mercoledì 1 marzo 2017

VINCI SIMONA
La prima verità / Simona Vinci. – Torino : Einaudi, 2016. – 397 p. ; 20 cm.

Incipit
”Un lettino di ferro con le sbarre bianche e un corpo nudo, quello di una bambina tra il sette e dieci anni. Che è una femmina, si capisce solo del taglio tra le gambe unite e tenute ferme da una cinghia di contenzione. Anche le braccia sono legate alle sponde con due strisce di tela e tutto il peso del corpo si regge sui gomiti. Dietro la schiena, un cuscino macchiato e sotto il sedere, una tela cerata. Nell’angolo il fondo a destra si intravede un materasso a righe.
Poi c’è il buio.”

Un libro che parla di manicomi, di repressione di malati (ma anche di politici), di torture e di sofferenze.
Gli ambienti sono diversi: per gran parte la storia è ambientata nell’isola di Leros, dove, per lungo tempo, fino agli anni ‘70, furono internati, in un lugubre edificio, i “matti” di tutta la Grecia e, dopo il colpo di Stato dei colonnelli, nel 1969, anche gli oppositori politici. Tra questi il poeta Yannis Ritsos,  al quale si ispira uno dei personaggi del libro.
Un altro luogo è Budrio, dove il rapporto con i “matti”, seppure meno drammatico, è frequente e colpisce la fantasia dei bambini. A Budrio c’erano due istituti psichiatrici: il San Gaetano e Villa Donini, con un totale di circa 600 ricoverati.
Infine, l’ultimo luogo raccontato nelle pagine finali del libro è Freetown in Sierra Leone: si tratta dell’ospedale psichiatrico Kissy Mental, che era l’unico in tutto il Paese.

Questo libro mi ha colpito perché condivido con l’autrice l’interesse per la storia dei manicomi e delle tante vite legate a queste istituzioni. C’è sempre in questi luoghi qualcosa di misterioso, di segreto e di vergognoso, come se fossero luoghi sotterranei. Per questo siamo attratti nel desiderio di esplorarli e affascinati dalla ricerca del segreto, anche se, spesso, alla fine, ci troviamo davanti a vicende banali, di “ordinaria follia” e non riusciamo raggiungere una comprensione maggiore di quella dalla quale eravamo partiti.
Ho segnato un pezzo che mi ha colpito, che riguarda la passione per le ricerche negli archivi e per lo scavo nei faldoni, la curiosità che ci spinge, come dei “minatori”, a cercare tra le storie delle risposte:

“Questa stanza nel seminterrato di un edificio di un’isola sperduta nell’Egeo, con i suoi veli di ragnatele che sembravano millenarie, lo strato di polvere oleoso che ricopriva ogni cosa, per lei era un sogno … Una fila di faldoni scoloriti e in disordine. Registri annuali, cartelle di pazienti, fotografie, tutto affastellato senza un ordine cronologico, quasi scompigliato di proposito, come se conoscere la storia di quel posto e delle persone che ci erano finite dentro dovesse risultare impossibile a chiunque avesse osato metterci le mani in mezzo …  Forse, pensò Angela, dietro non c’era niente di strano o misterioso, niente che valesse la pena di essere indagato, davvero doveva trattarsi solo di incuria e disinteresse, perché in effetti le vite di quelle persone erano irrilevanti. Erano irrilevanti i loro nomi, le loro facce, le diagnosi a loro riferite, irrilevante la durata del loro passaggio in questo posto in particolare e, in generale, del loro passaggio sulla terra. Decine, centinaia, migliaia di disadattati, psicopatici, cerebrolesi, deficienti, handicappati, casi umani tutti diversi, ma in fondo tutti uguali”
(Pagine 64 65)

Dunque “irrilevanti”, da nascondere, da tenere lontani (non a caso i manicomi erano costruiti sempre lontani dalle città e addirittura nelle isole chiusa). Ma questo disordine dell’archivio corrisponde bene al disordine del “mondo di sopra”, dove si aggirano i “matti”, lasciati a se stessi, tra la sporcizia, oggetti di semplice custodia o peggio di contenzione, e mai di cura.

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