venerdì 24 dicembre 2021

L'estate del sessantanove / Andrea Renyi

 


Gli addii / Juan Carlos Onetti

Gli addii / Juan Carlos Onetti ; traduzione di Dario Puccini ; prefazione di Antonio Munoz Molina ; con un saggio di Mario Benedetti. - Roma : Sur, 2015 (Littlesur ; 5). - 131 p. ; 20 cm.

Incipit:

Avrei voluto non avere visto dell’uomo, la prima volta che entrò nel negozio, nient’altro che le mani; lente, intimidite e goffe, con movimenti senza fiducia, affilate e ancora non scurite dal sole, quasi a voler chiedere scusa per il loro gestire disinteressato. Mi fece alcune domande e prese una bottiglia di birra, in piedi all’estremità più in ombra del bancone, con il viso – sullo sfondo del calendario, dei sandali e dei salami imbiancati dagli anni – rivolto verso l’esterno, verso il sole dell’imbrunire e il viola sfumato delle montagne, mentre aspettava l’autobus che lo avrebbe lasciato davanti ai cancelli dell’albergo vecchio.

Avrei voluto non avergli visto altro che le mani, mi sarebbe bastato vederle quando gli diedi il resto dei cento pesos e le sue dita strinsero i biglietti, cercarono di ordinarli e, subito, per improvvisa decisione, li appallottolarono e li nascosero con pudore in una tasca della giacca; mi sarebbero bastati quei movimenti sopra il legno pieno di fessure riempite di unto e di sudiciume per capire che non si sarebbe curato, che non aveva nessuna idea da cui trarre la volontà di curarsi.

In genere mi basta vederli, e non ricordo di essermi mai sbagliato; ho sempre formulato i miei pronostici prima di sapere l’opinione di Castro o di Gunz, i medici che abitano in paese, senza altri dati, senza avere bisogno di altro che di vederli arrivare al negozio con le loro valigie e le loro quote diverse di vergogna e di speranza, d’ipocrisia e di sfida.


Link:

doppiozero.com

ilsole24ore.com/art/cultura

2000battute.blog

latinoamericapop

lucialibri.it






Fame di guerra / Paolo Fonzi

Fame di guerra : l'occupazione italiana della Grecia (1941-43) / Paolo Fonzi. - Roma : Carocci, 2019 (Studi storici Carocci ; 322). -  215 p. ; 22 cm.


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Alla fonte delle parole / Andrea Marcolongo

 


La peste / Albert Camus

 

La peste / Albert Camus ; traduzione di Yasmina Mélaouah. - Firenze ; Milano : Bompiani, 2020 (Classici contemporanei Bompiani). - Firenze ; Milano : Bompiani, 2020.


Incipit

I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano. Era opinione diffusa che capitassero nel luogo sbagliato, trattandosi di avvenimenti un po’ fuori dal comune. E Orano è invece, a prima vista, un posto comunissimo, una semplice prefettura francese della costa algerina.

La città, a onor del vero, è brutta. Il suo aspetto tranquillo impedisce che si colga subito ciò che la rende diversa da tante altre città commerciali a qualsiasi latitudine. Come fare immaginare, per esempio, una città senza piccioni, senza alberi e senza giardini, dove non si incontrano né battiti d’ali né fruscii di foglie, un luogo neutro insomma? Qui il passaggio delle stagioni si legge soltanto nel cielo. La primavera si annuncia esclusivamente dalla qualità dell’aria o dalle ceste di fiori che i venditori portano dai sobborghi; è una primavera che si vende al mercato. Durante l’estate il sole incendia le case troppo asciutte e copre i muri di una cenere grigia; allora si può vivere solamente all’ombra delle imposte chiuse. In autunno, invece, è un diluvio di fango. Le belle giornate arrivano solo d’inverno.

Un modo facile per conoscere una città è scoprire come vi si lavora, come si ama e come si muore. A Orano, per effetto forse del clima, tutto questo si fa allo stesso modo, con la medesima aria frenetica e assente. In definitiva, ci si annoia, e ci si sforza di prendere delle abitudini. I nostri concittadini lavorano molto, ma sempre per arricchirsi. Si dedicano principalmente al commercio e pensano soprattutto, come dicono loro, a fare affari. Va da sé che apprezzano anche i piaceri semplici, amano le donne, il cinema e andare al mare. Ma, molto ragionevolmente, riservano questi svaghi al sabato sera e alla domenica mentre negli altri giorni della settimana cercano di guadagnare molto denaro. Quando la sera escono dagli uffici, si ritrovano alla solita ora nei caffè, passeggiano lungo lo stesso boulevard oppure si mettono al balcone. I desideri dei più giovani sono violenti e brevi, mentre i vizi dei più vecchi si limitano alla frequentazione delle bocciofile, delle feste del dopolavoro e dei circoli dove tentano la fortuna puntando grosso alle carte.

Topi

A partire dal quarto giorno, i topi cominciarono a uscire per morire in gruppi. Salivano in lunghe file malferme da ogni angolo nascosto, dagli scantinati, dalle cantine, dalle fogne, e, barcollanti, uscivano alla luce per ruotare su stessi e morire vicino agli esseri umani. Di notte si udivano distintamente i loro stridii di agonia nei corridoi o nei vicoli. Al mattino, nei quartieri dei sobborghi, li trovavi riversi nei rigagnoli con un piccolo fiore di sangue sul muso appuntito, alcuni gonfi e putrefatti, altri rigidi e con i baffi ancora dritti. Se ne rinvenivano anche in centro, a mucchietti, sui pianerottoli o nei cortili. 

Tempo

“Domanda: come si fa per non sprecare tempo? Risposta: sentirlo in tutta la sua durata. Modi: passare giornate nella sala d’aspetto di un dentista, su una sedia scomoda; trascorrere la domenica pomeriggio al balcone; ascoltare conferenze in una lingua che non si conosce, scegliere i tragitti ferroviari più lunghi e complicati e viaggiare ovviamente in piedi; fare la coda al botteghino e non prendere i biglietti per lo spettacolo ecc.” 

Alla sprovvista

Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Era stato colto alla sprovvista il dottor Rieux, come lo erano stati i nostri concittadini, e questo spiega le sue titubanze. E spiega anche perché fosse combattuto tra la preoccupazione e la fiducia. Quando scoppia una guerra tutti dicono: “È una follia, non durerà.” E forse una guerra è davvero una follia, ma ciò non le impedisce di durare. La follia è ostinata, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo, i nostri concittadini erano come tutti gli altri, erano presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli.

Inquietudine, 1 morto versus 100 milioni

... il dottore sentiva a malapena nascere dentro di sé quel lieve scoramento di fronte al futuro che chiamiamo inquietudine. Provava a fare mente locale su ciò che sapeva della malattia. Nella memoria gli ballavano dei numeri e si diceva che la trentina di grandi pesti della storia avevano fatto quasi cento milioni di morti. Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando hai fatto la guerra, sai a stento cos’è un morto. E poiché un uomo morto ha un peso solo se qualcuno l’ha visto morto, per l’immaginazione cento milioni di cadaveri disseminati nella storia sono soltanto fumo. Il dottore ricordava la peste di Costantinopoli, che secondo Procopio aveva fatto diecimila vittime in un giorno. Diecimila morti sono cinque volte il pubblico di un grande cinema. Ecco cosa bisognerebbe fare. Si radunano le persone all’uscita di cinque cinema, si portano in una piazza della città e le si fa morire tutte insieme per farsi un’idea un po’ precisa. Almeno si potrebbero mettere dei volti noti su quel cumulo anonimo. Va da sé che una cosa del genere è irrealizzabile, e poi chi li conosce diecimila volti?

Dubbi (morti di peste o con la peste?)

L’annuncio che nella terza settimana di peste si erano contati trecentodue morti rimaneva infatti qualcosa di astratto. In primo luogo, forse non tutti erano morti di peste. E in secondo luogo nessuno sapeva quante persone morissero alla settimana in tempi normali. La città contava duecentomila abitanti. Nessuno aveva idea se quella percentuale di decessi fosse nella media. Si tratta, anzi, del genere di dettagli di cui non ci si cura mai, nonostante l’indubbio interesse che presentano. In un certo senso, all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone. Solo con il passare del tempo, constatando l’aumento dei decessi, ci si rese conto della verità.La quinta settimana si ebbero infatti trecentoventuno morti e la sesta trecentoquarantacinque. L’incremento, se non altro, era eloquente. Ma non era abbastanza elevato perché i nostri concittadini non serbassero, pur nell’inquietudine, l’impressione che si trattasse di un incidente certo increscioso, ma tutto sommato temporaneo.

La pietà

Alla fine di quelle settimane sfibranti, dopo tutti quei crepuscoli in cui la città si riversava in strada per girare a vuoto, Rieux capiva che non aveva più bisogno di difendersi dalla pietà. Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile. 

La peste come castigo

Era un uomo di statura media, ma dal fisico massiccio. Quando si appoggiò al bordo del pulpito, stringendo il legno fra le grosse mani, si vide di lui solo una forma tozza e nera sormontata dalle due chiazze rubiconde delle guance sotto gli occhiali di metallo. Aveva una voce forte e appassionata, che arrivava lontano, e nell’istante in cui affrontò l’uditorio scandendo un’unica frase veemente: “Fratelli, la sventura vi ha colpito, fratelli, ve lo siete meritato,” un mormorio percorse il pubblico fino al sagrato. 

“Fratelli,” disse con forza, “la stessa caccia mortale avviene oggi nelle nostre strade. Guardatelo, questo angelo della peste, bello come Lucifero e fulgido come il male, in piedi sui tetti, la mano destra a stringere lo spiedo rosso all’altezza della testa e la mano sinistra a indicare una delle vostre case. Forse in questo momento tende il dito verso la vostra porta, lo spiedo risuona sul legno; in questo momento la peste entra nella vostra casa, si siede in camera da letto e aspetta il vostro ritorno. È lì, paziente e attenta, inconfutabile come l’ordine del mondo. E nessuna potenza terrena, né tantomeno, sappiatelo, la vana scienza umana, potrà farvi evitare la mano che tenderà verso di voi. Così, battuti sull’aia sanguinosa del dolore, sarete gettati via con la paglia.”

Le quattro del mattino

E il giorno in cui Rambert gli disse che amava svegliarsi alle quattro del mattino e pensare alla sua città, il dottore tradusse subito dal profondo della propria esperienza che in quel momento lui amava immaginare la donna che aveva lasciato. Era infatti l’ora in cui poteva impadronirsi di lei. Nessuno fa niente, in genere, alle quattro del mattino, anche se la notte è stata una notte di tradimento. A quell’ora tutti dormono, ed è rassicurante, poiché il grande desiderio di un cuore inquieto è possedere ininterrottamente l’essere amato o poterlo far piombare, quando giunge il tempo dell’assenza, in un sonno senza sogni che abbia fine solo il giorno del ricongiungimento.

Ascesa e discesa

A Tarrou, che si era mostrato stupito della vita reclusa che conduceva, aveva spiegato su per giù che secondo la religione la prima metà della vita di un uomo era un’ascesa e l’altra metà una discesa, che nella discesa l’uomo non possedeva più le proprie giornate che potevano essergli portate via in qualsiasi momento, che quindi non poteva farne niente e che la cosa migliore era per l’appunto non farne niente.

Il piacere

All’inizio, quando credevano che fosse una malattia come le altre, la religione era al suo posto. Ma quando hanno capito che era una cosa seria, si sono ricordati del piacere. Tutta l’angoscia che durante il giorno è dipinta sui volti si risolve allora, nel crepuscolo ardente e polveroso, in una specie di eccitazione stranita, una libertà maldestra che infiamma un intero popolo. 

Come al solito, nessuno sapeva niente

Il giorno precedente erano comparsi in città due casi di una forma nuova dell’epidemia. La peste diventava polmonare. Il giorno stesso, nel corso di una riunione, i medici allo stremo avevano chiesto e ottenuto da un prefetto disorientato nuove misure per evitare il contagio, che nelle peste polmonare avveniva per via aerea. Come al solito, nessuno sapeva niente.

Dio onnipotente

“Sì,” disse Tarrou. “Come mai si prodiga così tanto visto che non crede in Dio? Forse la sua risposta mi aiuterà a rispondere.”

Senza uscire dall’ombra, il dottore disse che aveva già risposto, che se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe smesso di guarire gli uomini, lasciando il compito a lui. Ma che nessuno al mondo, no, nemmeno Paneloux che credeva di crederci, credeva in un Dio del genere, poiché nessuno si abbandonava totalmente, e almeno in questo lui, Rieux, pensava di essere sulla via della verità, lottando contro la creazione quale era.

“Ah!” disse Tarrou, “è questa l’idea che si fa del suo lavoro?”

“Più o meno,” rispose il dottore passando nella luce.

Tarrou fece un fischio e il dottore lo guardò.

“Sì,” disse, “penserà che ci vuole un bel po’ di orgoglio. Ma le assicuro che ho soltanto quel minimo di orgoglio necessario. Non so cosa mi aspetta né cosa succederà dopo tutto questo. Per ora ci sono dei malati e bisogna guarirli. Dopodiché rifletteranno, e io con loro. Ma la cosa più urgente è curarli. Li difendo come posso, tutto qua.”

Rifiuto di morire

Quando ho scelto questo mestiere, l’ho fatto per certi versi in maniera astratta, perché ne avevo bisogno, perché era un lavoro come un altro, uno di quei lavori che si hanno in mente da ragazzi. Forse anche perché era difficile, per un figlio di operai come me. Poi mi è toccato veder morire. Lo sa che ci sono persone che si rifiutano di morire? Ha mai sentito una donna gridare: ‘Mai e poi mai!’ al momento di morire? Io sì. E allora mi sono accorto che non riuscivo ad abituarmici. Ero giovane e credevo che la mia avversione fosse rivolta contro l’ordine stesso del mondo. Dopo sono diventato più modesto. Semplicemente, non mi sono ancora abituato a veder morire. Non so altro.

Sconfitta

Ma resta il fatto che le sue vittorie saranno sempre provvisorie.”

Rieux parve incupirsi.

“Sempre, lo so. Non è un buon motivo per smettere di lottare.”

“No, non è un buon motivo. Ma allora immagino cosa debba essere questa peste per lei.”

“Sì,” disse Rieux. “Un’interminabile sconfitta.”

Carcere

Malgrado l’isolamento di alcuni detenuti, una prigione è una comunità, come dimostra il tributo alla malattia pagato tanto dalle guardie quanto dai reclusi del nostro carcere municipale. Dal superiore punto di vista della peste, tutti erano condannati, dal direttore fino all’ultimo carcerato, e per la prima volta regnava forse nella prigione una giustizia assoluta.

Notte e coprifuoco

L’unica misura che parve avere un qualche effetto su tutti gli abitanti fu l’instaurazione del coprifuoco. A partire dalle undici, immersa nel buio completo, la città era di pietra.

Alla luce della luna schierava i suoi muri biancastri e le sue vie rettilinee, mai intaccate dalla macchia scura di un albero, mai turbate dalla camminata di un passante né dall’abbaiare di un cane. La grande città silenziosa era allora soltanto un insieme di cubi massicci e inerti, fra i quali le effigie taciturne di benefattori dimenticati o di antichi uomini illustri imprigionati per sempre nel bronzo erano le uniche tracce che restituissero, con i loro finti volti di pietra o di ferro, un’immagine svilita di ciò che era stato l’uomo. Quegli idoli mediocri troneggiavano sotto un cielo pesante, agli incroci senza vita, come fantocci inerti che ben rappresentavano il regno immobile nel quale eravamo entrati, o perlomeno il suo ordine ultimo, quello di una necropoli dove la peste, la pietra e la notte avrebbero infine zittito qualunque voce.

Funerali

I malati morivano lontano dalla famiglia e le veglie erano vietate, sicché chi moriva di sera passava la notte da solo e chi moriva durante il giorno veniva subito seppellito. I famigliari beninteso venivano avvisati, ma nella stragrande maggioranza dei casi non potevano spostarsi poiché se avevano vissuto a contatto con il malato si trovavano in quarantena. Nel caso in cui non avessero abitato con il defunto, i parenti si presentavano all’ora stabilita, che era quella della partenza per il cimitero, dopo che il corpo era già stato lavato e messo nella bara.

E ai pochi passanti che sfidando il regolamento si attardavano dopo il coprifuoco nei quartieri esterni (o che vi si trovavano a causa del loro lavoro) accadeva talora di imbattersi in lunghe ambulanze bianche che sfrecciavano a gran velocità facendo riecheggiare il loro sordo scampanellio nelle vuote vie notturne. In fretta e furia, i corpi erano gettati nelle fosse. E prima ancora che avessero finito di rotolarvi dentro, le palate di calce gli si rovesciavano sul volto e la terra anonima li copriva dentro buche sempre più profonde.

Disperazione

Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano più il morso. E del resto il dottor Rieux, per esempio, riteneva che fosse proprio questa la tragedia, e che l’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa. Prima coloro che erano separati non erano davvero infelici, c’era nella loro sofferenza una luce, che ora si era spenta. Adesso li vedevi per strada, nei caffè o a casa di amici, placidi e distratti, e lo sguardo così scoraggiato che con loro tutta la città sembrava una sala d’aspetto. 

Calpestio

Tuttavia se si volesse avere un’idea esatta dello stato d’animo in cui si trovavano i separati della nostra città, bisognerebbe di nuovo ricordare quelle eterne sere dorate e polverose che piombavano sulla città senza alberi, quando uomini e donne si riversavano nelle strade. Poiché, stranamente, quel che allora si levava verso le terrazze ancora inondate di sole, in assenza dei rumori di veicoli e di macchine che sono il linguaggio abituale delle città, era soltanto un brusio di passi e di voci sorde, il doloroso trascinarsi di migliaia di suole scandito dal fischio del flagello nel cielo pesante, un calpestio interminabile e alla fine soffocante che segnava il passo, che riempiva pian piano tutta la città e che sera dopo sera costituiva la voce più fedele e più triste della cieca ostinazione che nei nostri cuori rimpiazzava allora l’amore.

Cuore

“Lei è senza cuore,” gli avevano detto un giorno. Invece sì che ce l’aveva un cuore. Gli serviva per sopportare le venti ore al giorno in cui vedeva morire uomini che erano fatti per vivere. Gli serviva per ricominciare ogni giorno. Ormai gli restava cuore solo per questo. Come avrebbe mai potuto quel cuore essere sufficiente a dare la vita?

Accumulo di malattie

‘Ci ha fatto caso,’ mi ha detto, ‘che non è possibile accumulare le malattie? Supponga di avere una malattia grave o incurabile, un cancro serio o una bella tubercolosi, è impossibile che lei si prenda anche la peste o il tifo. Ma d’altronde la cosa è ancora più netta, poiché non si è mai visto un malato di cancro morire in un incidente d’auto.’

Felicità

Ma Rieux reagì con voce ferma dicendo che era una sciocchezza e che non c’era da vergognarsi a scegliere la felicità.

“Sì,” disse Rambert, “ma forse c’è da vergognarsi a essere felici da soli.”

Il male

C’erano senz’altro il bene e il male, e in genere era piuttosto facile spiegarsi cosa li distinguesse. Ma la difficoltà cominciava all’interno del male. C’era per esempio il male apparentemente necessario e c’era il male apparentemente inutile. C’era don Giovanni sprofondato all’Inferno e c’era la morte di un bambino. Se infatti è giusto che il libertino sia folgorato, la sofferenza del bambino invece non si riesce a comprendere. E in verità non c’era in terra nulla di più importante della sofferenza di un bambino e dell’orrore che tale sofferenza comporta e delle ragioni che occorre trovarle. Nel resto della vita, Dio ci semplificava tutto e fino a lì la religione non aveva alcun merito. Qui, invece, ci metteva con le spalle al muro. E così eravamo, sotto le mura della peste, e nella loro ombra mortale dovevamo trovare il nostro bene.

Non si poteva dire: “Questo lo capisco; questo invece è inaccettabile,” bisognava saltare dentro l’inaccettabile, che ci era offerto proprio perché facessimo la nostra scelta. La sofferenza dei bambini era il nostro pane amaro, ma senza quel pane la nostra anima sarebbe morta di fame spirituale.

Tutto o niente

No, non c’era una via di mezzo. Dovevamo accettare lo scandalo perché dovevamo scegliere di odiare Dio o di amarlo. E chi oserebbe scegliere di odiare Dio?

I morti

Non erano più i negletti al cui cospetto si viene a giustificarsi un giorno all’anno. Erano gli intrusi che chiunque voleva dimenticare. Sicché, in una certa maniera, quell’anno la Festa dei Morti fu ignorata. Secondo Cottard, a cui Tarrou riconosceva un linguaggio sempre più ironico, la Festa dei Morti era ogni giorno.

Ed era vero, i falò della peste ardevano sempre più vivaci nel forno crematorio. Da un giorno all’altro, certo, il numero dei morti non aumentava. Ma era come se la peste si fosse comodamente stabilizzata al proprio parossismo e mettesse nei propri quotidiani omicidi la precisione e la metodicità di un impiegato diligente. In linea di principio, e secondo il parere degli esperti, si trattava di un buon segno.

Indifferenza

E alla fine ci si rende conto che nessuno è davvero capace di pensare a nessuno, fosse anche nella peggior sciagura. Poiché pensare davvero a qualcuno significa pensarci ogni istante, senza essere distratti da niente, né dalle faccende di casa, né dal volo di una mosca, né dai pasti, né da un prurito. Ma le mosche e il prurito ci sono sempre. Per questo la vita è difficile. E loro lo sanno bene.”

Ostinazione a vivere

Il Natale di quell’anno fu più la festa dell’Inferno che quella del Vangelo. I negozi vuoti e senza luminarie, i cioccolatini finti o le scatole vuote nelle vetrine, i tram stracolmi di figure scure, non c’era nulla che rammentasse i Natali passati. In quella festa che un tempo accomunava tutti, ricchi e poveri, ora c’era spazio solo per rari pranzi solitari e ignobili che pochi privilegiati pagavano a peso d’oro in chissà quale sudicio retrobottega. Le chiese erano piene di lamenti più che di azioni di grazie. Alcuni bambini correvano nella città triste e gelida ancora ignari di ciò che li minacciava. Ma nessuno osava annunciare loro il dio di un tempo, carico di doni, vecchio come il dolore umano ma nuovo come la giovane speranza. Nel cuore di tutti c’era ormai spazio solo per un’assai vecchia e triste speranza, quella che impedisce agli uomini di abbandonarsi alla morte e che è soltanto una semplice ostinazione a vivere.

Tenerezza

Rieux sapeva cosa pensava in quel preciso istante il vecchio che piangeva, e lo pensava come lui, che quel mondo senza amore era come un mondo morto e che arriva sempre il momento in cui non se ne può più delle prigioni, del lavoro e del coraggio e si implora un volto umano e il cuore incantato della tenerezza.

Il personaggio peste

Tutte le misure prese dai medici, che prima non avevano sortito alcun effetto, sembravano di colpo efficaci. Pareva che la peste fosse a sua volta braccata e che la sua improvvisa debolezza facesse la forza degli stanchi eserciti che finora le erano stati contrapposti. Solo di tanto in tanto la malattia rialzava la testa e in una specie di cieco soprassalto si portava via tre o quattro malati di cui si sperava la guarigione. Erano gli sfortunati della peste, uccisi nel pieno della speranza.

Cambiamento o tutto come prima

Ma Cottard non sorrideva. Voleva sapere se si poteva immaginare che in città la peste non avrebbe cambiato niente e che tutto sarebbe ripreso come prima, cioè come se non fosse successo niente. Tarrou pensava che la peste avrebbe cambiato la città e nel contempo non l’avrebbe cambiata, che naturalmente il più grande desiderio dei nostri concittadini era e sarebbe stato fare come se non fosse cambiato niente e che, quindi, in un certo senso niente sarebbe cambiato, ma in un altro senso non è possibile dimenticare tutto, anche con la debita forza di volontà, e la peste avrebbe lasciato delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini. 

Per il momento voleva fare come tutti quelli che, intorno a lui, sembravano credere che la peste può venire e andarsene senza che il cuore degli uomini ne sia trasformato.

Rimpianti

In quel momento, sapeva cosa pensava la madre e sapeva che lo amava. Ma sapeva anche che amare una persona non è una gran cosa o perlomeno che un amore non è mai abbastanza forte da riuscire a trovare il modo di esprimersi. Così lui e la madre si sarebbero amati sempre in silenzio. E anche lei sarebbe morta – oppure lui – senza che in tutta la vita fossero riusciti a fare un passo avanti per dire il loro affetto. Allo stesso modo aveva vissuto accanto a Tarrou, e stasera lui era morto senza che la loro amicizia avesse avuto il tempo di essere davvero vissuta. Tarrou aveva perso la partita, come diceva. Invece lui, Rieux, che cosa aveva guadagnato? Soltanto di aver conosciuto la peste e di ricordarselo, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarselo, di conoscere l’affetto e di doversene un giorno ricordare. La conoscenza e la memoria erano tutto ciò che l’uomo poteva guadagnare al gioco della peste e dalla vita. Forse era questo che Tarrou chiamava vincere la partita! 

Riferimento ad Auschwitz

Negavano con tutta serenità, e contro ogni evidenza, che avessimo mai conosciuto quel mondo insensato in cui l’uccisione di un uomo era normale come quella di una mosca, quell’efferatezza ben definita, quel delirio calcolato, quella reclusione che portava con sé una spaventosa libertà rispetto a tutto ciò che non era il presente, quell’odore di morte che lasciava stupefatti tutti coloro che non uccideva, negavano infine che fossimo stati quel popolo stranito di cui ogni giorno una parte, gettata nella bocca di un forno, si trasformava in grasse volute di fumo, mentre l’altra aspettava il proprio turno gravata delle catene dell’impotenza e della paura.


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it.wikipedia.org

unitonews.it

journals.openedition.org/studifrancesi

bookblog/lintroduzione-di-alessandro-piperno

unipd.it/onebookonecity

artribune.com (video)

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Recalcati (video)

Lettura (video)

Errore di sistema / Edward Snowden

 

Errore di sistema / Edward J. Snowden. - Milano : Longanesi, 2019 (Il cammeo ; 615) . - Milano : Longanesi, 2019.


Incipit:

«Mi chiamo Edward Joseph Snowden. Un tempo lavoravo per il governo, ora lavoro per le persone. Mi ci sono voluti quasi trent’anni per capire che c’era una differenza tra le due cose e, quando è successo, ho iniziato ad avere qualche problema sul lavoro. E così adesso passo il tempo cercando di proteggere la gente dalla persona che ero una volta – una spia della CIA e della National Security Agency. Se state leggendo questo libro è perché ho fatto qualcosa di molto pericoloso, per uno nella mia posizione: ho deciso di dire la verità.»


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Una viennese a Parigi / Ernst Lothar

 

Una viennese a Parigi / Ernst Lothar ; traduzione dal tedesco di Monica Pesetti. - Roma : E/O, 2018 (Gli intramontabili). - 509 p. ; 21 cm.


Incipit:

Parigi, 10 aprile 1938

È una vergogna - eppure sono felice! In realtà dovrei essere infinitamente triste e riuscire a pensare solo a quanto è successo. Ma qui è tutto meraviglioso, tutto! Me l'ero immaginata completamente diversa, dei due giorni trascorsi a Parigi da bambina durante una vacanza a Trouville con i miei genitori mi era rimasto solo il vago ricordo di una strada interminabile lungo un parco con un'alta inferriata appuntita. Fino a ieri ero convinta che Vienna fosse la città più bella del mondo, come ha sempre sostenuto papà. È vero, Vienna è bella. Parigi però è stupenda. Ieri sera, appena arrivata, sono andata in giro per ore, stamattina sono stata prima a Notre-Dame e poi al Louvre, e nel pomeriggio a Versailles, infatti per fortuna è domenica, inizio a lavorare solo domattina alle nove. Mi sento come dentro un sogno. O come se avessi bevuto troppo di quel buon vino rosso che servono al bistrot qua sotto. Sul serio, questa non è una città, è un'ebbrezza continua! Forse sono ingiusta nei confronti di Vienna. Ma Vienna ha accettato l'annessione in maniera così passiva, perlomeno dall'esterno, e si è rassegnata con una tale remissività, una remissività inconcepibile, che preferisco essere ingiusta anziché oggettiva. Se i miei genitori non vivessero lì e non aspettassi una lettera di K. - che in realtà dovrebbe essere già arrivata da un pezzo - non penserei più a Vienna, neanche per un secondo! Ho telegrafato a papà e a K. che sto benissimo ed è la pura verità. Qui è già tutto in fiore, una primavera che toglie il fiato, e non ho mai visto nulla di più maestoso dello scorcio da place de la Concorde all'Étoile, di più animato dei boulevard, di più incantevole degli antichi palazzi sulla Rive gauche. Non avrei mai creduto che una città potesse regalare così tanta gioia di vivere. Vienna mi ha soffocata, dal primo momento in cui ho messo piede a Parigi respiro di nuovo.


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lunedì 1 novembre 2021

Volevamo cambiare il mondo /a cura di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli


Volevamo cambiare il mondo : storia di Avanguardia Operaia, 1968-1977 / a cura di Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli. - Milano ; Udine : Mimesis, 2021 (Mimesis Passato Prossimo, 63). - 297 p. : ill. ; 21 cm.

Il titolo è la dichiarazione di una sconfitta, al di là delle buone intenzioni e di alcuni aspetti positivi dell'impegno di molti di noi. Sono gli anni centrali della mia vita dai 21 ai trent'anni e tutto ciò che è accaduto in quel periodo mi ha segnato profondamente. Una larga minoranza di giovani, come me, ha vissuto con intensità quegli anni all'interno di movimenti politici, nel mio caso AO, che hanno assorbito tutto il loro tempo.

Il libro raccoglie molte interviste ad ex "militanti" (anche questa parola sembra ora strana) e poche sono autocritiche o parzialmente critiche. Prevale la nostalgia della giovinezza che tinge di rosa molte vicende che, a distanza, dovrebbero essere osservate con maggiore oggettività. Ho segnato qualche punto tra le pagine del libro. Alcuni prendono le distanze dallo stalinismo ed è vero che AO era leninista, ma si dimentica che nei cortei si gridava "W Lenin, W Stalin, W Mao Tse Tung"". Anche la visione di un "Lenin buono", contrapposto ad uno "Stalin cattivo" era una notevole forzatura, alla luce di innumerevoli e facilmente consultabili fonti chiarificatrici. In realtà, a distanza di anni, non riesco a capire come dei giovani di belle speranze, figli del dopo guerra, consapevoli della forza della loro giovinezza siano caduti, dopo una fase di originale ribellione creativa del primo '68, in una ideologia vecchia come quella espressa dal comunismo dell'ottobre sovietico. Del leninismo in AO si riproduceva la massima disciplina e il centralismo democratico, ma è difficile, con questi presupposti, essere aperti alle istanze della società e non cadere nelle devi azioni leaderistiche. C'era una specie di schizofrenia: si parlava di rivoluzione (di insurrezione non mi pare), ma non ci si credeva poi tanto. "Padroni borghesi, ancora pochi mesi" e slogan simili venivano gridati con rabbia nelle manifestazioni, ma pochi in realtà ci credevano. La rivoluzione era un evento mitico. Inoltre, tra le diverse formazioni extraparlamentari non c'era collaborazione, ma, al contrario, molta rivalità, che in certi momenti si esprimeva anche fisicamente per prendere la testa dei cortei. Sembravamo simili a coloro che vissero ai tempi del primo cristianesimo e delle eresie: ogni gruppo rivendicava la propria verità e considerava eretici (fuori linea) tutti gli altri. "Rivalità demenziale" ha detto un intervistato.

Ma la cosa da cui bisognerebbe veramente, sia pure in ritardo, prendere la distanza con una certa vergogna è l'uccisione di Sergio Ramelli. In una testimonianza FF scrive: "Ramelli era un picchiatore fascista pericoloso, nei mesi precedenti aveva malmenato e minacciato dei compagni. Si decise di dargli una lezione così mi fu raccontato. Avevamo mandato la squadra del Sdo [Servizio d'ordine] di Medicina, una delle meno esperte. Ramelli era addestrato, palestrato, E i nostri per non soccombere hanno picchiato troppo duro" (pag. 42).

Racconto vergognoso, quasi giustificatorio ("pericoloso", "aveva malmenato", "palestrato", "picchiatore", "per non soccombere"). Presenta un'aggressione ad un ragazzino quasi come un atto di legittima difesa. Ma la cosa più stupefacente è: "così mi hanno raccontato". Dopo tanti anni e un processo non si può restare attaccati a versioni giustificatorie. No, non mi riconosco in quei "nostri compagni". Per fortuna nel 1977 (ma ormai anche AO era nella fase finale) si decise di sciogliere il servizio d'ordine, anche per "evitare che alcuni dei suoi componenti fossero attirati dalla lotta armata" (p. 42).

Alcuni spunti critici sono condivisibili:

"Forse si poteva pensare a un rinnovamento del paradigma comunista e forse pensare a una forma un po' diversa di partito ... Avremmo dovuto essere diversi, ma avevamo in testa l'idea della tradizione comunista, quella di un partito di quadri selezionati molto identitari, disciplinato, con il rischio alla fine di essere impermeabile alla realtà in rapida mutazione". (Emilio Molinari, p. 49).

Parole che condivido totalmente che coincidono con quanto avevo segnalato: la ripresa del "paradigma comunista"  e della "tradizione comunista", come peccato originale alla base di AO e di molti altri gruppi di allora, organizzazioni chiuse e ideologicamente fideistiche. Certo "avremmo dovuto essere diversi", più creativi, più aperti alla ricerca di nuove strade.

Del resto, gli aspetti positivi, che pure vi furono, come la richiesta di una maggiore rappresentanza nei consigli di fabbrica, alcune proposte di democratizzazione nella scuola, nella sanità, nella giustizia, nell'esercito, gli interventi nel sociale erano aspetti che mettevano tra parentesi l'ideologia rivoluzionaria.

Marco Manzoni, allora studente scrive: "il 1968 è stata una cosa epocale. Un limite dei gruppi forse è stato che hanno messo il cappello sui movimenti, con la loro piccola burocrazia e la troppa ideologia che ha fatto fuori le spinte ideali più spontanee". Del tutto condivisibile, toglierei solo il "forse".

Per quanto riguarda l'Università, il riformismo è stato abbandonato subito, nell'attesa che la rivoluzione sistemasse tutto. Finché non cambia la società, con la fine del capitalismo, né la scuola, né nessuna altra istituzione potrà cambiare, così si diceva. 

Scrive Vittorio Sforza: "... Non è che volevamo abbassare il livello della preparazione [con la scusa della lotta all selezione meritocratica], ma eliminare i meccanismi selettivi che condizionavano la formazione delle persone e non permettevano di studiare in modo adeguato. Volevamo abolire le lezioni cattedratiche, perché con 200 persone l'interazione col docente è impossibile, volevamo gruppi di studio con massimo 25 studenti. Gli esami erano esami, non volevamo gli esami di gruppo" (p. 110).

Sono proposte riformiste, condivisibili, anche se nel calderone delle lotte, si manifestarono furbizie come gli esami di gruppo, il 30 politico, il rifiuto di qualsiasi selezione, l'immissione in ruolo di insegnanti senza concorso, ecc. Tirando in ballo "l'oppressione capitalista della scuola", che si manifesta nella selezione, si annullavano del tutto le spinte verso istanze riformiste realizzabili.

Ci sono molte cose da salvare, nonostante le premesse leniniste, che per fortuna, spesso, nell'attività concreta venivano rimosse. Aspetti positivi si manifestarono nella battaglia femminista, con la presa di coscienza delle compagne riguardo all'ineguaglianza e alla discriminazione di genere, ai diritti alla salute, al tema del divorzio e poi dell'aborto. Non a caso fu grazie (o per colpa secondo qualcuno) al risveglio femminista che AO andò letteralmente in crisi.

Anche sul terreno delle lotte sociali emersero molte spinte positive, attraverso le lotte per la casa, contro il caro affitti e il caro bollette, ecc. Ma siamo sempre sul terreno riformista, sia pure accompagnato da lotte e mobilitazioni al confine dell'illegalità come le occupazioni. Un altro aspetto positivo furono le rivendicazioni per la democratizzazione dell'esercito e della polizia, attraverso il movimento dei "proletari in divisa", che mise in risalto i temi della mancanza di diritti e di democrazia in queste istituzioni.

In conclusione, più che cambiare il mondo sarebbe stato meglio proporsi di migliorarlo (ma ricordo che allora "migliorismo" era una brutta parola per i rivoluzionari). "Avremmo dovuto essere diversi" ha detto qualcuno. E' facile dirlo con il senno di poi, ma è la cosa che più condivido. Bisognava trovare un'altra strada, più creativa, senza guardare i fossili del comunismo novecentesco che già allora dimostrava di aver fallito e di essere un morto che cammina. Ma avevamo vent'anni, troppo sicuri di noi, disponibili alle avventure, attratti da parole che ci sembravano entusiasmanti come "rivoluzione", spregiatori del riformismo.

venerdì 11 giugno 2021

Il dizionarietto dei miti greci e latini : parole delle favole antiche / Paolo Cesaretti, Edi Minguzzi


Il dizionarietto dei miti greci e latini : parole delle favole antiche / Paolo Cesaretti, Edi Minguzzi. - Brescia : Scholé, 2019 (Orso blu ; 137). - 237 : ill. ; 20 cm.



domenica 6 giugno 2021

Appunti da un manicomio / Christine Lavant

 


Appunti da un manicomio / Christine Lavant ; a cura di Elena Polledri. - Udine : Forum, ©2008 (Oltre). - 75 p. ; 21 cm.


L'opera esprime il conflitto psicologico ed emotivo interiore di Christine Lavant. Questo romanzo, scritto nel 1946 è rimasto inedito fino al 2001 poiché l'autrice considerava il materiale troppo personale per la pubblicazione. Personalità introversa e con frequenti problemi di salute, scrisse queste memorie mentre si trovava in una clinica per malati di mente per alcune settimane. In questo libro, in cui Lavant osserva i pazienti della casa di cura e racconta il proprio esaurimento, il tentato suicidio e la quotidiana lotta per sopravvivere attraverso la scrittura, l'utilizzo di termini nuovi e inventati, che già aveva connotato le precedenti opere con un'atmosfera di mistero, ha un effetto ancora più pregnante.



Incipit

Sono nel reparto "Due". E' il reparto di osservazione per i "meno gravi", in cui di regola si arriva solo dopo essere passati dal "Tre". Io non sono passata dal "Tre" e per questa ragione quasi tutti me ne vogliono. Ieri ho sentito dire dalla Regina a Renate: "Quella ci è piombata addosso con gli occhiali e la roba per scrivere. Che se la porti il diavolo! Che cos'è venuta a fare da noi? Probabilmente a spiarci, cos'altro sennò?!" ... Renate si è limitata a risponderle: "Ah, ecco che riattacca con queste storie". 


Link

www.lankenauta.it

ilpavonebianco.blogspot.com

wikipedia.org


venerdì 28 maggio 2021

Giù la piazza non c'è nessuno / Dolores Prato


Giù la piazza non c'è nessuno : [romanzo] / Dolores Prato ; a cura di Giorgio Zampa ; notizia sull'autrice e sul testo di Elena Frontaloni. - Macerata : Quodlibet, 2009 ( In ottavo grande ; 1). - XXXVI, 702 p. ; 23 cm.

Incipit:

Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: «Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?».

Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce.

Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo.

Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori!

Sedevo sui mattoni. Molliche indurite mi si conficcavano nella pelle come sassolini. Quel primo pezzetto di mondo immagazzinato dalla mia memoria lo vedo come adesso vedo la mia mano che scrive. Mattoni rettangolari color crosta di pane, uno coricato, uno dritto, facevano un tessuto a spina. Come soffitto il rovescio della tavola attraversato da stanghe di legno; le quattro gambe unite da assicelle su cui la gente metteva i piedi, più consumata nel mezzo; l’intera impalcatura ammantata dal pesante tappeto: tutti colori notturni intramezzati da fili d’oro; foglie nere, fiori con parvenza di colori morti, case appuntite trapunte d’oro, nello scuro meno fondo apparivano facce di mori e luccichio d’occhi. Il primo fatto storico della mia vita, intreccio di paura e meraviglia, fu sotto quel tavolino.

La causa di tutto, un prete. Che ne poteva sapere lui che i bambini afferrano più di quanto i grandi suppongono? Non lo sapevano neppure quelli che i figli se li son fatti.

Per i signori era don Domenico; per la gente comune era don Domé. La zia diceva ancora Menghino, voce d’altro luogo che stava morendo, mentre già nasceva: Domé. Faceva tutto da signora, si confondeva col popolo solo per chiamare il fratello.


Passi scelti

La speranza, pensiero stoico

La speranza è un cane forzuto che tira chi non ce la fa più a camminare, basta che non lasci il guinzaglio. La speranza, anche per lui, era sempre «domani».

La filastrocca che dà il titolo

«Staccia minaccia…» mi buttava giù, mi tirava su, mi ributtava giù, più mi buttava e più godevo. Ogni tanto mi stringeva sul suo petto come per un riposo della gioia; il suo petto, un paradiso fatto a pieghe di velo azzurro. «Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza»…; cominciava così, non so come continuasse, ma finiva con un «giù» lungo e profondo, atroce e dolcissimo che mi capovolgeva come se veramente stessi cadendo a capofitto nel vuoto. Non l’ho imparata la filastrocca; quando tentavo di ricostruirla, arrivata a «giù la piazza», attimi d’inutile attesa, poi il pensiero come se parlasse, diceva: «Giù la piazza non c’è nessuno».

I poveri vergognosi 

La zia avrebbe avuto il diritto di apporre su se stessa una di queste buche. Aveva pietà delle famiglie signorili cadute in miseria, costrette a ogni rinuncia per non poter vincere la vergogna di parere poveri. «I poveri vergognosi» diceva lei; e avendo cucinato il doppio di quel che serviva, ne raccoglieva una metà in recipienti che avvolgeva in salviette di bucato; con qualche stratagemma le camuffava in modo che non se ne supponesse il contenuto, «portalo alla signora Irene» diceva ad Eugenia.

Imparare dalla meraviglia

Io che non avevo nessuna voglia d’imparare, nessuna vocazione per imparare, che non avevo intorno persone desiderose d’insegnare, imparavo dappertutto, per inerzia, non per amore. E impossibile non imparare se si è ignoranti; se poi si ha un temperamento facile allo stupore, allora la scuola è la meraviglia. La meraviglia è visione che s’impone contro volontà. Non è certo un imparare dotto, è un imparare personale. Con tutta la mia meraviglia, dottrinalmente sono stata e sono un’ignorante integrale.

Le parole che i bambini non devono dire

Se qualche volta mi sfuggiva la parola «voglio», essa non mi suggeriva la forma cortese, ma, sentenziava, che l’erba voglio non cresce neppure nel giardino del papa. Capivo da me come avrei dovuto dire. «Non rispondere!» diceva con tono di comando e di minaccia. Se avessi risposto sottomessa e umile non mi avrebbe ripresa; dunque «non rispondere» voleva dire «rispondi educatamente». Di certo questo non lo facevo, perché a qualcuno che la interrogava sul mio comportamento, diceva: «Risponde». Detto tutto per me e per loro.

Il respiro del silenzio

Capace di sentire il respiro del silenzio, non riuscivo a captare il vero suono di molte parole. Non distinguevo una scrittura a breve distanza, però vedevo i microbi che nessuno vedeva e si diceva che fossero invisibili. Non lo dicevo a nessuno perché sapevo che non mi avrebbero creduta. Come non dicevo che sentivo il respiro del silenzio.

Il fascino della cancelleria e dei quaderni

Dato che la scuola era un ex convento, aveva il chiostro aperto e un porticato coperto che lo circondava; laggiù, in fondo al porticato, di fronte al nostro ingresso, era il negozio di Adorna. Pareva una porta se era chiuso, aperto era tutto scaffalato, anche i due battenti; c’erano i mucchi dei quaderni, le scatolette dei pennini, le gomme da cancellare, i libri, le boccette d’inchiostro rosso e nero, a fascetti le matite nere e colorate, morbide e dure; le righe, le squadre, gli album per i disegni, i cancellini, la carta «sugante» dicevano a scuola, a casa dicevamo asciugante. Solo per questa non c’era scelta, tutta di un solo colore: vomitaticcio d’ubriaco. Per farci entrare tutta quella roba, Adorna doveva essere una stratega dell’ordine. Per i quaderni grande scelta; sulla.copertina poteva esserci la storia, la geografia, gli animali, i fiori e tutto con la spiegazione. Nel primo che comprai, prendendo quello che Adorna tirò fuori a caso, c’era Vittorio Emanuele III, l’avevano alzato, tanto che una certa figura la faceva, «prestava» non so che giuramento avanti a un gruppetto di signori, forse quelli che dovevano testimoniare l’avvenuto giuramento. I testimoni erano necessari anche per sposarsi; gli sposi non potevano negare di aver detto «sì», c’erano i testimoni; ma sulla copertina c’era scritto che il re «prestava» giuramento, dunque poteva rivolerlo. Ogni creditore a un certo punto riprenderà ciò che ha prestato.

Espressioni

Il singolo che faceva visita, nell’alzarsi diceva «vi levo l’incomodo».

Vero ed espressivo quel modo di dire: «S’è messa alla finestra» difatti quelle di cui così dicevano, non si affacciavano per vedere, ma per farsi vedere, non erano spettatrici ma attrici. Ben pettinate, ben vestite, infiocchettate, si ponevano alla finestra con i gomiti sui cuscini, disdegnose o sorridenti.

Nelle case di Treja non c’erano ballatoi, a Roma si. La zia stava descrivendo a una sua amica l’appartamento di mia madre, disse: «… C’è un ballatoio… sai… a vetri…». Un ballatoio è un posto per ballare; questo però era di vetri; dunque una grande camera, forse rotonda, tutta di vetri; per forza deve stare dentro una grande sala che possa contenerla. E a scuola dissi che a Roma dentro un’altra sala più grande avevamo una sala da ballo tutta di vetro; le coppie ballavano nel ballatoio, le persone che assistevano stavano sedute fuori.

«È forastica» sentivo dire di me. Non era la zia che lo diceva, essa sorrideva, erano le persone con le quali s’era fermata per via. Che volevano dire? Forse si vedeva il mio desiderio di nascondermi credendomi tutta da nascondere.

La domenica tutti si vestivano con gli abiti più belli: signori, artigiani e contadini. Villano in paese voleva dire maleducato; a me quel nome richiamava le ville davanti alle quali passavo di corsa senza mai potermi fermare, neppure per il salice piangente.

Lunedì mandò martedì da mercoledì per sapere da giovedì se venerdì avesse sentito dire da sabato che domenica era festa Mi piacque tanto. L’imparai subito. Di giorni erano fatte le settimane; l’anno era fatto di mesi; i mesi erano raggruppati a stagioni.

A Treja le ragazze signorili dicevano «mammà», mi parevano tanto alla moda, Giulietta diceva mammà, era una parola col falpalà.

Solitudine e differenza

Non avevo quello che avevano gli altri bambini e loro non avevano la solitudine mia. Ma di quella differenza non m’accorgevo, anche se la vedevo. La vite che cresce storta non lo sa.

Vita a Treja

Di domenica la stasi delle prime ore pomeridiane era più lunga, dopo di che incominciava il passeggio per il Corso. Le signore bene agghindate facevano su e giù, giù e su, come un lento stantuffo. Chi non prendeva parte al passeggio e abitava sul Corso stava affacciato alle finestre per vederle passare. Chi non prendeva parte al passeggio e non abitava neppure per il Corso, andava in casa di qualche conoscente che gli offriva un posto a una finestra e parte del cuscino per appoggiarci gli avambracci.

Il giorno della pista [macellazione del maiale] sul camino c’era sempre un grande caldaio con acqua in ebollizione perché di acqua calda ne facevano spreco, specialmente per pulire i budelli. La carne tritata condita con sale e pepe, veniva messa nella macchina grande dove uno stantuffo girevole la spingeva finché usciva da una cannella orizzontale sulla quale avevano infilato e raccolto un budello. La cannella e i budelli più piccoli erano per le salsicce. Un gomitolo di spago era lì sopra, a ogni salsiccia l’uomo dava una girata al budello e allo spago insieme. Ogni budello era una fila di salsicce, che in collegio chiamai così. A Treja erano «salcicce». Salsicce più buone di quelle di fegato condite con pezzettini di buccia d’arancio, pinoli e uva passa, arrostite in modo che la pelle scricchiolasse, non c’erano. Unico difetto, erano poche perché il maiale aveva sempre un fegato solo. Cambiando cannelle e budelli facevano salami, ciauscoli, cotechini; nella pasta del salame mettevano dadini di lardo e grani interi di pepe, in quella del ciauscolo aglio. Buono come il ciauscolo non c’era altro al mondo; ma come usava lì che si mangiava fresco spalmato sulla fetta di pane. Adesso lo chiamano ciauscolo, ma lo vendono in estate dopo averlo tenuto immerso nell’olio. Non ha niente a che fare con quel ciauscolo che dico io; quello che giocandoci a pecorelle io sarei riuscita a mangiare se la zia avesse avuto la pazienza di ripetere il gioco.

Calendarietti dei barbieri

Nel mio mondo di allora non è restata nessuna bottega di barbiere. Eppure ci dovevano essere perché lo zio la barba poteva farsela da sé, ma tagliarsi i capelli no, la prova che i barbieri c’erano si fonda proprio sull’anno nuovo perché, emanati da loro, giravano certi calendarietti che la zia diceva «terribilmente profumati». Per me averne uno era trovarmi tra le mani un tesoro. Stavano dentro una bustina di carta seta traslucida con ghirigori opachi, erano composti da due o più cartoncini piegati a libretto, attraversati da un cordoncino di seta che finiva con due fiocchetti morbidi, poco meno del soffione, quella palla grigio perla che era impossibile palpare, sentirne la morbidezza neppure, vederla svanire nell’aria con un soffio sì. Quei due fiocchetti non svanivano, restavano carezza e morbidezza. Sulle pagine oltre alle colonnine dei mesi c’erano fiori, ornati, donnine in sorridente abbandono, ma quello che me li rendeva preziosi era il «terribile» profumo, per me caldo e vellutato. Il calendarietto era l’omaggio dei barbieri ai clienti per l’anno nuovo e proprio il nome della ditta offerente, in tanta preziosità di dono, mi dispiaceva. Me ne arrivavano anche due; uno sempre, lo nascondevo tra le pagine di un libro e ogni tanto ne respiravo il profumo con inconscia voluttà.

Oggetti

Di veramente brutto nell’inverno c’era solo la neve che non sempre c’era, altrimenti offriva cose con un loro particolare senso d’intimità come il prete a letto e la delizia di quel calduccio. Avevamo ognuno il nostro prete. Quello della zia era l’arciprete dei preti, quello dello zio un prete normale, quello mio un chierichetto. Il prete era un trabiccolo di quattro stanghe di legno per tenere sollevate le coperte, unite a coppia da due ripiani centrali di legno foderato di zinco; su quello inferiore si metteva un braciere col fuoco che noi chiamavamo «la vecchia» come la Befana. Di coccio, senza vernice, aveva un manico come se fosse un grosso, gonfio, alto tegame; in alto un giro di buchi per aiutare il respiro della brace. Se il prete della zia era un arciprete, la sua vecchia era una badessa; normale per lo zio; una piccola vecchia per me. Il letto della zia era grande, aveva bisogno di più grosso prete e di più grossa vecchia, d’accordo; ma il mio era come quello dello zio. Non mi avevano mai dato roba da bambini, forse stavano imparando e mi fornirono di prete e vecchia più piccoli. Prima me lo stiepidivano con lo scaldaletto di rame; un po’ di strusciata su, giù, un calore superficiale che spariva appena avvertito.

Le Puglie prima di conoscerle come regione, le conobbi come pendagli di chi si mascherava da zingara. Erano dischetti ciondolanti di metallo color argento o color oro, grandi poco più d’una moneta da quattro soldi e molto più sottili; guarnivano turbanti e boleri. Nelle Puglie non c’era solo Carnevale, c’era il mistero zingaresco. Simili a medagliette lisce erano attaccate a gruppi, in fila, a frange, luccicavano in un moto continuo come piccole foglie di pioppo. Puglie erano anche i gettoni del gioco che però io conobbi proprio mentre mi stavo staccando da Treja.

Religione

Ma quando m’accorsi che quelle uova avevano la sorpresa, capii perfettamente la resurrezione: il Sepolcro era l’uovo, la sorpresa, Gesù.

Quando le giornate si accorciavano tanto da avvertirlo, arrivava quella in cui si facevano «le passate». S’entrava nella chiesa di San Francesco, si faceva una brevissima sosta, la zia in preghiera, io esplorando con gli occhi la bellezza di quella chiesa dove anche lo zio aveva dipinto e si usciva. Una boccata d’aria e si rientrava, altra piccola sosta e altra boccata d’aria. La chiesa aveva una porta sola, ma la bussola ne aveva tre, due laterali, una centrale, questa restava sempre chiusa, le due laterali nel giorno delle passate servivano per uscire, l’altra per rientrare; il giro della gente assomigliava al circolo del sangue tratteggiato nel libro di lettura. Più passate si facevano e più indulgenze si acquistavano. Anzi l’indulgenza era sempre una, quella totale, plenaria, sicché a proprio uso e consumo ne sarebbe bastata una, ma essa si poteva guadagnare anche per conto dei morti che per se stessi non potevano più fare passate; chi più morti aveva più passate faceva. Da vivi bastava una sola entrata in chiesa dentro quelle ventiquattro ore per uscirne così puliti, così sbiancati come per un’immersione in candeggina pura; se si fosse morti subito, vale a dire che non ci fosse stato il tempo utile per peccare, si sarebbe volati in Paradiso senza neppure uno sguardo al Purgatorio. Per ottenere plenaria remissione della pena dovuta ai peccati anche per conto delle anime trattenute in Purgatorio, bastava uscire da una porta, rientrare dall’altra con dentro il cervello la volontà di applicare l’indulgenza di quella entrata alla tale anima.

Paesaggio padano

Tra i canali del Po, aria verde, terra piatta e paludosa, i pini ci stanno con la testa nel cielo, loro e i pioppi sono alti, canneti che bordano strisce d’acqua strette e dritte come lame, alberi che sorgono dall’acqua, tra i cespugli traspare acqua non aria, vegetazione a pennacchi, paesaggio sconfinato e selvaggio, caccia e pesca, terra priva di verticalità, terra e vegetazione che appena affiorano si specchiano nell’acqua, da questa infinita orizzontalità allargata dalla nebbia, venne mio zio e poté sorgere l’idea dell’eternità.

L'infanzia

L’infanzia è la sola età in cui l’inconscio affiora senza ostacoli. L’inconscio che sa quel che noi non sapremo mai, l’inconscio che se a lui ci abbandoniamo ci fa divinatori, mi parlava, ma io non lo capivo.

Lo zio prete

Tenerezza portata all’eroismo ebbe per me quell’uomo che in tutta la vita mi aveva abbracciato una volta sola e con solo un braccio, quel giorno che piangevo credendo di aver mangiato la sua mezza pesca. Povero, vecchio, solo, morente in America dove era andato per me, continuava ad amarmi, a cercarmi, io voltavo le spalle e cambiavo strada. Morì. Tutte a me le sue piccole miserie: breviario, libri, lettere, carte, disegni e forse la testimonianza del suo bene. Un prete di Treja emigrato in America, le aveva raccolte e aspettava solo che gli dicessi dove doveva spedirmele. Non risposi neppure.

... e la zia

Non riuscii ad amare la zia il cui raro canto era luce e suono, un canto in cui lei diventava più alta e più giovane; me ne vergognavo perché vestiva alla moda anche da vecchia, senza accorgermi che eleganza e giovinezza le erano congeniali sino all’obbligo. Ho ripetuto che non seppe adattarsi a me bambina, è vero, ma non l’ho mai condannata per questo. Che obbligo aveva lei, priva di tenerezza per i bambini, a camuffarsi da balia e da istitutrice? Via via che crescevo, che finivo di essere bambina, lei mi amò.

La mamma

Gli scienziati sapranno perché io ho avuto più bisogno della madre che del padre; perché, anche adesso, se la disperazione prende voce, è solo per dire: «Mamma!» come suprema invocazione e dietro quella parola non c’è nessuno, come nessuno c’è quando la dolorosa pressione dell’anima la spinge fuori. Anche espressione del mio disagio è quella parola. Per un dolore, per uno spavento, per una disperazione, senza pensare a nessuna persona, dico «mamma» come chi dice Dio, forse anche come chi grida «aiuto!». Ritorna alla mente una mia indelicatezza che può aver fatto male a qualcuno, una cosa rivelata di me che dovevo continuare a tacere, il disagio per la voce ormai fuggita e che indietro non può tornare, ecco il secco e tagliente «mamma».

Il padre non ha importanza. È la madre che, respingendoci, dal suo corpo ci dette la vita. Se ci lasciò raccogliere da altri è madre negativa, se ci tenne con sé è positiva. Sotto forma amorosa, oppure ostile, anche sotto quella dell’assenza, la madre fisicamente è presente. Se si stabilizzò uno squilibrio in me, non fu per la vita che feci fuori della linea normale, non fu per la lontananza dai genitori, fu per la carenza di calore del corpo umano, quello che cercavo nel mio «mamma veni», nello struggente desiderio di essere abbracciata, nel non essere stata né accarezzata, né baciata. Non sono stata covata. La mancanza di quel calore è la ragione di tutto.

I bastardi

Sono una bastarda anche religiosamente: cresimata, ma non battezzata. Di questo mio essere non mi vergogno. Per come essere fatti, lo siamo tutti ugualmente: un pudding di elementi ereditari ed occasionali messi a lievitare nella piccola madia della madre dove avviene l’involontaria confezione. Perché l’opera più sublime, quella della procreazione, è la più stupida. Impastati per il tempo della gestazione, si sfornano poi i pudding. Apparentemente sono tutti uguali, bastardi e no. In tutti c’è paura ansia esaltazione timidezza ingegnosità freschezza coraggio viltà passionalità eroismo santità e dannazione; qualche volta nei bastardi manca la noia, più congeniale ai legittimi spesso germogliati proprio sulla noia. Ma il bastardo ha sempre un qualcosa di più e di meglio del legittimo. Basta guardare i cani: i bastardi sono più festosi, più simpatici più intelligenti dei cani di razza. Esclusi naturalmente quelli di chi legge.

Link

gruppodilettura.com

nonsoloproust

sabato 1 maggio 2021

In viaggio con gli dei / Giulio Guidorizzi


In viaggio con gli dei : guida mitologica della Grecia / Giulio Guidorizzi, Silvia Romani ; illustrazioni di Michele Tranquillini. - Milano : Raffaello Cortina, 2019. - 270 p. : ill. ; 22 cm.


Link

https://www.facebook.com/watch/?v=590037111860837

Video presentazione

venerdì 16 aprile 2021

Marcovaldo / Italo Calvino



Marcovaldo ovvero Le stagioni in città / Italo Calvino ; presentazione dell'autore. - Milano : A. Mondadori, 1993. - XLVII, 134 p. ; 19 cm.


Incipit:

Il vento, venendo in città da lontano, le porta doni inconsueti, di cui s'accorgono solo poche anime sensibili, come i raffreddati del fieno, che starnutano per pollini di fiori d'altre terre.
   Un giorno, sulla striscia d'aiola d'un corso cittadino, capitò chissà donde una ventata di spore, e ci germinarono dei funghi. Nessuno se ne accorse tranne il manovale Marcovaldo che proprio lì prendeva ogni mattina il tram.

Link:

it.wikipedia.org/wiki/Marcovaldo

https://thevision.com/

https://www.ilpiaceredileggere.it

Audiolibro

domenica 28 marzo 2021

Il cavaliere inesistente / Italo Calvino

Il cavaliere inesistente / Italo Calvino ; presentazione dell'autore ; con uno scritto di Paolo Milano. - Mondadori, 2016 (Oscar moderni ; 53). - XLV, 124 p. ; 20 cm.

Incipit

Sotto le rosse mura di Parigi era schierato l’esercito di Francia. Carlomagno doveva passare in rivista i paladini. Già da più di tre ore erano lì; faceva caldo; era un pomeriggio di prima estate, un po’ coperto, nuvoloso; nelle armature si bolliva come in pentole tenute a fuoco lento. Non è detto che qualcuno in quell’immobile fila di cavalieri già non avesse perso i sensi o non si fosse assopito, ma l’armatura li reggeva impettiti in sella tutti a un modo. D’un tratto, tre squilli di tromba: le piume dei cimieri sussultarono nell’aria ferma come a uno sbuffo di vento, e tacque subito quella specie di mugghio marino che s’era sentito fin qui, ed era, si vede, un russare di guerrieri incupito dalle gole metalliche degli elmi. Finalmente ecco, lo scorsero che avanzava laggiù in fondo, Carlomagno, su un cavallo che pareva più grande del naturale, con la barba sul petto, le mani sul pomo della sella. Regna e guerreggia, guerreggia e regna, dài e dài, pareva un po’ invecchiato, dall’ultima volta che l’avevano visto quei guerrieri.


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sabato 13 marzo 2021

Cosa resta della notte / Ersi Sotiropoulos


Cosa resta della notte / Ersi Sotiropoulos ; traduzione di Andrea Di Gregorio. - Milano : Nottetempo, 2019. - 307 p. ; 21 cm.

Abstract: Nel giugno 1897 il giovane poeta Costantino Kavafis trascorre tre giorni a Parigi al termine di un lungo viaggio in Europa, prima del ritorno ad Alessandria. Giunto a un punto di rottura della sua vita e a un momento decisivo nel suo percorso creativo, si aggira pieno di inquietudine e di eccitazione tra le luci e le ombre della città, perseguitato da fantasmi erotici e da un senso di profondo turbamento che investe con forza questo viaggio di esplorazione interiore, alla ricerca di sé e del senso piú profondo della sua ispirazione poetica. Intanto la Grecia è uscita umiliata dalla guerra con la Turchia, la Francia è scossa dal caso Dreyfus e la ricca famiglia di Kavafis sperimenta il declino economico e sociale. Un ritratto indelebile del grande poeta alessandrino, un tuffo nei misteri che circondano il tormento creativo e nei meandri segreti dell'erotismo


Dicesti: «Andrò in un'altra terra, su un altro mare.
Ci sarà una città meglio di questa.
Ogni mio sforzo è una condanna scritta;
e il mio cuore è sepolto come un morto.
In questo marasma quanto durerà la mente?
Ovunque giro l'occhio, ovunque guardo
vedo le nere macerie della mia vita, qui
dove tanti anni ho trascorso, distrutto e rovinato».

Non troverai nuove terre, non troverai altri mari.
Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade
girerai. Negli stessi quartieri invecchierai;
e in queste stesse case imbiancherai.
Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi – non sperare –
non c'è nave per te, non c'è altra via.
Come hai distrutto la tua vita qui
in questo cantuccio, nel mondo intero l'hai perduta.

Traduzione di Nicola Crocetti


Presentazione di Ersi Sotiropulos

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lanotadeltraduttore.it

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www.balcanicaucaso

www.minimaetmoralia.it