venerdì 24 dicembre 2021

L'estate del sessantanove / Andrea Renyi

 


Gli addii / Juan Carlos Onetti

Gli addii / Juan Carlos Onetti ; traduzione di Dario Puccini ; prefazione di Antonio Munoz Molina ; con un saggio di Mario Benedetti. - Roma : Sur, 2015 (Littlesur ; 5). - 131 p. ; 20 cm.

Incipit:

Avrei voluto non avere visto dell’uomo, la prima volta che entrò nel negozio, nient’altro che le mani; lente, intimidite e goffe, con movimenti senza fiducia, affilate e ancora non scurite dal sole, quasi a voler chiedere scusa per il loro gestire disinteressato. Mi fece alcune domande e prese una bottiglia di birra, in piedi all’estremità più in ombra del bancone, con il viso – sullo sfondo del calendario, dei sandali e dei salami imbiancati dagli anni – rivolto verso l’esterno, verso il sole dell’imbrunire e il viola sfumato delle montagne, mentre aspettava l’autobus che lo avrebbe lasciato davanti ai cancelli dell’albergo vecchio.

Avrei voluto non avergli visto altro che le mani, mi sarebbe bastato vederle quando gli diedi il resto dei cento pesos e le sue dita strinsero i biglietti, cercarono di ordinarli e, subito, per improvvisa decisione, li appallottolarono e li nascosero con pudore in una tasca della giacca; mi sarebbero bastati quei movimenti sopra il legno pieno di fessure riempite di unto e di sudiciume per capire che non si sarebbe curato, che non aveva nessuna idea da cui trarre la volontà di curarsi.

In genere mi basta vederli, e non ricordo di essermi mai sbagliato; ho sempre formulato i miei pronostici prima di sapere l’opinione di Castro o di Gunz, i medici che abitano in paese, senza altri dati, senza avere bisogno di altro che di vederli arrivare al negozio con le loro valigie e le loro quote diverse di vergogna e di speranza, d’ipocrisia e di sfida.


Link:

doppiozero.com

ilsole24ore.com/art/cultura

2000battute.blog

latinoamericapop

lucialibri.it






Fame di guerra / Paolo Fonzi

Fame di guerra : l'occupazione italiana della Grecia (1941-43) / Paolo Fonzi. - Roma : Carocci, 2019 (Studi storici Carocci ; 322). -  215 p. ; 22 cm.


Link:


Alla fonte delle parole / Andrea Marcolongo

 


La peste / Albert Camus

 

La peste / Albert Camus ; traduzione di Yasmina Mélaouah. - Firenze ; Milano : Bompiani, 2020 (Classici contemporanei Bompiani). - Firenze ; Milano : Bompiani, 2020.


Incipit

I singolari avvenimenti descritti in questa cronaca si sono prodotti nel 194. a Orano. Era opinione diffusa che capitassero nel luogo sbagliato, trattandosi di avvenimenti un po’ fuori dal comune. E Orano è invece, a prima vista, un posto comunissimo, una semplice prefettura francese della costa algerina.

La città, a onor del vero, è brutta. Il suo aspetto tranquillo impedisce che si colga subito ciò che la rende diversa da tante altre città commerciali a qualsiasi latitudine. Come fare immaginare, per esempio, una città senza piccioni, senza alberi e senza giardini, dove non si incontrano né battiti d’ali né fruscii di foglie, un luogo neutro insomma? Qui il passaggio delle stagioni si legge soltanto nel cielo. La primavera si annuncia esclusivamente dalla qualità dell’aria o dalle ceste di fiori che i venditori portano dai sobborghi; è una primavera che si vende al mercato. Durante l’estate il sole incendia le case troppo asciutte e copre i muri di una cenere grigia; allora si può vivere solamente all’ombra delle imposte chiuse. In autunno, invece, è un diluvio di fango. Le belle giornate arrivano solo d’inverno.

Un modo facile per conoscere una città è scoprire come vi si lavora, come si ama e come si muore. A Orano, per effetto forse del clima, tutto questo si fa allo stesso modo, con la medesima aria frenetica e assente. In definitiva, ci si annoia, e ci si sforza di prendere delle abitudini. I nostri concittadini lavorano molto, ma sempre per arricchirsi. Si dedicano principalmente al commercio e pensano soprattutto, come dicono loro, a fare affari. Va da sé che apprezzano anche i piaceri semplici, amano le donne, il cinema e andare al mare. Ma, molto ragionevolmente, riservano questi svaghi al sabato sera e alla domenica mentre negli altri giorni della settimana cercano di guadagnare molto denaro. Quando la sera escono dagli uffici, si ritrovano alla solita ora nei caffè, passeggiano lungo lo stesso boulevard oppure si mettono al balcone. I desideri dei più giovani sono violenti e brevi, mentre i vizi dei più vecchi si limitano alla frequentazione delle bocciofile, delle feste del dopolavoro e dei circoli dove tentano la fortuna puntando grosso alle carte.

Topi

A partire dal quarto giorno, i topi cominciarono a uscire per morire in gruppi. Salivano in lunghe file malferme da ogni angolo nascosto, dagli scantinati, dalle cantine, dalle fogne, e, barcollanti, uscivano alla luce per ruotare su stessi e morire vicino agli esseri umani. Di notte si udivano distintamente i loro stridii di agonia nei corridoi o nei vicoli. Al mattino, nei quartieri dei sobborghi, li trovavi riversi nei rigagnoli con un piccolo fiore di sangue sul muso appuntito, alcuni gonfi e putrefatti, altri rigidi e con i baffi ancora dritti. Se ne rinvenivano anche in centro, a mucchietti, sui pianerottoli o nei cortili. 

Tempo

“Domanda: come si fa per non sprecare tempo? Risposta: sentirlo in tutta la sua durata. Modi: passare giornate nella sala d’aspetto di un dentista, su una sedia scomoda; trascorrere la domenica pomeriggio al balcone; ascoltare conferenze in una lingua che non si conosce, scegliere i tragitti ferroviari più lunghi e complicati e viaggiare ovviamente in piedi; fare la coda al botteghino e non prendere i biglietti per lo spettacolo ecc.” 

Alla sprovvista

Benché un flagello sia infatti un accadimento frequente, tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso. Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Era stato colto alla sprovvista il dottor Rieux, come lo erano stati i nostri concittadini, e questo spiega le sue titubanze. E spiega anche perché fosse combattuto tra la preoccupazione e la fiducia. Quando scoppia una guerra tutti dicono: “È una follia, non durerà.” E forse una guerra è davvero una follia, ma ciò non le impedisce di durare. La follia è ostinata, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo, i nostri concittadini erano come tutti gli altri, erano presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione. I nostri concittadini non erano più colpevoli di altri, dimenticavano soltanto di essere umili e pensavano che tutto per loro fosse ancora possibile, il che presumeva che i flagelli fossero impossibili. Continuavano a fare affari, programmavano viaggi e avevano opinioni. Come avrebbero potuto pensare alla peste che sopprime il futuro, gli spostamenti e le discussioni? Si credevano liberi e nessuno sarà mai libero finché ci saranno dei flagelli.

Inquietudine, 1 morto versus 100 milioni

... il dottore sentiva a malapena nascere dentro di sé quel lieve scoramento di fronte al futuro che chiamiamo inquietudine. Provava a fare mente locale su ciò che sapeva della malattia. Nella memoria gli ballavano dei numeri e si diceva che la trentina di grandi pesti della storia avevano fatto quasi cento milioni di morti. Ma che cosa sono cento milioni di morti? Quando hai fatto la guerra, sai a stento cos’è un morto. E poiché un uomo morto ha un peso solo se qualcuno l’ha visto morto, per l’immaginazione cento milioni di cadaveri disseminati nella storia sono soltanto fumo. Il dottore ricordava la peste di Costantinopoli, che secondo Procopio aveva fatto diecimila vittime in un giorno. Diecimila morti sono cinque volte il pubblico di un grande cinema. Ecco cosa bisognerebbe fare. Si radunano le persone all’uscita di cinque cinema, si portano in una piazza della città e le si fa morire tutte insieme per farsi un’idea un po’ precisa. Almeno si potrebbero mettere dei volti noti su quel cumulo anonimo. Va da sé che una cosa del genere è irrealizzabile, e poi chi li conosce diecimila volti?

Dubbi (morti di peste o con la peste?)

L’annuncio che nella terza settimana di peste si erano contati trecentodue morti rimaneva infatti qualcosa di astratto. In primo luogo, forse non tutti erano morti di peste. E in secondo luogo nessuno sapeva quante persone morissero alla settimana in tempi normali. La città contava duecentomila abitanti. Nessuno aveva idea se quella percentuale di decessi fosse nella media. Si tratta, anzi, del genere di dettagli di cui non ci si cura mai, nonostante l’indubbio interesse che presentano. In un certo senso, all’opinione pubblica mancavano i termini di paragone. Solo con il passare del tempo, constatando l’aumento dei decessi, ci si rese conto della verità.La quinta settimana si ebbero infatti trecentoventuno morti e la sesta trecentoquarantacinque. L’incremento, se non altro, era eloquente. Ma non era abbastanza elevato perché i nostri concittadini non serbassero, pur nell’inquietudine, l’impressione che si trattasse di un incidente certo increscioso, ma tutto sommato temporaneo.

La pietà

Alla fine di quelle settimane sfibranti, dopo tutti quei crepuscoli in cui la città si riversava in strada per girare a vuoto, Rieux capiva che non aveva più bisogno di difendersi dalla pietà. Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile. 

La peste come castigo

Era un uomo di statura media, ma dal fisico massiccio. Quando si appoggiò al bordo del pulpito, stringendo il legno fra le grosse mani, si vide di lui solo una forma tozza e nera sormontata dalle due chiazze rubiconde delle guance sotto gli occhiali di metallo. Aveva una voce forte e appassionata, che arrivava lontano, e nell’istante in cui affrontò l’uditorio scandendo un’unica frase veemente: “Fratelli, la sventura vi ha colpito, fratelli, ve lo siete meritato,” un mormorio percorse il pubblico fino al sagrato. 

“Fratelli,” disse con forza, “la stessa caccia mortale avviene oggi nelle nostre strade. Guardatelo, questo angelo della peste, bello come Lucifero e fulgido come il male, in piedi sui tetti, la mano destra a stringere lo spiedo rosso all’altezza della testa e la mano sinistra a indicare una delle vostre case. Forse in questo momento tende il dito verso la vostra porta, lo spiedo risuona sul legno; in questo momento la peste entra nella vostra casa, si siede in camera da letto e aspetta il vostro ritorno. È lì, paziente e attenta, inconfutabile come l’ordine del mondo. E nessuna potenza terrena, né tantomeno, sappiatelo, la vana scienza umana, potrà farvi evitare la mano che tenderà verso di voi. Così, battuti sull’aia sanguinosa del dolore, sarete gettati via con la paglia.”

Le quattro del mattino

E il giorno in cui Rambert gli disse che amava svegliarsi alle quattro del mattino e pensare alla sua città, il dottore tradusse subito dal profondo della propria esperienza che in quel momento lui amava immaginare la donna che aveva lasciato. Era infatti l’ora in cui poteva impadronirsi di lei. Nessuno fa niente, in genere, alle quattro del mattino, anche se la notte è stata una notte di tradimento. A quell’ora tutti dormono, ed è rassicurante, poiché il grande desiderio di un cuore inquieto è possedere ininterrottamente l’essere amato o poterlo far piombare, quando giunge il tempo dell’assenza, in un sonno senza sogni che abbia fine solo il giorno del ricongiungimento.

Ascesa e discesa

A Tarrou, che si era mostrato stupito della vita reclusa che conduceva, aveva spiegato su per giù che secondo la religione la prima metà della vita di un uomo era un’ascesa e l’altra metà una discesa, che nella discesa l’uomo non possedeva più le proprie giornate che potevano essergli portate via in qualsiasi momento, che quindi non poteva farne niente e che la cosa migliore era per l’appunto non farne niente.

Il piacere

All’inizio, quando credevano che fosse una malattia come le altre, la religione era al suo posto. Ma quando hanno capito che era una cosa seria, si sono ricordati del piacere. Tutta l’angoscia che durante il giorno è dipinta sui volti si risolve allora, nel crepuscolo ardente e polveroso, in una specie di eccitazione stranita, una libertà maldestra che infiamma un intero popolo. 

Come al solito, nessuno sapeva niente

Il giorno precedente erano comparsi in città due casi di una forma nuova dell’epidemia. La peste diventava polmonare. Il giorno stesso, nel corso di una riunione, i medici allo stremo avevano chiesto e ottenuto da un prefetto disorientato nuove misure per evitare il contagio, che nelle peste polmonare avveniva per via aerea. Come al solito, nessuno sapeva niente.

Dio onnipotente

“Sì,” disse Tarrou. “Come mai si prodiga così tanto visto che non crede in Dio? Forse la sua risposta mi aiuterà a rispondere.”

Senza uscire dall’ombra, il dottore disse che aveva già risposto, che se avesse creduto in un Dio onnipotente avrebbe smesso di guarire gli uomini, lasciando il compito a lui. Ma che nessuno al mondo, no, nemmeno Paneloux che credeva di crederci, credeva in un Dio del genere, poiché nessuno si abbandonava totalmente, e almeno in questo lui, Rieux, pensava di essere sulla via della verità, lottando contro la creazione quale era.

“Ah!” disse Tarrou, “è questa l’idea che si fa del suo lavoro?”

“Più o meno,” rispose il dottore passando nella luce.

Tarrou fece un fischio e il dottore lo guardò.

“Sì,” disse, “penserà che ci vuole un bel po’ di orgoglio. Ma le assicuro che ho soltanto quel minimo di orgoglio necessario. Non so cosa mi aspetta né cosa succederà dopo tutto questo. Per ora ci sono dei malati e bisogna guarirli. Dopodiché rifletteranno, e io con loro. Ma la cosa più urgente è curarli. Li difendo come posso, tutto qua.”

Rifiuto di morire

Quando ho scelto questo mestiere, l’ho fatto per certi versi in maniera astratta, perché ne avevo bisogno, perché era un lavoro come un altro, uno di quei lavori che si hanno in mente da ragazzi. Forse anche perché era difficile, per un figlio di operai come me. Poi mi è toccato veder morire. Lo sa che ci sono persone che si rifiutano di morire? Ha mai sentito una donna gridare: ‘Mai e poi mai!’ al momento di morire? Io sì. E allora mi sono accorto che non riuscivo ad abituarmici. Ero giovane e credevo che la mia avversione fosse rivolta contro l’ordine stesso del mondo. Dopo sono diventato più modesto. Semplicemente, non mi sono ancora abituato a veder morire. Non so altro.

Sconfitta

Ma resta il fatto che le sue vittorie saranno sempre provvisorie.”

Rieux parve incupirsi.

“Sempre, lo so. Non è un buon motivo per smettere di lottare.”

“No, non è un buon motivo. Ma allora immagino cosa debba essere questa peste per lei.”

“Sì,” disse Rieux. “Un’interminabile sconfitta.”

Carcere

Malgrado l’isolamento di alcuni detenuti, una prigione è una comunità, come dimostra il tributo alla malattia pagato tanto dalle guardie quanto dai reclusi del nostro carcere municipale. Dal superiore punto di vista della peste, tutti erano condannati, dal direttore fino all’ultimo carcerato, e per la prima volta regnava forse nella prigione una giustizia assoluta.

Notte e coprifuoco

L’unica misura che parve avere un qualche effetto su tutti gli abitanti fu l’instaurazione del coprifuoco. A partire dalle undici, immersa nel buio completo, la città era di pietra.

Alla luce della luna schierava i suoi muri biancastri e le sue vie rettilinee, mai intaccate dalla macchia scura di un albero, mai turbate dalla camminata di un passante né dall’abbaiare di un cane. La grande città silenziosa era allora soltanto un insieme di cubi massicci e inerti, fra i quali le effigie taciturne di benefattori dimenticati o di antichi uomini illustri imprigionati per sempre nel bronzo erano le uniche tracce che restituissero, con i loro finti volti di pietra o di ferro, un’immagine svilita di ciò che era stato l’uomo. Quegli idoli mediocri troneggiavano sotto un cielo pesante, agli incroci senza vita, come fantocci inerti che ben rappresentavano il regno immobile nel quale eravamo entrati, o perlomeno il suo ordine ultimo, quello di una necropoli dove la peste, la pietra e la notte avrebbero infine zittito qualunque voce.

Funerali

I malati morivano lontano dalla famiglia e le veglie erano vietate, sicché chi moriva di sera passava la notte da solo e chi moriva durante il giorno veniva subito seppellito. I famigliari beninteso venivano avvisati, ma nella stragrande maggioranza dei casi non potevano spostarsi poiché se avevano vissuto a contatto con il malato si trovavano in quarantena. Nel caso in cui non avessero abitato con il defunto, i parenti si presentavano all’ora stabilita, che era quella della partenza per il cimitero, dopo che il corpo era già stato lavato e messo nella bara.

E ai pochi passanti che sfidando il regolamento si attardavano dopo il coprifuoco nei quartieri esterni (o che vi si trovavano a causa del loro lavoro) accadeva talora di imbattersi in lunghe ambulanze bianche che sfrecciavano a gran velocità facendo riecheggiare il loro sordo scampanellio nelle vuote vie notturne. In fretta e furia, i corpi erano gettati nelle fosse. E prima ancora che avessero finito di rotolarvi dentro, le palate di calce gli si rovesciavano sul volto e la terra anonima li copriva dentro buche sempre più profonde.

Disperazione

Avevano ancora, certo, le sembianze della tragedia e della sofferenza, ma non ne sentivano più il morso. E del resto il dottor Rieux, per esempio, riteneva che fosse proprio questa la tragedia, e che l’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa. Prima coloro che erano separati non erano davvero infelici, c’era nella loro sofferenza una luce, che ora si era spenta. Adesso li vedevi per strada, nei caffè o a casa di amici, placidi e distratti, e lo sguardo così scoraggiato che con loro tutta la città sembrava una sala d’aspetto. 

Calpestio

Tuttavia se si volesse avere un’idea esatta dello stato d’animo in cui si trovavano i separati della nostra città, bisognerebbe di nuovo ricordare quelle eterne sere dorate e polverose che piombavano sulla città senza alberi, quando uomini e donne si riversavano nelle strade. Poiché, stranamente, quel che allora si levava verso le terrazze ancora inondate di sole, in assenza dei rumori di veicoli e di macchine che sono il linguaggio abituale delle città, era soltanto un brusio di passi e di voci sorde, il doloroso trascinarsi di migliaia di suole scandito dal fischio del flagello nel cielo pesante, un calpestio interminabile e alla fine soffocante che segnava il passo, che riempiva pian piano tutta la città e che sera dopo sera costituiva la voce più fedele e più triste della cieca ostinazione che nei nostri cuori rimpiazzava allora l’amore.

Cuore

“Lei è senza cuore,” gli avevano detto un giorno. Invece sì che ce l’aveva un cuore. Gli serviva per sopportare le venti ore al giorno in cui vedeva morire uomini che erano fatti per vivere. Gli serviva per ricominciare ogni giorno. Ormai gli restava cuore solo per questo. Come avrebbe mai potuto quel cuore essere sufficiente a dare la vita?

Accumulo di malattie

‘Ci ha fatto caso,’ mi ha detto, ‘che non è possibile accumulare le malattie? Supponga di avere una malattia grave o incurabile, un cancro serio o una bella tubercolosi, è impossibile che lei si prenda anche la peste o il tifo. Ma d’altronde la cosa è ancora più netta, poiché non si è mai visto un malato di cancro morire in un incidente d’auto.’

Felicità

Ma Rieux reagì con voce ferma dicendo che era una sciocchezza e che non c’era da vergognarsi a scegliere la felicità.

“Sì,” disse Rambert, “ma forse c’è da vergognarsi a essere felici da soli.”

Il male

C’erano senz’altro il bene e il male, e in genere era piuttosto facile spiegarsi cosa li distinguesse. Ma la difficoltà cominciava all’interno del male. C’era per esempio il male apparentemente necessario e c’era il male apparentemente inutile. C’era don Giovanni sprofondato all’Inferno e c’era la morte di un bambino. Se infatti è giusto che il libertino sia folgorato, la sofferenza del bambino invece non si riesce a comprendere. E in verità non c’era in terra nulla di più importante della sofferenza di un bambino e dell’orrore che tale sofferenza comporta e delle ragioni che occorre trovarle. Nel resto della vita, Dio ci semplificava tutto e fino a lì la religione non aveva alcun merito. Qui, invece, ci metteva con le spalle al muro. E così eravamo, sotto le mura della peste, e nella loro ombra mortale dovevamo trovare il nostro bene.

Non si poteva dire: “Questo lo capisco; questo invece è inaccettabile,” bisognava saltare dentro l’inaccettabile, che ci era offerto proprio perché facessimo la nostra scelta. La sofferenza dei bambini era il nostro pane amaro, ma senza quel pane la nostra anima sarebbe morta di fame spirituale.

Tutto o niente

No, non c’era una via di mezzo. Dovevamo accettare lo scandalo perché dovevamo scegliere di odiare Dio o di amarlo. E chi oserebbe scegliere di odiare Dio?

I morti

Non erano più i negletti al cui cospetto si viene a giustificarsi un giorno all’anno. Erano gli intrusi che chiunque voleva dimenticare. Sicché, in una certa maniera, quell’anno la Festa dei Morti fu ignorata. Secondo Cottard, a cui Tarrou riconosceva un linguaggio sempre più ironico, la Festa dei Morti era ogni giorno.

Ed era vero, i falò della peste ardevano sempre più vivaci nel forno crematorio. Da un giorno all’altro, certo, il numero dei morti non aumentava. Ma era come se la peste si fosse comodamente stabilizzata al proprio parossismo e mettesse nei propri quotidiani omicidi la precisione e la metodicità di un impiegato diligente. In linea di principio, e secondo il parere degli esperti, si trattava di un buon segno.

Indifferenza

E alla fine ci si rende conto che nessuno è davvero capace di pensare a nessuno, fosse anche nella peggior sciagura. Poiché pensare davvero a qualcuno significa pensarci ogni istante, senza essere distratti da niente, né dalle faccende di casa, né dal volo di una mosca, né dai pasti, né da un prurito. Ma le mosche e il prurito ci sono sempre. Per questo la vita è difficile. E loro lo sanno bene.”

Ostinazione a vivere

Il Natale di quell’anno fu più la festa dell’Inferno che quella del Vangelo. I negozi vuoti e senza luminarie, i cioccolatini finti o le scatole vuote nelle vetrine, i tram stracolmi di figure scure, non c’era nulla che rammentasse i Natali passati. In quella festa che un tempo accomunava tutti, ricchi e poveri, ora c’era spazio solo per rari pranzi solitari e ignobili che pochi privilegiati pagavano a peso d’oro in chissà quale sudicio retrobottega. Le chiese erano piene di lamenti più che di azioni di grazie. Alcuni bambini correvano nella città triste e gelida ancora ignari di ciò che li minacciava. Ma nessuno osava annunciare loro il dio di un tempo, carico di doni, vecchio come il dolore umano ma nuovo come la giovane speranza. Nel cuore di tutti c’era ormai spazio solo per un’assai vecchia e triste speranza, quella che impedisce agli uomini di abbandonarsi alla morte e che è soltanto una semplice ostinazione a vivere.

Tenerezza

Rieux sapeva cosa pensava in quel preciso istante il vecchio che piangeva, e lo pensava come lui, che quel mondo senza amore era come un mondo morto e che arriva sempre il momento in cui non se ne può più delle prigioni, del lavoro e del coraggio e si implora un volto umano e il cuore incantato della tenerezza.

Il personaggio peste

Tutte le misure prese dai medici, che prima non avevano sortito alcun effetto, sembravano di colpo efficaci. Pareva che la peste fosse a sua volta braccata e che la sua improvvisa debolezza facesse la forza degli stanchi eserciti che finora le erano stati contrapposti. Solo di tanto in tanto la malattia rialzava la testa e in una specie di cieco soprassalto si portava via tre o quattro malati di cui si sperava la guarigione. Erano gli sfortunati della peste, uccisi nel pieno della speranza.

Cambiamento o tutto come prima

Ma Cottard non sorrideva. Voleva sapere se si poteva immaginare che in città la peste non avrebbe cambiato niente e che tutto sarebbe ripreso come prima, cioè come se non fosse successo niente. Tarrou pensava che la peste avrebbe cambiato la città e nel contempo non l’avrebbe cambiata, che naturalmente il più grande desiderio dei nostri concittadini era e sarebbe stato fare come se non fosse cambiato niente e che, quindi, in un certo senso niente sarebbe cambiato, ma in un altro senso non è possibile dimenticare tutto, anche con la debita forza di volontà, e la peste avrebbe lasciato delle tracce, perlomeno nel cuore degli uomini. 

Per il momento voleva fare come tutti quelli che, intorno a lui, sembravano credere che la peste può venire e andarsene senza che il cuore degli uomini ne sia trasformato.

Rimpianti

In quel momento, sapeva cosa pensava la madre e sapeva che lo amava. Ma sapeva anche che amare una persona non è una gran cosa o perlomeno che un amore non è mai abbastanza forte da riuscire a trovare il modo di esprimersi. Così lui e la madre si sarebbero amati sempre in silenzio. E anche lei sarebbe morta – oppure lui – senza che in tutta la vita fossero riusciti a fare un passo avanti per dire il loro affetto. Allo stesso modo aveva vissuto accanto a Tarrou, e stasera lui era morto senza che la loro amicizia avesse avuto il tempo di essere davvero vissuta. Tarrou aveva perso la partita, come diceva. Invece lui, Rieux, che cosa aveva guadagnato? Soltanto di aver conosciuto la peste e di ricordarselo, di aver conosciuto l’amicizia e di ricordarselo, di conoscere l’affetto e di doversene un giorno ricordare. La conoscenza e la memoria erano tutto ciò che l’uomo poteva guadagnare al gioco della peste e dalla vita. Forse era questo che Tarrou chiamava vincere la partita! 

Riferimento ad Auschwitz

Negavano con tutta serenità, e contro ogni evidenza, che avessimo mai conosciuto quel mondo insensato in cui l’uccisione di un uomo era normale come quella di una mosca, quell’efferatezza ben definita, quel delirio calcolato, quella reclusione che portava con sé una spaventosa libertà rispetto a tutto ciò che non era il presente, quell’odore di morte che lasciava stupefatti tutti coloro che non uccideva, negavano infine che fossimo stati quel popolo stranito di cui ogni giorno una parte, gettata nella bocca di un forno, si trasformava in grasse volute di fumo, mentre l’altra aspettava il proprio turno gravata delle catene dell’impotenza e della paura.


Link

it.wikipedia.org

unitonews.it

journals.openedition.org/studifrancesi

bookblog/lintroduzione-di-alessandro-piperno

unipd.it/onebookonecity

artribune.com (video)

www.youtube.com (video)

Recalcati (video)

Lettura (video)

Errore di sistema / Edward Snowden

 

Errore di sistema / Edward J. Snowden. - Milano : Longanesi, 2019 (Il cammeo ; 615) . - Milano : Longanesi, 2019.


Incipit:

«Mi chiamo Edward Joseph Snowden. Un tempo lavoravo per il governo, ora lavoro per le persone. Mi ci sono voluti quasi trent’anni per capire che c’era una differenza tra le due cose e, quando è successo, ho iniziato ad avere qualche problema sul lavoro. E così adesso passo il tempo cercando di proteggere la gente dalla persona che ero una volta – una spia della CIA e della National Security Agency. Se state leggendo questo libro è perché ho fatto qualcosa di molto pericoloso, per uno nella mia posizione: ho deciso di dire la verità.»


Link:

Una viennese a Parigi / Ernst Lothar

 

Una viennese a Parigi / Ernst Lothar ; traduzione dal tedesco di Monica Pesetti. - Roma : E/O, 2018 (Gli intramontabili). - 509 p. ; 21 cm.


Incipit:

Parigi, 10 aprile 1938

È una vergogna - eppure sono felice! In realtà dovrei essere infinitamente triste e riuscire a pensare solo a quanto è successo. Ma qui è tutto meraviglioso, tutto! Me l'ero immaginata completamente diversa, dei due giorni trascorsi a Parigi da bambina durante una vacanza a Trouville con i miei genitori mi era rimasto solo il vago ricordo di una strada interminabile lungo un parco con un'alta inferriata appuntita. Fino a ieri ero convinta che Vienna fosse la città più bella del mondo, come ha sempre sostenuto papà. È vero, Vienna è bella. Parigi però è stupenda. Ieri sera, appena arrivata, sono andata in giro per ore, stamattina sono stata prima a Notre-Dame e poi al Louvre, e nel pomeriggio a Versailles, infatti per fortuna è domenica, inizio a lavorare solo domattina alle nove. Mi sento come dentro un sogno. O come se avessi bevuto troppo di quel buon vino rosso che servono al bistrot qua sotto. Sul serio, questa non è una città, è un'ebbrezza continua! Forse sono ingiusta nei confronti di Vienna. Ma Vienna ha accettato l'annessione in maniera così passiva, perlomeno dall'esterno, e si è rassegnata con una tale remissività, una remissività inconcepibile, che preferisco essere ingiusta anziché oggettiva. Se i miei genitori non vivessero lì e non aspettassi una lettera di K. - che in realtà dovrebbe essere già arrivata da un pezzo - non penserei più a Vienna, neanche per un secondo! Ho telegrafato a papà e a K. che sto benissimo ed è la pura verità. Qui è già tutto in fiore, una primavera che toglie il fiato, e non ho mai visto nulla di più maestoso dello scorcio da place de la Concorde all'Étoile, di più animato dei boulevard, di più incantevole degli antichi palazzi sulla Rive gauche. Non avrei mai creduto che una città potesse regalare così tanta gioia di vivere. Vienna mi ha soffocata, dal primo momento in cui ho messo piede a Parigi respiro di nuovo.


Link

leggerealumedicandelaparigi