venerdì 28 maggio 2021

Giù la piazza non c'è nessuno / Dolores Prato


Giù la piazza non c'è nessuno : [romanzo] / Dolores Prato ; a cura di Giorgio Zampa ; notizia sull'autrice e sul testo di Elena Frontaloni. - Macerata : Quodlibet, 2009 ( In ottavo grande ; 1). - XXXVI, 702 p. ; 23 cm.

Incipit:

Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: «Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?».

Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce.

Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo.

Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori!

Sedevo sui mattoni. Molliche indurite mi si conficcavano nella pelle come sassolini. Quel primo pezzetto di mondo immagazzinato dalla mia memoria lo vedo come adesso vedo la mia mano che scrive. Mattoni rettangolari color crosta di pane, uno coricato, uno dritto, facevano un tessuto a spina. Come soffitto il rovescio della tavola attraversato da stanghe di legno; le quattro gambe unite da assicelle su cui la gente metteva i piedi, più consumata nel mezzo; l’intera impalcatura ammantata dal pesante tappeto: tutti colori notturni intramezzati da fili d’oro; foglie nere, fiori con parvenza di colori morti, case appuntite trapunte d’oro, nello scuro meno fondo apparivano facce di mori e luccichio d’occhi. Il primo fatto storico della mia vita, intreccio di paura e meraviglia, fu sotto quel tavolino.

La causa di tutto, un prete. Che ne poteva sapere lui che i bambini afferrano più di quanto i grandi suppongono? Non lo sapevano neppure quelli che i figli se li son fatti.

Per i signori era don Domenico; per la gente comune era don Domé. La zia diceva ancora Menghino, voce d’altro luogo che stava morendo, mentre già nasceva: Domé. Faceva tutto da signora, si confondeva col popolo solo per chiamare il fratello.


Passi scelti

La speranza, pensiero stoico

La speranza è un cane forzuto che tira chi non ce la fa più a camminare, basta che non lasci il guinzaglio. La speranza, anche per lui, era sempre «domani».

La filastrocca che dà il titolo

«Staccia minaccia…» mi buttava giù, mi tirava su, mi ributtava giù, più mi buttava e più godevo. Ogni tanto mi stringeva sul suo petto come per un riposo della gioia; il suo petto, un paradiso fatto a pieghe di velo azzurro. «Staccia minaccia, buttiamola giù la piazza»…; cominciava così, non so come continuasse, ma finiva con un «giù» lungo e profondo, atroce e dolcissimo che mi capovolgeva come se veramente stessi cadendo a capofitto nel vuoto. Non l’ho imparata la filastrocca; quando tentavo di ricostruirla, arrivata a «giù la piazza», attimi d’inutile attesa, poi il pensiero come se parlasse, diceva: «Giù la piazza non c’è nessuno».

I poveri vergognosi 

La zia avrebbe avuto il diritto di apporre su se stessa una di queste buche. Aveva pietà delle famiglie signorili cadute in miseria, costrette a ogni rinuncia per non poter vincere la vergogna di parere poveri. «I poveri vergognosi» diceva lei; e avendo cucinato il doppio di quel che serviva, ne raccoglieva una metà in recipienti che avvolgeva in salviette di bucato; con qualche stratagemma le camuffava in modo che non se ne supponesse il contenuto, «portalo alla signora Irene» diceva ad Eugenia.

Imparare dalla meraviglia

Io che non avevo nessuna voglia d’imparare, nessuna vocazione per imparare, che non avevo intorno persone desiderose d’insegnare, imparavo dappertutto, per inerzia, non per amore. E impossibile non imparare se si è ignoranti; se poi si ha un temperamento facile allo stupore, allora la scuola è la meraviglia. La meraviglia è visione che s’impone contro volontà. Non è certo un imparare dotto, è un imparare personale. Con tutta la mia meraviglia, dottrinalmente sono stata e sono un’ignorante integrale.

Le parole che i bambini non devono dire

Se qualche volta mi sfuggiva la parola «voglio», essa non mi suggeriva la forma cortese, ma, sentenziava, che l’erba voglio non cresce neppure nel giardino del papa. Capivo da me come avrei dovuto dire. «Non rispondere!» diceva con tono di comando e di minaccia. Se avessi risposto sottomessa e umile non mi avrebbe ripresa; dunque «non rispondere» voleva dire «rispondi educatamente». Di certo questo non lo facevo, perché a qualcuno che la interrogava sul mio comportamento, diceva: «Risponde». Detto tutto per me e per loro.

Il respiro del silenzio

Capace di sentire il respiro del silenzio, non riuscivo a captare il vero suono di molte parole. Non distinguevo una scrittura a breve distanza, però vedevo i microbi che nessuno vedeva e si diceva che fossero invisibili. Non lo dicevo a nessuno perché sapevo che non mi avrebbero creduta. Come non dicevo che sentivo il respiro del silenzio.

Il fascino della cancelleria e dei quaderni

Dato che la scuola era un ex convento, aveva il chiostro aperto e un porticato coperto che lo circondava; laggiù, in fondo al porticato, di fronte al nostro ingresso, era il negozio di Adorna. Pareva una porta se era chiuso, aperto era tutto scaffalato, anche i due battenti; c’erano i mucchi dei quaderni, le scatolette dei pennini, le gomme da cancellare, i libri, le boccette d’inchiostro rosso e nero, a fascetti le matite nere e colorate, morbide e dure; le righe, le squadre, gli album per i disegni, i cancellini, la carta «sugante» dicevano a scuola, a casa dicevamo asciugante. Solo per questa non c’era scelta, tutta di un solo colore: vomitaticcio d’ubriaco. Per farci entrare tutta quella roba, Adorna doveva essere una stratega dell’ordine. Per i quaderni grande scelta; sulla.copertina poteva esserci la storia, la geografia, gli animali, i fiori e tutto con la spiegazione. Nel primo che comprai, prendendo quello che Adorna tirò fuori a caso, c’era Vittorio Emanuele III, l’avevano alzato, tanto che una certa figura la faceva, «prestava» non so che giuramento avanti a un gruppetto di signori, forse quelli che dovevano testimoniare l’avvenuto giuramento. I testimoni erano necessari anche per sposarsi; gli sposi non potevano negare di aver detto «sì», c’erano i testimoni; ma sulla copertina c’era scritto che il re «prestava» giuramento, dunque poteva rivolerlo. Ogni creditore a un certo punto riprenderà ciò che ha prestato.

Espressioni

Il singolo che faceva visita, nell’alzarsi diceva «vi levo l’incomodo».

Vero ed espressivo quel modo di dire: «S’è messa alla finestra» difatti quelle di cui così dicevano, non si affacciavano per vedere, ma per farsi vedere, non erano spettatrici ma attrici. Ben pettinate, ben vestite, infiocchettate, si ponevano alla finestra con i gomiti sui cuscini, disdegnose o sorridenti.

Nelle case di Treja non c’erano ballatoi, a Roma si. La zia stava descrivendo a una sua amica l’appartamento di mia madre, disse: «… C’è un ballatoio… sai… a vetri…». Un ballatoio è un posto per ballare; questo però era di vetri; dunque una grande camera, forse rotonda, tutta di vetri; per forza deve stare dentro una grande sala che possa contenerla. E a scuola dissi che a Roma dentro un’altra sala più grande avevamo una sala da ballo tutta di vetro; le coppie ballavano nel ballatoio, le persone che assistevano stavano sedute fuori.

«È forastica» sentivo dire di me. Non era la zia che lo diceva, essa sorrideva, erano le persone con le quali s’era fermata per via. Che volevano dire? Forse si vedeva il mio desiderio di nascondermi credendomi tutta da nascondere.

La domenica tutti si vestivano con gli abiti più belli: signori, artigiani e contadini. Villano in paese voleva dire maleducato; a me quel nome richiamava le ville davanti alle quali passavo di corsa senza mai potermi fermare, neppure per il salice piangente.

Lunedì mandò martedì da mercoledì per sapere da giovedì se venerdì avesse sentito dire da sabato che domenica era festa Mi piacque tanto. L’imparai subito. Di giorni erano fatte le settimane; l’anno era fatto di mesi; i mesi erano raggruppati a stagioni.

A Treja le ragazze signorili dicevano «mammà», mi parevano tanto alla moda, Giulietta diceva mammà, era una parola col falpalà.

Solitudine e differenza

Non avevo quello che avevano gli altri bambini e loro non avevano la solitudine mia. Ma di quella differenza non m’accorgevo, anche se la vedevo. La vite che cresce storta non lo sa.

Vita a Treja

Di domenica la stasi delle prime ore pomeridiane era più lunga, dopo di che incominciava il passeggio per il Corso. Le signore bene agghindate facevano su e giù, giù e su, come un lento stantuffo. Chi non prendeva parte al passeggio e abitava sul Corso stava affacciato alle finestre per vederle passare. Chi non prendeva parte al passeggio e non abitava neppure per il Corso, andava in casa di qualche conoscente che gli offriva un posto a una finestra e parte del cuscino per appoggiarci gli avambracci.

Il giorno della pista [macellazione del maiale] sul camino c’era sempre un grande caldaio con acqua in ebollizione perché di acqua calda ne facevano spreco, specialmente per pulire i budelli. La carne tritata condita con sale e pepe, veniva messa nella macchina grande dove uno stantuffo girevole la spingeva finché usciva da una cannella orizzontale sulla quale avevano infilato e raccolto un budello. La cannella e i budelli più piccoli erano per le salsicce. Un gomitolo di spago era lì sopra, a ogni salsiccia l’uomo dava una girata al budello e allo spago insieme. Ogni budello era una fila di salsicce, che in collegio chiamai così. A Treja erano «salcicce». Salsicce più buone di quelle di fegato condite con pezzettini di buccia d’arancio, pinoli e uva passa, arrostite in modo che la pelle scricchiolasse, non c’erano. Unico difetto, erano poche perché il maiale aveva sempre un fegato solo. Cambiando cannelle e budelli facevano salami, ciauscoli, cotechini; nella pasta del salame mettevano dadini di lardo e grani interi di pepe, in quella del ciauscolo aglio. Buono come il ciauscolo non c’era altro al mondo; ma come usava lì che si mangiava fresco spalmato sulla fetta di pane. Adesso lo chiamano ciauscolo, ma lo vendono in estate dopo averlo tenuto immerso nell’olio. Non ha niente a che fare con quel ciauscolo che dico io; quello che giocandoci a pecorelle io sarei riuscita a mangiare se la zia avesse avuto la pazienza di ripetere il gioco.

Calendarietti dei barbieri

Nel mio mondo di allora non è restata nessuna bottega di barbiere. Eppure ci dovevano essere perché lo zio la barba poteva farsela da sé, ma tagliarsi i capelli no, la prova che i barbieri c’erano si fonda proprio sull’anno nuovo perché, emanati da loro, giravano certi calendarietti che la zia diceva «terribilmente profumati». Per me averne uno era trovarmi tra le mani un tesoro. Stavano dentro una bustina di carta seta traslucida con ghirigori opachi, erano composti da due o più cartoncini piegati a libretto, attraversati da un cordoncino di seta che finiva con due fiocchetti morbidi, poco meno del soffione, quella palla grigio perla che era impossibile palpare, sentirne la morbidezza neppure, vederla svanire nell’aria con un soffio sì. Quei due fiocchetti non svanivano, restavano carezza e morbidezza. Sulle pagine oltre alle colonnine dei mesi c’erano fiori, ornati, donnine in sorridente abbandono, ma quello che me li rendeva preziosi era il «terribile» profumo, per me caldo e vellutato. Il calendarietto era l’omaggio dei barbieri ai clienti per l’anno nuovo e proprio il nome della ditta offerente, in tanta preziosità di dono, mi dispiaceva. Me ne arrivavano anche due; uno sempre, lo nascondevo tra le pagine di un libro e ogni tanto ne respiravo il profumo con inconscia voluttà.

Oggetti

Di veramente brutto nell’inverno c’era solo la neve che non sempre c’era, altrimenti offriva cose con un loro particolare senso d’intimità come il prete a letto e la delizia di quel calduccio. Avevamo ognuno il nostro prete. Quello della zia era l’arciprete dei preti, quello dello zio un prete normale, quello mio un chierichetto. Il prete era un trabiccolo di quattro stanghe di legno per tenere sollevate le coperte, unite a coppia da due ripiani centrali di legno foderato di zinco; su quello inferiore si metteva un braciere col fuoco che noi chiamavamo «la vecchia» come la Befana. Di coccio, senza vernice, aveva un manico come se fosse un grosso, gonfio, alto tegame; in alto un giro di buchi per aiutare il respiro della brace. Se il prete della zia era un arciprete, la sua vecchia era una badessa; normale per lo zio; una piccola vecchia per me. Il letto della zia era grande, aveva bisogno di più grosso prete e di più grossa vecchia, d’accordo; ma il mio era come quello dello zio. Non mi avevano mai dato roba da bambini, forse stavano imparando e mi fornirono di prete e vecchia più piccoli. Prima me lo stiepidivano con lo scaldaletto di rame; un po’ di strusciata su, giù, un calore superficiale che spariva appena avvertito.

Le Puglie prima di conoscerle come regione, le conobbi come pendagli di chi si mascherava da zingara. Erano dischetti ciondolanti di metallo color argento o color oro, grandi poco più d’una moneta da quattro soldi e molto più sottili; guarnivano turbanti e boleri. Nelle Puglie non c’era solo Carnevale, c’era il mistero zingaresco. Simili a medagliette lisce erano attaccate a gruppi, in fila, a frange, luccicavano in un moto continuo come piccole foglie di pioppo. Puglie erano anche i gettoni del gioco che però io conobbi proprio mentre mi stavo staccando da Treja.

Religione

Ma quando m’accorsi che quelle uova avevano la sorpresa, capii perfettamente la resurrezione: il Sepolcro era l’uovo, la sorpresa, Gesù.

Quando le giornate si accorciavano tanto da avvertirlo, arrivava quella in cui si facevano «le passate». S’entrava nella chiesa di San Francesco, si faceva una brevissima sosta, la zia in preghiera, io esplorando con gli occhi la bellezza di quella chiesa dove anche lo zio aveva dipinto e si usciva. Una boccata d’aria e si rientrava, altra piccola sosta e altra boccata d’aria. La chiesa aveva una porta sola, ma la bussola ne aveva tre, due laterali, una centrale, questa restava sempre chiusa, le due laterali nel giorno delle passate servivano per uscire, l’altra per rientrare; il giro della gente assomigliava al circolo del sangue tratteggiato nel libro di lettura. Più passate si facevano e più indulgenze si acquistavano. Anzi l’indulgenza era sempre una, quella totale, plenaria, sicché a proprio uso e consumo ne sarebbe bastata una, ma essa si poteva guadagnare anche per conto dei morti che per se stessi non potevano più fare passate; chi più morti aveva più passate faceva. Da vivi bastava una sola entrata in chiesa dentro quelle ventiquattro ore per uscirne così puliti, così sbiancati come per un’immersione in candeggina pura; se si fosse morti subito, vale a dire che non ci fosse stato il tempo utile per peccare, si sarebbe volati in Paradiso senza neppure uno sguardo al Purgatorio. Per ottenere plenaria remissione della pena dovuta ai peccati anche per conto delle anime trattenute in Purgatorio, bastava uscire da una porta, rientrare dall’altra con dentro il cervello la volontà di applicare l’indulgenza di quella entrata alla tale anima.

Paesaggio padano

Tra i canali del Po, aria verde, terra piatta e paludosa, i pini ci stanno con la testa nel cielo, loro e i pioppi sono alti, canneti che bordano strisce d’acqua strette e dritte come lame, alberi che sorgono dall’acqua, tra i cespugli traspare acqua non aria, vegetazione a pennacchi, paesaggio sconfinato e selvaggio, caccia e pesca, terra priva di verticalità, terra e vegetazione che appena affiorano si specchiano nell’acqua, da questa infinita orizzontalità allargata dalla nebbia, venne mio zio e poté sorgere l’idea dell’eternità.

L'infanzia

L’infanzia è la sola età in cui l’inconscio affiora senza ostacoli. L’inconscio che sa quel che noi non sapremo mai, l’inconscio che se a lui ci abbandoniamo ci fa divinatori, mi parlava, ma io non lo capivo.

Lo zio prete

Tenerezza portata all’eroismo ebbe per me quell’uomo che in tutta la vita mi aveva abbracciato una volta sola e con solo un braccio, quel giorno che piangevo credendo di aver mangiato la sua mezza pesca. Povero, vecchio, solo, morente in America dove era andato per me, continuava ad amarmi, a cercarmi, io voltavo le spalle e cambiavo strada. Morì. Tutte a me le sue piccole miserie: breviario, libri, lettere, carte, disegni e forse la testimonianza del suo bene. Un prete di Treja emigrato in America, le aveva raccolte e aspettava solo che gli dicessi dove doveva spedirmele. Non risposi neppure.

... e la zia

Non riuscii ad amare la zia il cui raro canto era luce e suono, un canto in cui lei diventava più alta e più giovane; me ne vergognavo perché vestiva alla moda anche da vecchia, senza accorgermi che eleganza e giovinezza le erano congeniali sino all’obbligo. Ho ripetuto che non seppe adattarsi a me bambina, è vero, ma non l’ho mai condannata per questo. Che obbligo aveva lei, priva di tenerezza per i bambini, a camuffarsi da balia e da istitutrice? Via via che crescevo, che finivo di essere bambina, lei mi amò.

La mamma

Gli scienziati sapranno perché io ho avuto più bisogno della madre che del padre; perché, anche adesso, se la disperazione prende voce, è solo per dire: «Mamma!» come suprema invocazione e dietro quella parola non c’è nessuno, come nessuno c’è quando la dolorosa pressione dell’anima la spinge fuori. Anche espressione del mio disagio è quella parola. Per un dolore, per uno spavento, per una disperazione, senza pensare a nessuna persona, dico «mamma» come chi dice Dio, forse anche come chi grida «aiuto!». Ritorna alla mente una mia indelicatezza che può aver fatto male a qualcuno, una cosa rivelata di me che dovevo continuare a tacere, il disagio per la voce ormai fuggita e che indietro non può tornare, ecco il secco e tagliente «mamma».

Il padre non ha importanza. È la madre che, respingendoci, dal suo corpo ci dette la vita. Se ci lasciò raccogliere da altri è madre negativa, se ci tenne con sé è positiva. Sotto forma amorosa, oppure ostile, anche sotto quella dell’assenza, la madre fisicamente è presente. Se si stabilizzò uno squilibrio in me, non fu per la vita che feci fuori della linea normale, non fu per la lontananza dai genitori, fu per la carenza di calore del corpo umano, quello che cercavo nel mio «mamma veni», nello struggente desiderio di essere abbracciata, nel non essere stata né accarezzata, né baciata. Non sono stata covata. La mancanza di quel calore è la ragione di tutto.

I bastardi

Sono una bastarda anche religiosamente: cresimata, ma non battezzata. Di questo mio essere non mi vergogno. Per come essere fatti, lo siamo tutti ugualmente: un pudding di elementi ereditari ed occasionali messi a lievitare nella piccola madia della madre dove avviene l’involontaria confezione. Perché l’opera più sublime, quella della procreazione, è la più stupida. Impastati per il tempo della gestazione, si sfornano poi i pudding. Apparentemente sono tutti uguali, bastardi e no. In tutti c’è paura ansia esaltazione timidezza ingegnosità freschezza coraggio viltà passionalità eroismo santità e dannazione; qualche volta nei bastardi manca la noia, più congeniale ai legittimi spesso germogliati proprio sulla noia. Ma il bastardo ha sempre un qualcosa di più e di meglio del legittimo. Basta guardare i cani: i bastardi sono più festosi, più simpatici più intelligenti dei cani di razza. Esclusi naturalmente quelli di chi legge.

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nonsoloproust

sabato 1 maggio 2021

In viaggio con gli dei / Giulio Guidorizzi


In viaggio con gli dei : guida mitologica della Grecia / Giulio Guidorizzi, Silvia Romani ; illustrazioni di Michele Tranquillini. - Milano : Raffaello Cortina, 2019. - 270 p. : ill. ; 22 cm.


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