giovedì 27 novembre 2008

Un articolo di Nadia Urbinati

“Meritocrazia” è la parola magica che pare ai più capace di liberare la società italiana dalle sue croniche aberrazioni. Se il merito venisse davvero riconosciuto, si dice, la nostra società si emanciperebbe dai lacci del nepotismo e del clientelismo.
Come recita il sottotitolo del libro di Roger Abravanel sulla meritocrazia, questa è la ricetta per valorizzare il talento e rendere il paese più ricco e più giusto. Wikipedia definisce la meritocrazia come un sistema di governo o un´organizzazione dell´azione collettiva basato “sull´abilità “ricchezza ereditata, relazioni familiari e clientelari, nepotismo, privilegi di classe, proprietà o altri determinanti storici di potere politico e posizione sociale”. John Rawls avrebbe sottoscritto questa definizione. Tuttavia resta difficile da spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto perché è impossibile stabilire con rigore e certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra di capire che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale ovvero dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi riceve i frutti o è influenzato dall'operato.
Il giudizio rispetto al merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all´utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico, ovvero al riconoscimento pubblico. Nel merito entrano in giuoco non soltanto le qualità intrinseche e morali della persona, ma anche quella che per Adam Smith era una simpatetica corrispondenza tra i partner sociali. Per questo i teorici moderni della giustizia hanno sempre diffidato di questo criterio se usato per distribuire risorse.
Non perché non pensano che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché mettono in guardia dallo scambiare l´effetto con la causa: è l´eguaglianza di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia non il merito, il quale semmai è una conseguenza di un ordine sociale giusto.
Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un´eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere quanto necessari fossero i programmi pubblici di giustizia sociale: immaginiamo una gara di velocità tra due persone che partono dallo stesso punto, ma una delle quali parte con dei lacci alle caviglie. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no.
Perché ci sia una gara effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell´altro competitore. Ecco perché a meno che non si azzerino le relazioni sociali e non si rifondi daccapo la società civile non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi dell´ingiustizia senza preoccuparsi di vedere con quali mezzi i concorrenti si apprestano a competere.
Parlare di merito senza intaccare i residui storici e naturali che condizionano le prestazioni individuali è a dir poco capzioso. Nella condizione in cui la nostra società si trova attualmente è davvero difficile che il riconoscimento del merito sia un fattore di imparzialità o giustizia. Ne parlava su questo giornale alcune settimane fa Adriano Sofri. L´appartenenza di classe, sempre più determinante nell´accesso a buone scuole e quindi a una buona occupazione (a un lavoro che piace non semplicemente a un lavoro necessario) rende il discorso sulla meritocrazia non proprio cristallino e la gara una gara chiusa, avvantaggiata già alla partenza o truccata.
Perché questo lungo discorso sul merito? Perché in questi giorni di sacrosanta denuncia delle aberrazioni che si annidano in molte università italiane potrebbe venir spontaneo pensare che l´unica soluzione per curare il malato di corruzione sia sottoporlo al salasso delle risorse. Per curare una università che non seleziona per merito occorre togliere i finanziamenti: questo è quanto da più parti si dice con più frequenza, portando acqua al mulino governativo in maniera più o meno diretta. Nell'età premoderna si pensava che il modo migliore per guarire un malato fosse quello di salassarlo per togliergli il sangue cattivo e si finiva per far morire il malcapitato proprio con l´intento di salvarlo. Il corpo non rinvigorisce togliendogli il cibo, ma dandogli cibo buono. Non si tratta di una terapia veloce, ma è l´unica terapia ragionevole. Non esiste una giustizia rapida, come i sognatori della meritocrazia sembrano credere. E quindi non è tagliando i finanziamenti che si può pensare di risanare l´università, il luogo dove i talenti cercano alimento. Anche perché la politica dei “meno soldi” non si traduce necessariamente in “più onestà”. Occorre invece far sì che i soldi siano meglio spesi e che siano messi in atto sistemi di controllo che controllino davvero (con anche l´uso del codice penale se necessario) e sistemi di reclutamento efficaci e non corrotti.
Ma non ci si faccia illusioni sulla celerità della cura. Perché è evidente che la questione del merito non è né neutra né di semplice procedura. Essa è prima di tutto una questione di etica ? di chi valuta e di chi è valutato, dei sistemi di valutazione e, in primo luogo, di chi li escogita e chi li fa funzionare. Non basta enunciare che occorre seguire il criterio del merito (e quale altro se no?), occorre davvero seguirlo sempre. Per esperienza devo dire che spesso anche chi esalta il merito non è poi sempre pronto a onorarlo perché la logica del sistema ha più forza di quella del merito e dell'onestà.
Non è questa la ragione per la quale è così difficile che un esterno vinca una competizione nell'accademia italiana? Se la questione del merito è una questione di eguali opportunità e di etica pubblica o di responsabilità, allora, per sconfortante che la cosa possa apparire, non consente soluzioni veloci e facili. Anche se è comprensibile che di fronte alla notizia scandalistica (ma per nulla nuova) di cattedre destinate a parenti e amanti (o ad allievi fedeli, una categoria altrettanto aberrante, eppure molto in uso) e ai finanziamenti statali elargiti a università private di ogni tipo e luogo (uno sperpero del denaro pubblico di cui si parla troppo poco), viene sacrosanta la reazione di volere azzerare tutto togliendo le risorse. Ma si può voler creare indigenza per sconfiggere il furto?

Repubblica 27.11.08

giovedì 13 novembre 2008

Franz Kafka - Il messaggio dell'imperatore

L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio; e gli premeva tanto che se l’è fatto ripetere all’orecchio. Con un cenno del capo ha confermato l’esattezza di quel che gli veniva detto. E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte (tutte le pareti che lo impediscono vengono abbattute e sugli scaloni che si levano alti ed ampi son disposti in cerchio i grandi del regno) dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto; è un uomo robusto, instancabile; manovrando or con l’uno or con l’altro braccio si fa strada nella folla; se lo si ostacola, accenna al petto su cui è segnato il sole, e procede così più facilmente di chiunque altro. Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! e presto ascolteresti i magnifici colpi della sua mano alla tua porta. Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi strada nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla; dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo mai e poi mai potrà avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto.
Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera

giovedì 6 novembre 2008

Il discorso inedito di Silvio Berlusconi dopo la vittoria elettorale

Se ancora c'è qualcuno che dubita che l'Italia non sia un luogo nel quale nulla è impossibile, che ancora si chiede se il sogno dei padri della nostra Costituzione democratica e antifascista è tuttora vivo in questa nostra epoca, che ancora mette in dubbio il potere della nostra democrazia, questa notte ha avuto le risposte che cercava.
Poco fa, questa sera ho ricevuto una telefonata estremamente cortese dall’onorevole Walter Veltroni.
L’onorevole Veltroni ha combattuto a lungo e con forza in questa campagna e si è impegnato per il Paese che ama.
Mi congratulo per il suo impegno e non vedo l'ora di lavorare con lui per rinnovare nei prossimi mesi la promessa di questa nazione.
Ci saranno battute d'arresto e false partenze. Ci saranno molti che non saranno d'accordo con ogni decisione o ogni politica che varerò da Presidente del Consiglio e già sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarò sempre onesto con voi in relazione alle sfide che dovremo affrontare. Vi darò ascolto, specialmente quando saremo in disaccordo.
E a quegli italiani il cui supporto devo ancora conquistarmi, dico: forse non ho ottenuto il vostro voto, ma sento le vostri voci, ho bisogno del vostro aiuto e sarò anche il vostro presidente.

sabato 13 settembre 2008

Necropoli / Boris Pahor



Incipit:
Domenica pomeriggio. Il nastro d'asfalto liscio e sinuoso che sale verso le alture fitte di boschi non è deserto come vorrei. Alcune automobili mi superano, altre stanno facendo ritorno a vale, verso Schirmeck; così il traffico turistico trasforma questo momento in qualcosa di banale e non mi permette di mantenere il raccoglimento che cercavo. So bene che anch'io, con la mia macchina faccio parte di questa processione motorizzata, eppure sono sicuro che, vista la mia passata intimità con questi luoghi, se sulla strada fossi solo, il fatto di viaggiare in automobile non scalfirebbe l'immagine onirica che dalla fine della guerra riposa nell'ombra della mia coscienza. Lo ammetto, non riesco ad accettare fino in fondo l'idea che questo posto di montagna, cardine del mio mondo interiore, sia visitabile da chiunque; e soffro anche un po' di gelosia non soltanto perché occhi estranei percorrono uno scenario che fu testimone della nostra anonima prigionia, ma anche perché questi sguardi curiosi (n sono assolutamente certo) non potranno mai penetrare nell'abisso di abiezione in cui fu gettata la nostra fiducia nella dignità umana. Ecco che però, giunta da chissà dove, inizia a insinuarsi nel mio animo anche una piccola soddisfazione per il fatto che questa altura dei Vosgi non sia più il territorio segreto di una lontana dannazione consumatasi tutta in se stessa, ma sia diventata un luogo verso cui si dirigono i passi di innumerevoli persone. E queste persone, anche se la loro immaginazione sarà insufficiente per la visita che li attende, riusciranno tuttavia a intuire, attraverso le vie del cuore, l'inconcepibile realtà del destino di quei loro figli perduti.

Anch'io avrei preferito, nella visita a Mauthausen, essere solo o in piccola compagnia per poter "intuire" la realtà di quel luogo. Per fortuna libri come questo, con la loro prosa asciutta e tagliente, priva di emotività, aspra nella fredda descrizione dell'inconcepibile, sono preziosi per chi voglia mantenere fare in modo che la memoria di queste storie resti una luce sempre accesa.
Pahor, in questo libro, più volte ci dice che per noi, venuti dopo, è impossibile capire e, pur visitando quei luoghi, non possiamo "viverli" come chi li ha vissuti e ha condiviso la sofferenza e l'annientamento. Credo che, per cercare di avvicinarci, dovremmo immaginare di tornare in un luogo dove la nostra famiglia è stata sterminata e noi siamo gli unici sopravvissuti di questa strage: ebbene, quei luoghi familiari parlerebbero solo a noi, quella sofferenza sarebbe solo nostra. Ma qui, più che un'esperienza privata e momentanea (un singolo delitto) abbiamo una condivisione di sofferenza e di morte tra migliaia di persone, un delitto continuato per giorni, mesi, anni, in un abbrutimento totale dell'individuo. Per questo l'esperienza e il messaggio dei luoghi sono così difficili da trasmettere a chi non li ha vissuti.

Ora lo so che avremmo dovuto balzare fuori dalle baracche, precipitarci giù dalle gradinate, assalire tutti insieme la baracca dalla quale un SS conduceva, a una a una, le ragazze nella baracca col forno ... Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n'era andato insieme al succo vitale che scorreva vi dai corpi con la diarrea. Perché quando la pelle diventa pergamena e le cosce si riducono allo spessore delle caviglie, anche i palpiti del pensiero diventano flebili bagliore di una torcia esaurita.

Chissà, forse solo un nuovo ordine monastico laico potrebbe risvegliare l'uomo standardizzato, un ordine che vestisse il saio striato degli internati e inondasse le capitali dei nostri Stati, disturbasse con il rumore dei suoi zoccoli il raccoglimento dei negozi lussuosi e dei passeggi. Ciò che qui è rimasto dei vasi con la cenere dovrebbe essere portato in processione nelle città.

Come avevo potuto essere tanto stupido da introdurre fra i morti il ritratto di una persona viva! [il ritaglio con la foro di Alida Valli] . Un morto tra i vivi ci può stare, ma il contrario no. Lo scheletrico abitante di un campo non può toccare i vivi neppure col pensiero! Una volta per sempre deve abbandonare tutto ciò che vive su un'invisibile isola di sogno, fuori dall'atmosfera terrestre, e non deve più avvicinarglisi né con l'immaginazione né col ricordo. E non deve mettere il ritratto di una giovane viva fra le tombe.

"Non siamo zingari" dissero indicando la grande I maiuscola segnata con la matita copiativa in mezzo al triangolo rosso. "Italiener und Zigenner, gleich!" [Italiani o Zingari, fa lo stesso], urlò lo stalliere ricompattando a pedate quei piccoli uomini.

Leggendo questo libro ho capito che il male è molto più forte, solido, resistente del bene. Boris Pahor, come tanti ex internati, sente fortissimo il senso di colpa, si accusa per avere barattato sigarette con cibo e quando va a visitare il suo campo non riesce a dormire in un albergo o in un letto normale. Dorme su un materassino, in auto, dopo aver tolto il sedile anteriore destro. Gli sembrerebbe un'offesa ai morti del lager dormire lì vicino in un letto comodo.
Invece, tra i persecutori è raro il pentimento e nemmeno uno dice un banale "Mi dispiace". Dal male estremo non c'è ritorno. Una volta imboccata la loro strada, i persecutori vanno avanti, solidi come rocce. La loro sconfitta è solo militare e non avviene su un piano etico. E' veramente preoccupante, perché ciò dimostra che il bene è debole e fragile e la sua vittoria non può mai darsi per scontata.

Links:

B grande statista va a Londra

Quando James Landale della BBC gli ha chiesto come mai l'Italia fosse al 65mo posto nella lista stilata dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo dei paesi migliori per fare investimenti, dietro Giamaica, Perú e Turchia, ha iniziato a vaneggiare sul fatto che l'Italia abbia piú impianti TV e cellulari rispetto a qualunque altro paese europeo, un alto numero di automobili, il 72% delle opere d'arte europee, 100.000 chiese, 3.500 musei, 2.500 siti archeologici ed una squadra di calcio di prestigio mondiale.


Ho preso questa notizia, tra le tante come esempio di quanto siano divisi gli italiani. 

Quando ho sentito le dichiarazioni di B a Londra mi sono vergognato: sono dichiarazioni di un provincialismo imbarazzante, degne di un piazzista, di un venditore di fumo. Se il tuo paese è grande, è importante non hai bisogno di ripeterlo. Ma il  piazzista ha bisogno di elencare numeri e percentuali, magari un po' gonfiati,  per fare "bella figura", avrebbe potuto estrarre anche un bel campionario per illustrare quante belle cose abbiamo, noi Italiani.

Ma il punto più interessante è che di fronte a queste frasi, altri italiani (la maggior parte, credo), hanno reazioni del tutto opposte: pensano che sia giusto dire queste cose, non sentono la volgarità e il provincialismo, magari pensano che"gliele ha cantate a questi arroganti inglesi", ha difeso il nostro bel paese, in modo simpatico, ecc. ecc.

E questo esempio, vale, per innumerevoli questioni, anche più importanti: quello che per alcuni è populismo, demagogia, volgarità, provincialismo, per altri è semplicità, simpatia, vicinanza.

Ma un paese così dove può andare?

domenica 7 settembre 2008


Una solitudine troppo rumorosa /
Bohumil Hrabal


Incipit:
"Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è là la mia 'love story'. Da trentacinque anni presso carta vecchia e libri, da trentacinque anni mi imbratto con i caratteri, sicché assomiglio alle enciclopedie, delle quali avrò pressato sicuramente trenta quintali, sono una brocca piena di acqua viva e morta, basta inclinarsi un poco e da me scorrono pensieri tutti belli, contro l mia volontà sono istruito e così in realtà neppure so quali pensieri sono miei e provengono da me e quali li ho letti ... "

Un libro che è una vera boccata d'aria fresca. A parte il caratteristico e coinvolgente surrealismo ceco e praghese che ricorda altre notevoli letture (Il buon soldato Švejk, Praga magica), vorrei sottolineare tre aspetti:
1) la poeticità del testo: questo non è un romanzo, ma un testo poetico. La poesia lo percorre, a partire dal protagonista che ama il suo lavoro, è felice di offrire agli altri piccole gioie (i libri che riesce a raccogliere), che offre tutto quello che ha, senza chiedere niente, alle donne che ama. Stupendo esempio di testo poetico è quello relativo alla piccola zingara: ".... tanto più pensavo alla mia zingara, che non esultava mai, che non voleva niente altro che aggiungere carbone nella stufa e cucinare gulash di patate con salame di cavallo e andare a prendere le birre dalla brocca grande, non voleva altro che spezzare il pane come l'ostia santa e poi guardare attraverso lo sportellino aperto della stufa la stufa e i raggi, lo scoppiettio melodioso del fuoco, il canto del fuoco che lei conosceva dall'infanzia ..."
In fondo anche Hanta (il protagonista) è così, uno che "non voleva altro" che lavorare con la sua pressa, impossessarsi di nuovi pensieri e dare qualche gioia agli altri (le piccole gioie).
2) Il secondo aspetto è la capacità di offrire una scrittura "visiva" attraverso le immagini, la descrizione degli oggetti e, soprattutto, i colori: "mosca verde e azzurro metallico", "guanti arancioni e azzurro chiaro e berretti americani gialli", "tuta azzurra fino ai capezzoli", "girocolli verdi", "calzini viola", ecc.
E poi l'uso delle opere dei pittori per foderare i pacchi imballati: i Girasoli di van Gogh, Buongiorno, signor Gauguin. Tele molto colorate, in contrasto con il grigiore del sottosuolo dove lavora Hanta.
3) Il lavoro, la bellezza del lavoro che produce cose e, per quanto riguarda il protagonista, soprattutto la creatività, il lavoro come opera d'arte che si realizza nei pacchi foderati di riproduzioni artistiche, con dentro l'anima di un'opera classica.
Il lavoro è presente in tutto il testo, anche perché tutto avviene in un posto di lavoro e tutto si conclude lì. Hanta si realizza nel suo lavoro e immagina addirittura di portarsi a casa la pressa (come la locomotiva per lo zio), una volta in pensione. Il lavoro è presente nelle operaie di Libuse che macellano i polli, nella storia di Mancinka che attraverso innumerevoli fidanzati si fa costruire la casa (sterratore, muratore, falegname, idraulico, copritetti, imbianchino, ebanista e poi lo scultore), nell'elenco delle fasi per la produzione dei libri (scrivere, correggere, leggere, illustrare, comporre, refusare, ricomporre, ecc.).
Infine la crisi personale di Hanta è strettamente legata alla crisi del suo modo di lavorare: la gita a Bubny gli rivela un mondo nuovo, contrapposto al suo, che lo coinvolgeva sia fisicamente ("per gustare sulle dita la carta") sia spiritualmente e intellettualmente (la creazione dei pacchi, come opere d'arte):

" ... perché a un tratto seppi con precisione che quella pressa gigantesca era un colpo a tutte le presse piccole, sapevo d'un tratto che quello che stavo vedendo era una nuova epoca nella mia branca, che quelli erano ormai altri uomini, un altro modo di lavorare ... Era giunta la fine delle piccole gioie che in un piccolo deposito giungevano in forma di libri e libriccini ritrovati ..."

"... qui seppi che era definitivamente la fine dei vecchi tempi, che era finita l'epoca in cui l'operaio, in ginocchio e fra le dita e i palmi, combatteva col materiale come se ci lottasse, lo metteva sulla pala, sicché ogni vecchio tipo di operaio era distrutto e imbrattato dal lavoro, perché doveva far spremere il lavoro al corpo"

Non c'è più legame tra lavoro e vita, il lavoro non è più espressione, realizzazione di se stessi, diventa pura procedura tecnica, senza coinvolgimento e senza pensiero. Gli operai nuovi, anzi "i nuovi uomini" possono fare la gita in Grecia, senza nulla sapere della Grecia, senza, in sintesi, pensare.

Altre frasi interessanti:
"contro la mia volontà sono istruito"
"... un uomo che sa pensare, anche lui non è umano"
"in una solitudine popolata di pensieri"
"siamo come le olive, soltanto quando veniamo schiacciati esprimiamo il meglio di noi"
"pagine inorridite"





giovedì 14 agosto 2008

Il grande sertao / Joao Guimaraes Rosa



Ho rivendicato, nonostante tutto, uno dei diritti fondamentali del lettore: non finire un libro se non ti piace. Ho cercato di andare avanti, ma alla fine ho ceduto. Questo libro era stato segnalato da Magris e, conoscendo il suo stile di scrittura, mi aspettavo un racconto chiaro e scorrevole. Invece ...

Devo premettere che non amo il realismo magico, a parte il precursore "Cent'anni di solitudine", né mi attirano i libri di avventura. 
Questo è un romanzo "epico" che racconta le vicende degli jaguncos, banditi del sertao brasiliano, ma si tratta di vicende che si ripetono, sia pure con variazioni: la battaglia, l'assedio, l'attacco a sorpresa, la spedizione notturna, ecc. Il protagonista racconta ad un giudice le sue vicende ed anche il suo legame con il compagno di battaglia che viene presentato in modo volutamente ambiguo. Sembrano Achille e Patroclo oppure più vicini a noi i protagonisti di Brokeback Mountain, per l'ambientazione selvaggia.
Ci sono pagine molto belle, ma immerse in un mare di descrizioni spesso confuse e incomprensibili, con un eccessivo riferimento a termini ornitologici o faunistici.
Un linguaggio espressionistico, con termini inventati (quanta fatica, povero traduttore!), con alti livelli di ipnotismo dovuto alla ripetitività e alle frasi spezzate.
Eccessivo anche l'utilizzo di elenchi di nomi che provocano effetti di torpore e di noia.
Ho saputo più tardi che questo libro è un vero e proprio classico della letteratura brasiliana e che viene studiato nelle scuole. Forse la conoscenza della lingua e dell'ambiente naturale lo rende apprezzabile e appassionante.

martedì 29 luglio 2008

Nemico, amico, amante ... /Alice Munro



Un libro di racconti. Di solito non leggo racconti, faccio fatica a ricordarli. Ma questi mi sono piaciuti per la linearità,  la scorrevolezza del linguaggio e per la capacità di rendere storie spesso drammatiche (ci sono quasi sempre malattie gravi, morti e suicidi) con un senso di serena accettazione del destino. Sembra che le cose debbano andare come vanno e che i protagonisti sappiano fronteggiarle con un certo stoicismo. Anche i tradimenti appaiono, in qualche racconto, come delle luci improvvise che non portano a drammatici deragliamenti: c'è sempre una certa forza che impedisce e frena soluzioni tragiche.

sabato 19 luglio 2008

Mani di Patrick Leigh Fermor


Incipit: "Farà bene a stare attento, se va su ad Anavriti" ammonì il giovane barbiere con un sinistro schiocco di forbici. Le tuffò in un'altra manciata di capelli impastati di polvere. Il trac dell'amputazione, e un'altra ciocca si aggiunse al cerchio di detriti incolori per terra. Riflessa nello specchio di fronte,la testa emergente dal lenzuolo si rimpiccioliva a vista d'occhio. già la sentivo qualche libbra più leggera. "Sono gente stramba"

In fondo tutto il libro è contro la diffidenza di questo barbiere (ma potrebbe essere chiunque) per il diverso, il lontano, lo straniero. Libro scritto da un grande viaggiatore, di cui ho potuto vedere l'ampia villa dove vive, ormai vecchio, a Kardamili. Un innamorato della Grecia e del suo popolo, in particolare della popolazione del Mani, di cui descrive, in occasione del viaggio, storia, abitudini, costumi, carattere.
A volte c'è un ecesso di descrizione naturalistica e paesaggistica, con troppe (a volte troppo ardite) metafore, ma nel complesso il libro offre notevoli spunti di riflessione su molte questioni, dalla religione all'arte.
Con questo libro ho ripercorso le mie modeste esperienze di viaggio nel Peloponneso
e nel Mani, che mi aveva colpito per il paesaggio
arido e selvaggio,
quasi da "fine del mondo": è sulla punta del Mani, Capo Matapan, che c'era il Tenaro, la grotta per passare nell'Ade.
Nomi che ad altri dicono poco, suscitano ricordi particolari: Kardamili, Areopoli, Vathia (con le innumerevoli torri maniote), Porto Kagio.


"[I fucili] avevano un nome eufonico, che sembra più adatto a un fiore che a un fucile, e che in effetti somiglia alla parola greca per garofano e chiodo di garofano: kariofilia. Questa parola musicale e strana è una approssimativa ellenizzazione del nome di un armaiolo italiano i cui prodotti erano pregiatissimi in tutto il Levante. Carlo e figli"

Con quale facilità le popolazioni si spostavano nelle antiche terre greche, nel mondo conquistato ed ellenizzato da Alessandro, nel vasto spazio di Roma e dell'impero bizantino! Senza documenti, libera, senza pastoie, la gente errava a suo piacimento fra il Tamigi, il Danubio, l'Eufrate e l'alto Nilo, in ogni luogo, insomma, esente dalla minaccia barbarica, e spesso al di là. Oggi ognuno è numerato, inanellato come un piccione, rinchiuso in una gabbia di frontiere. Sul saldo telaio di popolazioni sedentarie si tesseva sempre, costante e irregolare nella trama e nell'ordito, un movimento spicciolo generato da irrequietezza, da intenti commerciali, sete di bottino, ricerca di colonie, fughe o esili, oppure un vero e proprio trapianto, dovuto forse a motivi politici alla ricerca di un rifugio.

Gli imperi erano più cosmopoliti e più facili da percorrere per i migranti, più eterogenei nella composizione delle diverse etnie. Lo stato nazionale è per sua natura chiuso.

"Perché non restate? ... Passeremo il tempo insieme ..."
Dia na perasome tin ora (per passare il tempo)
Una bellissime espressione greca

Arte orientale greca / Arte occidentale

[Le icone] sono in effetti, ideogrammi. Il loro legame con carne e sangue è talmente esiguo, che è quasi un caso che la notazione sia, nel suo modo molto rarefatto, antropomorfica. Sono, si potrebbe dire, dorate e illuminate radici cubiche del Logos.

Da questo momento si puà dire che in Oriente l'arte religiosa volle portare l'uomo a livello di Dio, e in Occidente Dio a livello dell'uomo, ponendo ciascuna delle due l'accento su una metà diversa della natura di Nostro Signore.

... i pittori greci di icone hanno scelto la strada più difficile. Hanno cercato di accedere allo spirito non per le facili vie della passione, ma tramite l'intelletto [Religione e filosofia]
... l'Occidente, dico, ha dipinto e scolpito Cristo come uomo. Le vette intellettuali indicate da Bisanzio non furono scalate, e la religione fu propagata nell'arte tramite le emozioni [elemento patetico]





Uomini grandi

Un paese è grande solo se sa produrre uomini saggi, e se ha il buon senso di eleggerli. Altrimenti gli individui, per quanto buoni e bravi e intelligenti, sono come degli zeri senza valore. Metti alla loro testa un governante in gamba, ed è come il numero in una cifra scritta, dà valore a tutti gli zeri, li muta nella somma di otto milioni nel caso della Grecia ...

sabato 31 maggio 2008

La fortezza di Robert Hasz


Hasz Robert
La fortezza / Robert Hasz ; traduzione di Andrea Rényi. - Roma : Nottetempo, c2008. - 325 p. ; 20 cm

Incipit:
"Quel pergolato aveva qualcosa di magico che nemmeno Livius riusciva a capire; è pur vero che allora non se n'era dato pensiero. Accettava semplicemente il fatto che nel mondo ci fosse un piccolo paradiso recintato, dove si sentiva sempre bene. tutte le volte che ci ripensava però doveva ammettere che quello era il giardino meno curato di tutti. Faceva fatica a immaginare Fabrio con le cesoie in mano mentre tagliava i ramoscelli superflui degli alberi da frutto, o mentre frugava con la vanga tra i tralci di vite. Sorrideva al solo pensiero".


Naturalmente c'è una parte, o meglio un'atmosfera, che ricorda "Il deserto dei tartari", ad esempio nella descrizione della fortezza:
"Davanti a loro, a distanza ravvicinata, nella semioscurità brumosa, si delineavano i contorni sfocati di una roccaforte. Un tempo era stata sicuramente un castello medioevale, lo testimoniavano le alte mura, più spesse alla base che in cima, i resti di bastioni e la grande porta ad arcoin cui terminava la strada asfaltata in salita"

Ma è una fortezza strana nella quale si muovono soldati senza armi e senza alcuna missione apparente, in un posto dove affiorano ricordi e in un tempo sfasato rispetto al tempo reale. Alla fine il mistero e la missione della fortezza saranno rivelate ed emergerà il richiamo alla "grande storia" della Yugoslavia (la salma del Maresciallo) e della sua tragica distruzione, anche se la vicenda resta per consapevole scelta, molto sfumata. Ma emerge una certa nostalgia, nonostante tutto.
Un libro che si legge volentieri.


lunedì 28 aprile 2008

Grande e preveggente Alexis!!

".... Può tuttavia accadere che un gusto eccessivo per i beni materiali porti gli uomini a mettersi nelle mani del primo padrone che si presenti loro. In effetti, nella vita di ogni popolo democratico, vi è un passaggio assai pericoloso. Quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente della civiltà e dell'abitudine alla libertà, arriva un momento in cui gli uomini si lasciano trascinare e quasi perdono la testa alla vista dei beni che stanno per conquistare. Preoccupati solo di fare fortuna, non riescono a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti. In casi del genere, non sarà neanche necessario strappare loro i diritti di cui godono: saranno loro stessi a privarsene volentieri...
Se un individuo abile e ambizioso riesce a impadronirsi del potere in un simile momento critico, troverà la strada aperta a qualsivoglia sopruso. Basterà che si preoccupi per un po' di curare gli interessi materiali e nessuno lo chiamerà a rispondere del resto. Che garantisca l'ordine anzitutto!
Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell'ordine è già schiava in fondo al cuore, schiava del suo benessere e da un momento all'altro può presentarsi l'uomo destinato ad asservirla.
Quando la gran massa dei cittadini vuole occuparsi solo dei propri affari privati i più piccoli partiti possono impadronirsi del potere. Non è raro allora vedere sulla vasta scena del mondo delle moltitudini rappresentate da pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o disattenta, che agiscono in mezzo all'universale immobilità disponendo a capriccio di ogni cosa: cambiando leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi; tanto che non si può fare a meno di rimanere stupefatti nel vedere in che mani indegne e deboli possa cadere un grande popolo".

Da: De la démocratie en Amerique di Alexis De Tocqueville, 1840.

mercoledì 16 aprile 2008

Elezioni

Tristezza post elettorale, purtroppo l'Italia l'è malada e mi consolo con un bell'articolo di Michele Serra, pubblicato prima dei risultati:

Andare a votare mi è sempre piaciuto, amo la banalità della democrazia, nutro simpatia per i seggi, gli scrutatori, i tabelloni appesi, le guardie che guardano, la matita copiativa. Mi emoziono ogni volta, anche se le volte oramai sono tante. Non ho mai capito l’ignavia dei disinteressati, dei non partecipi per menefreghismo, e fatico a digerire anche la spocchia di quelli che non vanno a votare perché “non si riconoscono” in nessun partito, chissà se si riconosceranno nel re di Atlantide, negli anelli di Saturno, nella barba di Bakunin, nella loro mamma?

Temo proprio che perderò anche questa volta, d’altra parte questo paese è sempre stato un paese di destra, cattolico e di destra, gli elettori di sinistra sono abituati a perdere da generazioni, di padre in figlio, ci sono quelli che lo fanno apposta e votano l’estrema perché è bello sentirsi pochi ma buoni, ci sono quelli che invece cercano di fare mucchio (come me) ma passano gli anni e il mucchio non è quasi mai abbastanza grosso per governare. Da quando vado a votare ho vinto solo un paio di volte su venti, è una media da retrocessione. Incredibilmente ci credo ancora, mi piace ancora, specialmente se penso a tutta la brava gente che si è fatta un gran mazzo in campagna elettorale. Ho un paio di amici che rimarranno a casa, a misurare la puzza sotto il naso. Da dopodomani gli vorrò bene lo stesso, oggi no. Oggi li detesto.

da Repubblica del 13 aprile 2008

lunedì 17 marzo 2008

Bob Kennedy 18 marzo 1968

Quanta idealità in questo discorso e qunato ci mancano voci come queste!


"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell'ammassare senza fine beni terreni.

Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow-Jpnes, nè i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.

Il PIL comprende anche l'inquinamento dell'aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta."