sabato 13 settembre 2008

Necropoli / Boris Pahor



Incipit:
Domenica pomeriggio. Il nastro d'asfalto liscio e sinuoso che sale verso le alture fitte di boschi non è deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a vale, verso Schirmeck; così il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo. So bene che anch'io, con la mia macchina faccio parte di questa processione motorizzata, eppure sono sicuro che, vista la mia passata intimità con questi luoghi, se sulla strada fossi solo, il fatto di viaggiare in automobile non scalfirebbe l'immagine onirica che dalla fine della guerra riposa nell'ombra della mia coscienza. Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l'idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po' di gelosia non soltanto perché occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (n sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana. Ecco che però, giunta da chissà dove, inizia a insinuarsi nel mio animo anche una piccola soddisfazione per il fatto che questa altura dei Vosgi non sia più il territorio segreto di una lontana dannazione consumatasi tutta in se stessa, ma sia diventata un luogo verso cui si dirigono i passi di innumerevoli persone. E queste persone, anche se la loro immaginazione sarà insufficiente per la visita che li attende, riusciranno tuttavia a intuire, attraverso le vie del cuore, l'inconcepibile realtà del destino di quei loro figli perduti.

Anch'io avrei preferito, nella visita a Mauthausen, essere solo o in piccola compagnia per poter "intuire" la realtà di quel luogo. Per fortuna libri come questo, con la loro prosa asciutta e tagliente, priva di emotività, aspra nella fredda descrizione dell'inconcepibile, sono preziosi per chi voglia mantenere fare in modo che la memoria di queste storie resti una luce sempre accesa.
Pahor, in questo libro, più volte ci dice che per noi, venuti dopo, è impossibile capire e, pur visitando quei luoghi, non possiamo "viverli" come chi li ha vissuti e ha condiviso la sofferenza e l'annientamento. Credo che, per cercare di avvicinarci, dovremmo immaginare di tornare in un luogo dove la nostra famiglia è stata sterminata e noi siamo gli unici sopravvissuti di questa strage: ebbene, quei luoghi familiari parlerebbero solo a noi, quella sofferenza sarebbe solo nostra. Ma qui, più che un'esperienza privata e momentanea (un singolo delitto) abbiamo una condivisione di sofferenza e di morte tra migliaia di persone, un delitto continuato per giorni, mesi, anni, in un abbrutimento totale dell'individuo. Per questo l'esperienza e il messaggio dei luoghi sono così difficili da trasmettere a chi non li ha vissuti.

Ora lo so che avremmo dovuto balzare fuori dalle baracche, precipitarci giù dalle gradinate, assalire tutti insieme la baracca dalla quale un SS conduceva, a una a una, le ragazze nella baracca col forno ... Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n'era andato insieme al succo vitale che scorreva vi dai corpi con la diarrea. Perché quando la pelle diventa pergamena e le cosce si riducono allo spessore delle caviglie, anche i palpiti del pensiero diventano flebili bagliore di una torcia esaurita.

Chissà, forse solo un nuovo ordine monastico laico potrebbe risvegliare l'uomo standardizzato, un ordine che vestisse il saio striato degli internati e inondasse le capitali dei nostri Stati, disturbasse con il rumore dei suoi zoccoli il raccoglimento dei negozi lussuosi e dei passeggi. Ciò che qui è rimasto dei vasi con la cenere dovrebbe essere portato in processione nelle città.

Come avevo potuto essere tanto stupido da introdurre fra i morti il ritratto di una persona viva! [il ritaglio con la foro di Alida Valli] . Un morto tra i vivi ci può stare, ma il contrario no. Lo scheletrico abitante di un campo non può toccare i vivi neppure col pensiero! Una volta per sempre deve abbandonare tutto ciò che vive su un'invisibile isola di sogno, fuori dall'atmosfera terrestre, e non deve più avvicinarglisi né con l'immaginazione né col ricordo. E non deve mettere il ritratto di una giovane viva fra le tombe.

"Non siamo zingari" dissero indicando la grande I maiuscola segnata con la matita copiativa in mezzo al triangolo rosso. "Italiener und Zigenner, gleich!" [Italiani o Zingari, fa lo stesso], urlò lo stalliere ricompattando a pedate quei piccoli uomini.

Leggendo questo libro ho capito che il male è molto più forte, solido, resistente del bene. Boris Pahor, come tanti ex internati, sente fortissimo il senso di colpa, si accusa per avere barattato sigarette con cibo e quando va a visitare il suo campo non riesce a dormire in un albergo o in un letto normale. Dorme su un materassino, in auto, dopo aver tolto il sedile anteriore destro. Gli sembrerebbe un'offesa ai morti del lager dormire lì vicino in un letto comodo.
Invece, tra i persecutori è raro il pentimento e nemmeno uno dice un banale "Mi dispiace". Dal male estremo non c'è ritorno. Una volta imboccata la loro strada, i persecutori vanno avanti, solidi come rocce. La loro sconfitta è solo militare e non avviene su un piano etico. E' veramente preoccupante, perché ciò dimostra che il bene è debole e fragile e la sua vittoria non può mai darsi per scontata.

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