) dell’utente. Chi lavora alle dipendenze dello Stato dovrebbe sentire questa spinta in più, questo senso di svolgere un ruolo che è diverso da quello privato. Non si tratta di essere dei “missionari”, ma di avere coscienza di essere pagati con i soldi di tutti.
Ciò non significa accettare condizioni di sfruttamento o rinunciare ad avere uno stipendio adeguato, ma tanto più possiamo essere rivendicativi, quanto più il nostro lavoro è ritenuto utile, importante, qualitativamente efficace.
E’ così? No, se guardo ai servizi pubblici del nostro Paese, non mi sembra che sia così. Eppure i servizi pubblici in altri Paesi europei funzionano, sono molto più efficienti del nostro pur a parità di dipendenti.
Quando poi si parla di utenza è sbagliato riferirsi solo all’utenza particolare dei vari enti pubblici. Bisogna considerare anche la più vasta utenza che è il Paese nel suo complesso. I soldi pubblici dovrebbero servire per avere servizi efficienti, senza sprechi, a vantaggio di tutti i contribuenti italiani.
Ma una vera valutazione richiede Agenzie esterne e indipendenti, che sappiano valutare dirigenti e impiegati, attraverso efficaci griglie che misurino l’efficienza e l’efficacia delle prestazioni, il raggiungimento degli obiettivi, la soddisfazione degli utenti, ecc.

Colpa dei dirigenti, colpa del Governo, colpa degli altri …

Di fronte a queste considerazioni, ognuno, nel nostro Paese, si difende dando la colpa agli altri, a chi sta sopra o a chi sta sotto. Non c’è mai una assunzione di responsabilità.
Ma credo che un sindacato serio dovrebbe porsi anche il problema di eliminare le sacche di inefficienza, denunciando chiunque non faccia il proprio dovere e rinunciando alla difesa corporativa.
In una relazione sindacale mi è capitato di leggere: “La polemica estenuante sui fannulloni del Pubblico Impiego non è certamente estranea alle dinamiche del rinnovo dei contratti pubblici: che la Pubblica Amministrazione abbia sacche non marginali di inefficienza e improduttività è questione che riguarda anche noi, interessati alla sua efficacia per il servizio nei confronti dei cittadini; ma ben altro è la polemica del tutto ideologica che in questi mesi si è aperta …”
Ecco il tipico “benaltrismo” di molta sinistra politica e sindacale. Si riconosce il problema, ma poi non si propone niente, nemmeno, ad esempio il licenziamento immediato dei dipendenti condannati in via definitiva.


Perché i giovani non si iscrivono al Sindacato?

Dopo tanti anni e tanti tentativi a vuoto di creare un ricambio generazionale all’interno delle strutture dirigenziali della CGIL, viene da chiedersi perché nonostante l’aumento del personale, i giovani non si iscrivano, né partecipino alla vita sindacale..
Ci saranno senz’altro responsabilità organizzative, difficoltà di impegnarsi nel lavoro sindacale, ma credo, sperando di sbagliare e di essere contraddetto, che non sia solo questo. Chi si iscrive al sindacato oggi lo fa perché viene da una tradizione familiare o personale di interesse per la politica: è un’adesione ideologica e quindi molto limitata.
Credo che la maggior parte non si iscriva per diversi motivi: perché si parla un linguaggio spesso vecchio e burocratizzato, ma soprattutto perché, in fondo, per i cosidetti “garantiti” i diritti fondamentali sono assodati e perché, nel complesso, non si sta male nel pubblico impiego. Magari si guadagna poco, ma in fondo c’è la possibilità, per molti, di trovare una propria nicchia. Insomma ci si adatta, magari brontolando e lamentandosi qualche volta. Se non si sta male, se i diritti sono garantiti, a cosa serve iscriversi al Sindacato? La lamentazione, un certo disagio si possono benissimo esprimere in qualche assemblea, tanto non si rischia niente.
Un sindacato di pura rivendicazione salariale, che si limita a fare gli accordi nazionali o decentrati, non suscita una grande attrazione, anche perché gli accordi li fa, magari in ritardo e senza grandi mobilitazioni.
Insomma non c’è bisogno di sacrifici e di lotte dure, anche perché non ci sentiamo “sfruttati”. Se fossimo sfruttati, ci ribelleremmo con forza, ma la parola “sfruttamento” non è utilizzabile nel pubblico impiego per il personale a tempo indeterminato, anche se poi si trova sempre chi sventola le bandiere ideologiche come i sindacati dell’ultrasinistra.
Invece ci sarebbe tanto bisogno di trovare “soddisfazione, felicità, significato” nel lavoro che facciamo, “per perseguire in modo trasparente e giudicabile la missione assegnata”. Anche il protocollo usa la parola "missione": ma poi se ne dimentica immediatamente e nelle contrattazioni si parla solo di soldi: Più soldi alla scuola, all’Università e alla ricerca non servono a niente se non c’e’ una valutazione dei risultati e di come i soldi vengono spesi.
Invece si svalorizza il lavoro, quando lo si considera solo in termini economici o quando lo si vede come una “maledizione” da concludere in fretta per andare in pensione, magari a 57 anni (all’Università fa ridere pensare che uno a 57/60 anni DEBBA andare in pensione).

Sulle pensioni

E vengo all’ultimo motivo di dissenso con le linee attuali del Sindacato: il tema delle pensioni e, in particolare, dell’aumento dell’età pensionabile.
I sindacati, ormai da anni, ci dicono che non è necessario 1) aumentare l’età pensionabile, 2) cambiare i coefficienti e adeguarli all’aumento del tempo di vita e che si possono 3) aumentare le pensioni basse, 4) eliminare il lavoro precario.
Di fronte a queste posizioni mi sembra di vivere nel paese di Bengodi, dove, nonostante l’enorme debito, riusciamo ad accontentare tutti.
Io non so se hanno torto o ragione le organizzazioni sindacali oppure gli economisti, la Banca Europea, la Commissione europea che un giorno sì e l’altro pure ci invitano a modificare il nostro sistema pensionistico.
Tuttavia vorrei solo che mi si dimostrasse che Paesi come la Germania sono in mano a governanti idioti, dal momento che hanno portato l’età pensionabile a 67 anni per gli uomini, nonostante i tedeschi vivano in un Paese democratico e in presenza di sindacati abbastanza forti. Ma la media dell’età pensionabile è quasi dovunque superiore a quella italiana, in Paesi che non hanno un debito pubblico paragonabile al nostro
Bisognerebbe allora ragionare non in modo ideologico, accettando l’aumento dell’età pensionabile (con incentivi e disincentivi), escludendo i lavori usuranti e, in cambio, chiedendo una vera uniformazione dei sistemi pensionistici dei diversi settori e l’eliminazione dei trattamenti privilegiati per certe categorie.
Certo che finché nei documenti sindacali si scrive: “Non siamo interessati a riforme punitive che si occupino di ciò che accadrà tra 30 anni. Siamo più interessati ai prossimi 5 anni, e su questi vogliamo proposte e risultati”, siamo proprio lontani da qualsiasi ipotesi di prospettare un futuro sostenibile per chi andrà in pensione tra qualche anno. E comunque la logica del “risultato immediato” è quella che ci ha portato al debito pubblico più alto in Europa ed è la stessa che, su un piano diverso, non fa niente per l’emergenza climatica.

il cannocchiale