martedì 28 aprile 2020

Nelle tempeste d'acciaio / Ernst Jünger

Nelle tempeste d'acciaio / Ernst Jünger ; traduzione di Giorgio Zampaglione ; introduzione di Giorgio Zampa. - Parma : Guanda, 2007 (Biblioteca della Fenice). - XIX, 329 p. ; 22 cm.

Incipit:

"Il treno si fermò a Bazancourt, una cittadina della Champagne. Scendemmo. Con rispettosa incredulità tendemmo l'orecchio al rimbombo lento e ritmato del fronte, simile a quello di un laminatoio, una melodia che poi, per lunghi anni, ci sarebbe stata familiare. Lontano, la nuvola bianca di uno "shrapnel" si dissolveva nel cielo grigio di dicembre. Il respiro della battaglia aleggiava tutt'intorno, mettendo addosso a ognuno un brivido strano. Sapevamo noi allora che quel sordo brontolio dietro l'orizzonte, crescendo fino a diventare tuono ininterrotto, prima uno poi un altro, ci avrebbe inghiottiti quasi tutti?
Avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d'istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d'entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l'irresistibile attrattiva dell'incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un'ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada. "Non v'è al mondo morte più bella..." cantavamo. Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro".


Venti anni!
"l nostro battaglione prese alloggio nella cittadina di Herinnes, in un placido paesaggio fiammingo. Vi festeggiai felicemente, il 29 marzo, il mio ventesimo compleanno. Benché i belgi avessero case molto ampie, la nostra compagnia fu alloggiata in un vasto granaio pieno di correnti d'aria attraverso il quale, nelle rigide notti di marzo, fischiava l'aspro vento marino della regione. A parte ciò, il nostro soggiorno a Herinnes fu abbastanza riposante: molte esercitazioni, certo, ma i rifornimenti, in compenso, erano abbondanti e i viveri a buon mercato.

Trincea conquistata
Al mattino, un benefico tepore giunse col sole che trapassava la fitta nebbia. Dopo un breve sonno nel fondo del fossato, la curiosità mi spinse a ispezionare la trincea isolata che avevamo presa il giorno avanti. Il suolo era tutto coperto di viveri, munizioni, parti d'equipaggiamento, di armi, di lettere e di giornali. I rifugi sembravano botteghe di rigattieri dopo un saccheggio. I corpi dei valorosi difensori erano ancora lì con i fucili appoggiati alle feritoie. Da un'impalcatura di legno, schiantata dalle granate, usciva il tronco di un uomo rimasto conficcato tra i pali. La testa e il collo erano strappati, bianche cartilagini spiccavano sulla carne nero-rossastra. Mi riusciva difficile capire. Un ragazzo giovanissimo giaceva lì vicino, supino, gli occhi vitrei e i pugni irrigiditi nella posizione di mira.

Contrasto orrendo
La triste impressione delle distruzioni rendeva più sensibili l'abbandono e il profondo silenzio, interrotto di tanto in tanto dai colpi sordi dei cannoni. Zaini lacerati, fucili spezzati, brandelli di stoffa e in mezzo, contrasto orrendo, un giocattolo, spolette di granata, profondi imbuti di proiettili esplosi, bottiglie, attrezzi per la mietitura, libri strappati, suppellettile domestica, pertugi il cui buio misterioso rivelava una cantina dove forse i cadaveri degli infelici abitanti erano rosi da bande di ratti frenetici, un piccolo pesco che, privato del muro di sostegno, tendeva supplice le braccia, nelle stalle carcasse di animali ancora attaccati alla catena, tombe nel giardino inselvatichito e in mezzo, appena ravvisabile tra le erbacce, il verde di cipolle, assenzio, rabarbaro, narcisi, sui campi finitimi barche di grano con chicchi in germoglio sulla spiga. E tutto attraversato da una trincea semicrollata, avvolto dal lezzo della decomposizione. Pensieri malinconici investono furtivi il combattente in luoghi come questo, allorché egli pensa a coloro che ancora poco tempo prima lì abitavano, sereni.

Rifugi
Per il riposo sono stati scavati rifugi che, da semplici buche nella terra, sono diventati ambienti ben chiusi, col soffitto sostenuto da travi e con le pareti rivestite di legno. Questi rifugi sono alti presso a poco quanto un uomo e sono scavati tanto in profondità che il loro pavimento si trova allo stesso livello del suolo della trincea. Il soffitto di travi è ricoperto da uno strato di terra abbastanza spesso, capace di resistere ai proiettili di piccolo calibro.

Piccoli corridoi ciechi ad angolo retto si diramavano verso la galleria, formando tutta una serie di piccole celle. Mi installai proprio in una di queste. Se si esclude una stretta branda, una tavola e qualche cassa di munizioni, da usare come sedie, il mobilio non comprendeva altro che qualche oggetto già da molto tempo familiare: una bottiglia di alcool, un candeliere, una gavetta e alcuni effetti personali.

Gallerie
Le gallerie sono puntellate con robusti telai di legno. Il primo di essi, incastrato nella parete anteriore della trincea, al livello del suolo, costituisce l'ingresso della galleria; per ogni telaio successivo si scende di trenta centimetri in profondità, il che permette di giungere rapidamente al riparo. Si costruisce così la scala della galleria; al trentesimo gradino si hanno dunque già nove metri, o, calcolando anche la profondità della trincea, dodici metri di terra sulla testa. Si impiantano quindi telai un po' più larghi nella stessa direzione o ad angolo retto rispetto alla scala; i vani così formati servono da alloggiamento. Collegamenti trasversali creano corridoi sotterranei; ramificazioni, volte in direzione del nemico, diventano cunicoli da ascolto o da mine.

Contatto con la terra
Sarà bene tuttavia non immaginare un'atmosfera troppo romantica; vi regna invece una certa sonnolenza, una pesantezza che nasce dal contatto intimo con la terra.

La giornata in trincea e caccia ai topi
La giornata della trincea comincia al calar della notte. Alle sette un soldato del gruppo mi sveglia dalla siesta pomeridiana fatta in previsione del turno di guardia notturna. Agganciato il cinturone, vi introduco la pistola lancia-razzi e qualche bomba; quindi esco dal più o meno confortevole rifugio. Col primo giro di ronda nel settore noto della mia sezione, mi assicuro che tutte le sentinelle siano al loro posto. A mezza voce ci scambiamo la parola d'ordine. Frattanto è sopraggiunta la notte e i primi razzi si levano, d'argento, mentre occhi vigili scrutano oltre i parapetti. Un topo fa tintinnare i barattoli gettati sulla montagnola di terra alle nostre spalle. Un altro si aggiunge a lui fischiando, e ben presto la notte brulica di ombre furtive uscite dalle cantine in rovina del villaggio o dalle gallerie distrutte. La caccia ai topi offre una magnifica distrazione contro la noia dei turni di guardia. Un pezzetto di pane, sul quale si punta il fucile, funge da esca; oppure si spande nelle tane la polvere tolta ai proiettili inesplosi e vi si dà fuoco. I ratti escono a gran velocità con acuti squittii e col pelo bruciato. Sono creature ripugnanti e non riesco a togliermi di mente la loro segreta attività di divoratori di cadaveri nelle cantine del villaggio.

La pioggia e l'acqua
Spesso piove; si resta allora malinconicamente col bavero del pastrano rialzato sotto la tettoia posta all'ingresso delle gallerie ad ascoltare il battito regolare delle gocce che cadono.

Mentre tentavo di ripescare nella fanghiglia la pistola e l'elmetto, perdetti il tabacco e il pane che vidi andare alla deriva lungo il fossato dove gli altri occupanti si trovavano in altrettanto precarie condizioni. Tremanti, gelati, senza un solo filo di stoffa asciutto addosso, restammo in piedi, sicuri di essere falciati, al prossimo bombardamento, non disponendo della benché minima protezione in mezzo ai detriti della strada. Fu una mattinata penosa. Mi resi conto che nessuna artiglieria è capace di fiaccare la volontà di resistenza tanto radicalmente quanto il freddo e l'umidità.

Nostalgia della pace e della casa
I pensieri vagano. Si guarda la luna e si pensa ai bei giorni tranquilli di casa o alla grande città, indietro, lontano, dove gli abitanti escono a quell'ora dai caffè e dove tanti fanali brillano sul traffico notturno del centro. Si ha l'impressione di averle sognate, queste cose, in un tempo incredibilmente lontano.

Così, un giorno, il portaordini che andava in licenza, ci salutò con queste parole: "Ragazzi, che cosa meravigliosa ritrovarsi la prima notte nel letto di casa con la propria donna che ti si stringe contro!"

Rapporti con il nemico
In alcuni punti della posizione, per esempio alla testa della trincea, le sentinelle delle due parti distano appena trenta passi l'una dall'altra. Si stringono a volte relazioni personali; si riconosce Fritz, Wilhelm o Tommy dal loro modo di tossire, di fischiare o di cantare. Brevi richiami, che non mancano di un certo umorismo primitivo, volano da una linea all'altra.
"Ehi, Tommy, sei ancora lì?"
"Certo!"
"Allora abbassa la testa, perché sparo!"

Gli occupanti delle trincee di tutti e due i campi, spinti dal fango sui rispettivi parapetti, avevano iniziato, tra le reti di filo spinato, animati scambi di acquavite, di sigarette, di bottoni d'uniforme e di altri oggetti. La folla degli uomini in uniformi color kaki usciti dalle linee inglesi, fin allora deserte, era stupefacente quanto può esserlo l'apparizione di un fantasma in pieno mezzogiorno.

Cominciammo a parlamentare in inglese, poi, più correntemente, in francese, mentre tutt'intorno i soldati ascoltavano. Feci le mie rimostranze per l'uccisione di uno dei nostri colpito da un proiettile sparato a tradimento, al che l'inglese rispose che non la sua, ma la compagnia a fianco ne era responsabile. "Il y a des cochons aussi chez vous!" notò quello, quando qualche proiettile partito dal settore vicino crepitò non lontano dalla sua testa, mentre io cercavo di ripararmi alla meglio. Continuammo tuttavia ancora a parlare con un tono che esprimeva una certa stima sportiva e infine ci saremmo volentieri scambiati qualche ricordo.

Durante la guerra mi sforzai sempre di considerare l'avversario senza odio, di apprezzarlo secondo la misura del suo coraggio. In battaglia cercai di individuarlo per ucciderlo, senza attendere da lui cosa diversa. Mai però che ne abbia pensato male. Quando, in seguito, mi caddero in mano dei prigionieri, mi sentii responsabile della loro sicurezza e cercai di fare per loro quanto era in mio potere.

Alla mia domanda: "Quelle nation?" uno rispose: "Pauvre Radschput!". Avevamo dunque davanti a noi degli indiani venuti d'oltre mare a spaccarsi la testa in quest'angolo sperduto del mondo contro un gruppo di fucilieri di Hannover.

Giaceva là, coi tratti del viso distesi. Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Ora non si poneva più la questione: tu o io. Sono tornato spesso col pensiero a quel morto, e sempre più frequentemente di anno in anno. Lo stato che ci solleva dalla responsabilità, non ci può liberare dalla tristezza; la dobbiamo sopportare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni.

Sonno
... mi allungo sulla branda, con la coperta tirata fin sulla testa, per schiacciare, come si suol dire, un sonnellino di quattro ore. Fuori i proiettili scoppiano con regolare monotonia sulle nostre difese; un topo mi passa sul viso e sulle mani senza turbare il mio sonno.

Saper fare tutti i lavori
Siamo autentici tuttofare: la trincea ci impone ogni giorno le sue mille esigenze. Scaviamo profonde gallerie, costruiamo ricoveri e sostegni di cemento, prepariamo ostacoli di fili spinati, creiamo impianti per lo scolo delle acque, ci improvvisiamo carpentieri, puntelliamo, livelliamo, alziamo e abbassiamo pendenze, colmiamo latrine; in breve, esercitiamo, senza l'aiuto di nessuno, tutti i mestieri.
E perché no, dopo tutto, se ogni classe sociale e ogni professione hanno qui tra noi i loro rappresentanti?

Bei momenti
Anche in trincea, tuttavia, si vivevano a volte dei bei momenti. Spesso stavo seduto, con un senso di voluttuosa sicurezza, accanto alla tavola del mio piccolo rifugio le cui pareti, coperte di tavole grezze, con le armi appese, mi ricordavano il Far West; una tazza di tè, un giornale, una sigaretta, mentre l'attendente si affaccendava davanti a una piccola stufa che riempiva l'aria di un odore di pane tostato. Quale combattente di trincea non conosce questo particolare stato d'animo?

Quando il trattamento era buono, mangiavamo aringhe con patate lesse al burro: un pasto delizioso. Queste ore di benessere compensano, nel ricordo, le tante ore di sangue, di sporco e di lavoro. Esse non sarebbero altrimenti concepibili se non in quel lungo periodo della guerra di posizione, durante il quale ci eravamo adattati completamente gli uni agli altri e avevamo preso abitudini quasi pacifiche.

Le libagioni fra i sopravvissuti di una battaglia restano tra i più bei ricordi di un veterano del fronte. Anche quando ne cadevano dieci su dodici, i due scampati si ritrovavano davanti a una bottiglia la prima sera di riposo, vuotavano un bicchiere in silenzio alla memoria dei camerati scomparsi e discutevano poi piacevolmente delle loro comuni esperienze. In quegli uomini c'era qualcosa di vivo che cancellava l'asprezza della guerra e spiritualizzava la voluttà del pericolo e il desiderio cavalleresco di vincere la propria battaglia.

Il 20 occupammo, come compagnia di riserva, la posizione Siegfried. Furono giorni di vera vacanza: tutte le ore sotto i numerosi pergolati disposti lungo i pendii, o al bagno, o in barca sul canale. Proprio in quel periodo, disteso sull'erba, lessi con infinito piacere tutto quanto l'Ariosto.

Caccia
Tra i divertimenti che questa posizione offre, vi è altresì la caccia a ogni specie di animali e particolarmente alle pernici che animano in gran numero i campi abbandonati intorno alle trincee. In mancanza di fucili da caccia siamo costretti ad avvicinarci il più possibile ai 'candidati alla padella' per decapitarli con un colpo; altrimenti rimarrebbe poca cosa per l'arrosto. Tuttavia bisogna guardarsi dall'uscire dal fossato nell'ardore della caccia, altrimenti da cacciatori si rischia di diventare preda, sotto il fuoco delle trincee avversarie.

Retrovie
Le frequenti visite alle organizzazioni delle retrovie, la maggior parte delle quali improvvisate sul posto, diedero, a chi come noi era abituato a considerare con sufficienza tutto quanto si trovava dietro la prima linea, un'idea dell'immenso lavoro che si svolgeva lì. Così, visitammo i macelli, il magazzino viveri e l'officina di riparazione per le artiglierie a Boyelles, la segheria e il parco del genio nella foresta di Boulon, il caseificio, l'allevamento di suini e i laboratori per l'utilizzazione delle carcasse di animali a Inchy, il campo d'aviazione e la panetteria a Quéant. La domenica ci si recava nelle vicine città di Cambrai, di Douai e di Valenciennes "per rivedere", dicevamo, donne in cappello.

Il mio alloggio era confortevole; i miei ospiti, una coppia di gioiellieri molto cordiali, i Plancot-Bourlon, non facevano quasi mai passare una colazione senza mandare in camera mia qualche boccone prelibato. Trascorrevamo le serate insieme davanti a una tazza di tè, giocando a trio trac e chiacchierando.

Gas
Contemporaneamente, Paulicke, il mio attendente, apparve sull'ingresso del rifugio urlando: "Attento ai gas!"

Afferrai in fretta la maschera, mi infilai gli stivali, agganciai il cinturone, uscii di corsa e vidi oltre la trincea un'enorme nuvola di gas che avanzava bianca e spessa sopra Monchy e che, spinta da un debole vento, si avvicinava a Quota centoventiquattro.
Poiché il mio plotone si trovava quasi tutto in linea e un attacco sembrava probabile, non c'era assolutamente tempo da perdere a riflettere. Saltai i reticolati della seconda linea, corsi in avanti e mi trovai ben presto in mezzo alla nuvola di gas. Un acre odore di cloro mi convinse che non si trattava, come in un primo momento avevo creduto, di nebbia artificiale, ma proprio di gas da combattimento.

Seppellire i morti
Il primo luglio ci fu affidato il triste compito di seppellire nel cimitero una parte dei nostri morti. Trentanove bare di legno, sulle cui rozze assi erano stati scritti col lapis i nomi, furono calate, l'una dopo l'altra, nella fossa. Il cappellano tenne un discorso sul tema: "Hanno combattuto la giusta battaglia" cominciando con queste parole: "Gibilterra, questo è il vostro simbolo, e in verità voi avete resistito come lo scoglio resiste alla risacca!"

Dalle carte dell'ufficiale apprendemmo che si chiamava Stokes e apparteneva al Secondo reggimento fucilieri "Royal Munster". Era molto ben vestito e il suo viso, nonostante la convulsione dell'agonia, aveva tratti intelligenti ed energici. Il suo taccuino personale conteneva un numero enorme di indirizzi di donne a Londra: questo particolare mi commosse. Lo seppellimmo dietro la nostra trincea. Sulla tomba piantammo una croce senza alcun ornamento, ma sulla quale feci scrivere il suo nome adoperando una serie di chiodi da scarpe.

Colpi di mano
Questi brevi colpi di mano durante i quali bisognava veramente stringere i denti erano un ottimo mezzo per tener desto il coraggio ed evitare la monotonia della vita di trincea. Prima di tutto è necessario che il soldato non si annoi.

Camminare sui morti
Si avanzava sempre, gli occhi fissi sull'uomo che era davanti, lungo un fossato che ci arrivava appena al ginocchio, costituito da una catena di enormi imbuti dove i morti si susseguivano in fila. Il piede calpestava con disgusto i corpi flaccidi che cedevano sotto il nostro peso; l'oscurità copriva le loro forme. Il ferito che cadeva lungo il cammino era ugualmente destinato a essere calpestato dagli stivali di quelli che proseguivano in fretta la loro strada.

La strada e il terreno retrostante erano coperti di tedeschi, il terreno antistante di inglesi. Braccia, gambe, teste fuoriuscivano dalla scarpata; davanti alle nostre tane membra strappate e corpi sui quali a volte erano stati gettati, per evitare un continuo spettacolo di facce sfigurate, cappotti o teli da tenda. Nonostante il calore nessuno si sognava di ricoprire di terra i cadaveri.

Palloni frenati
Mentre neppure un pallone frenato si mostrava dal lato nostro, più di trenta, sopra le linee avversarie, legati insieme in un grosso grappolo di color giallo brillante, osservavano con occhio penetrante ogni movimento sul terreno bombardato, per rovesciarvi immediatamente una grandine di ferro.

Feriti
Nella chiesa di Fins si trovavano centinaia di feriti. Un'infermiera mi raccontò che nelle ultime settimane vi erano stati nutriti e medicati più di trentamila uomini. Di fronte a tale cifra mi sentii davvero una nullità col mio colpetto alla gamba. Da Fins fui trasportato con altri quattro ufficiali in un piccolo ospedale installato in una casa privata di Saint Quentin.

Questo ospedale, non lontano dalla stazione, era installato nell'edificio del ginnasio e ospitava più di quattrocento feriti gravi. Non passava giorno in cui un corteo funebre non uscisse dalla porta principale al suono sordo dei tamburi. Tutte le miserie della guerra erano concentrate nella grande sala operatoria. Qui si amputava un membro, là si trapanava un cranio o si scioglieva un bendaggio che il sangue aveva reso un tutt'uno con il corpo. Gemiti e grida di dolore riempivano la stanza inondata da una luce implacabile mentre alcune infermiere, tutte vestite di bianco, si affaccendavano da un tavolo all'altro portando strumenti e fasciature.

Fuoco amico
Verso il mattino il puntatore della mitragliatrice cominciò a far lavorare la sua arma vedendo avvicinarsi delle sagome scure. Si trattava di una pattuglia di collegamento del Settantaseiesimo fanteria, cui si ammazzò un uomo. Simili errori avvenivano di frequente in quei giorni, senza che ci si facesse gran caso.

I civili
Una famiglia usciva dal villaggio contemporaneamente a noi, portandosi dietro, sua unica ricchezza, una vacca. Erano contadini; l'uomo aveva una gamba di legno, la donna trascinava per mano i bambini in lacrime. Il rumore confuso, dietro le nostre spalle, sottolineava la tristezza di quello spettacolo.

Disgusto della guerra
Fu la prima volta, quella, in cui incontrai al fronte un uomo che mi facesse delle difficoltà non per vigliaccheria, ma evidentemente per disgusto della guerra. Benché questo disgusto fosse cresciuto e generalizzato in quegli ultimi anni, una manifestazione del genere in piena battaglia non era tuttavia meno insolita, perché il combattimento unisce e cementa laddove l'inazione disgrega.

Prigionieri
Uno dopo l'altro uscirono da dietro la traversa e gettarono le armi; avevamo i fucili e le pistole minacciosamente puntati su di loro. Erano giovanissimi e molto robusti; tutti con uniformi nuove. Li feci passare davanti a me intimando: "Hands down!" e incaricai quindi alcuni uomini di portarli indietro verso la nostra posizione. La maggior parte mostrava, con un fiducioso sorriso, di non temere alcuna atrocità da parte nostra.

La febbre spagnola
il battaglione che avrebbe dovuto darci il cambio era stato quasi interamente messo fuori combattimento dalla febbre spagnola. Anche fra i miei uomini, ogni giorno parecchi marcavano visita. Nella divisione schierata sul nostro fianco, quella febbre decimò gli effettivi al punto che un aviatore nemico poté lanciare manifestini nei quali si diceva che gli inglesi stessi si sarebbero incaricati del cambio se quell'unità non fosse stata ritirata dal fronte. Comunque appurammo che anche tra le linee nemiche l'epidemia si diffondeva rapidamente.

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domenica 19 aprile 2020

Fedone / Platone

Fedone / Platone ; introduzione, premessa al testo e note di Alessandro Lami ; traduzione di Pierangiolo Fabrini. - Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1999. - 400 p. ; 18 cm.


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lunedì 13 aprile 2020

Una separazione : romanzo / Katie Kitamura

Una separazione : romanzo / Katie Kitamura ; traduzione di Costanza Prinetti. - Torino : Bollati Boringhieri, 2017 (Varianti). - 189 p. ; 21 cm.

Incipit
"Cominciò tutto con una telefonata di Isabella. Voleva sapere dove fosse Christopher, e con grande imbarazzo fui costretta a dirle che non lo sapevo. Dovette sembrarle incredibile. Non le dissi che Christopher e io ci eravamo separati sei mesi prima, e che non sentivo suo figlio da quasi un mese.
Di conseguenza trovò incomprensibile il fatto che non sapessi cosa risponderle. La sua reazione fu fulminea ma non del tutto sorpresa, il che peggiorò la situazione. Mi sentii umiliata e a disagio, due sensazioni che hanno sempre caratterizzato il mio rapporto con Isabella e Mark. Questo nonostante Christopher mi avesse detto spesso che il sentimento era reciproco, che avrei dovuto essere meno riservata, perché il mio atteggiamento veniva facilmente scambiato per arroganza.
Non sapevo, mi chiedeva, che alcuni mi consideravano una snob? No. Il nostro matrimonio si basava sulle cose che Christopher sapeva e quelle che io ignoravo. Non era una semplice questione di intelletto, anche se da quel punto di vista Christopher, senza dubbio intelligente, era comunque in vantaggio. Era una questione di cose non dette, di informazioni che lui aveva e io no. In breve, era una questione di infedeltà – il tradimento prevede sempre che un partner sappia e che l’altro rimanga all’oscuro.
Il nostro matrimonio, però, non era fallito per questo. Era stato un processo lento, anche dopo la decisione di separarci: c’erano aspetti pratici, smantellare la struttura di un matrimonio non era cosa da poco. La prospettiva era così scoraggiante che cominciai a chiedermi se uno di noi ci stesse ripensando, se ci fosse qualche esitazione sepolta sotto tutta quella burocrazia, celata dai mucchi di carte e moduli online che evitavamo con tanta diligenza".

Psicologia e linguaggio dei bambini
Da bambini le parole non hanno peso – gridiamo ti odio e non significa nulla, lo stesso vale per ti amo – ma da grandi usiamo quelle stesse parole con molta più attenzione, non ci escono più di bocca con la stessa facilità. Lo voglio è un altro esempio, una frase che nell’infanzia fa solo parte di una recita, di un gioco tra bambini, ma che da grandi si carica di significato.

Matrimonio: il potere della parola
Ricordo che rimasi sorpresa dal potere del rito, dell’atto cerimoniale di pronunciare quelle parole, che assunsero un significato profondo, quasi eccessivo. Ebbe improvvisamente senso che Lo voglio venisse abbinato all’arcaico e insensato Finché morte non ci separi, frase morbosa e un po’ fuori luogo in quello che doveva essere un evento gioioso, ma dal proposito preciso: ricordare ai partecipanti la folle scommessa che la coppia stava facendo con quella mossa, il matrimonio.

Separazione
Prima o poi la paura e il dolore spariscono rimpiazzati da un totale disinteresse, l’avrei incontrato per caso in strada e sarebbe stato come vedere una vecchia fotografia di me stessa: avrei riconosciuto la figura, ma non sarei riuscita a ricordare bene come fosse essere quella persona.

Immaginare
L’avrebbe fatta fantasticare su un futuro, un matrimonio, una vita insieme a Christopher? Dopotutto immaginare non costa niente, è vivere, la parte più difficile.

Morti e sopravvissuti
C’era qualcosa di egocentrico non solo nel lutto di Isabella, ma nel lutto in generale, che alla fine riguarda non i morti, ma chi sopravvive. Quello che avviene è un atto di consegna: i morti diventano immobili, le loro vite interiori non sono più l’insondabile e insolubile mistero che erano o che potevano essere, in un certo senso i loro segreti non ci interessano più.

A un certo punto, se dovessimo imbatterci nel diario con i pensieri più intimi di un morto, ci tratterremmo dal leggerli, la maggior parte di noi non lo aprirebbe nemmeno e lo rimetterebbe al suo posto, anche solo guardarlo sarebbe insostenibile. È così, pensai, che trasformiamo i morti in fantasmi.


Considerazioni: è ambientato in Grecia, esattamente nel Mani, ma c'è poca Grecia nel racconto. Il tema principale è l'ambiguità in cui si trova la protagonista tra un matrimonio la cui fine non è ufficializzata e il rapporto che la morte del marito costringe a tenere con i genitori ignari di lui, che la raggiungono in Grecia. La morte violenta del marito, non ancora ex, la tiene in una specie di limbo tra moglie e vedova (per gli altri) ed ex moglie (solo per lei).

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venerdì 3 aprile 2020

Gente del Wyoming / E. Annie Proulx

Gente del Wyoming / E. Annie Proulx ; traduzione di Mariapaola Dettore. - Milano : Baldini & Castoldi, 1999 (Romanzi e racconti ; 154). - 52 p. ; 19 cm. - ISBN: 9788880896067.

Incipit:
"Provenivano da due piccole, misere fattorie agli angoli opposti dello Stato: Jack Twist da Lightning Flat, su a nord, a ridosso del Montana; Ennis del Mar dai dintorni di Sage, presso il confine con lo Utah; entrambi ragazzi di campagna che avevano lasciato la scuola alle superiori, senza prospettive, rotti al lavoro duro e alle privazioni, entrambi zotici di modi e di linguaggio, abituati a far vita spartana. Ennis - allevato dal fratello e le sorelle maggiori da quando i genitori erano finiti fuori strada nell'unica curva della Dead Horse Road, lasciando ventiquattro dollari in contanti e un ranch gravato da due ipoteche a quattordici anni aveva ottenuto una patente speciale per poter frequentare le superiori, a un'ora di viaggio dal ranch. Il furgoncino era vecchio, senza riscaldamento, con un solo tergicristallo e pneumatici malridotti; quando il cambio partì, non c'erano quattrini per rimetterlo in sesto. A lui sarebbe piaciuto diventare un sophomore, sentiva un che di distinto in quel termine, ma il furgoncino si bloccò poco prima di portarcelo scaricandolo direttamente nel lavoro del ranch.
Nel 1963, quando incontrò Jack Twist, Ennis era fidanzato con Alma Beers.
Tutti e due, Jack ed Ennis, dicevano che stavano mettendo da parte quattrini per comperarsi un pezzetto di terra: nel caso di Ennis i risparmi erano rappresentati da una scatola da tabacco con dentro due biglietti da cinque dollari. Quella primavera, famelici di lavoro, si erano iscritti all'Ufficio collocamento per lavori agricoli e si trovarono accoppiati sulla carta come pecoraio e addetto al campo per lo stesso incarico stagionale, a nord di Signal. La zona di pascolo era su Brokeback Mountain, al di sopra dalla fascia boschiva: territorio di competenza del Servizio forestale. Per Jack Twist sarebbe stata la seconda estate su in montagna. Per Ennis, la prima."

FinaleRestava uno spazio vuoto tra ciò che sapeva e ciò che voleva credere, ma non ci poteva far niente, e se non la puoi risolvere devi prenderla com'è.

Link:
it.wikipedia.org
leggoquandovoglio.it
en.wikipedia.org/wiki/Brokeback_Mountain



martedì 24 marzo 2020

Le cose crollano / Chinua Achebe


Le cose crollano / Chinua Achebe ; traduzione di Alberto Pezzotta. - 
Milano : La nave di Teseo, 2016 (Oceani, 7). - 202 p. ; 22 cm. - ISBN: 978-88-93440-33-2.


Incipit:
Okonkwo era ben conosciuto nei nove villaggi e anche oltre. La sua fama si basava su imprese indiscutibili. A diciotto anni aveva procurato onore al suo villaggio sconfiggendo Amalinze il Gatto. Amalinze era un grande lottatore e non perdeva da sette anni, da Umuofia a Mbaino. Il soprannome di Gatto si doveva al fatto di non toccare mai terra con la schiena. Fu questo l’uomo che Okonkwo sconfisse, alla fine di una lotta così feroce, a detta degli anziani, come non se ne vedevano da quando il fondatore del villaggio aveva combattuto con uno spirito della foresta per sette giorni e sette notti.
Gli spettatori trattenevano il respiro al suono dei tamburi e al canto dei flauti. Amalinze possedeva esperienza e astuzia, ma Okonkwo sgusciava come un pesce nell’acqua. Muscoli e nervi sporgevano sulle loro braccia, schiene e gambe, e quasi si sentivano tendere fino a spezzarsi. Alla fine Okonkwo buttò a terra il Gatto.
Era successo molti anni prima, venti o più. Da allora la fama di Okonkwo era cresciuta come l’incendio di una foresta quando soffia l’harmattan. Era un uomo alto e imponente; le sopracciglia folte e il naso largo gli davano un aspetto duro. Respirava pesantemente, e si diceva che quando dormiva mogli e figli potevano sentirlo dalle loro capanne.

Trama
Okonkwo è un guerriero, un lottatore, un uomo ambizioso e rispettato che sogna di divenire leader indiscusso del suo clan. Dal suo villaggio Ibo, in Nigeria, la fama di Okonkwo si è diffusa come un incendio in tutto il continente. Ma Okonkwo ha anche un carattere fiero, ostinato: non vuole essere come suo padre, molle e sentimentale, lui è deciso a non mostrare mai alcuna debolezza, alcuna emozione, se non attraverso l’uso della forza. Quando la sua comunità è costretta a fronteggiare l’irruzione degli europei, l’ordine delle cose in cui Okonkwo è nato e cresciuto comincia a crollare, e la sua reazione sarà solo il principio di una parabola che lo porterà nella polvere: da guerriero temuto e venerato, a eroe sconfitto, oltraggiato.
Le cose crollano, il primo libro della trilogia che ha consegnato Chinua Achebe alla fama internazionale – in corso di pubblicazione presso La nave di Teseo in una nuova traduzione – è unanimemente considerato il suo capolavoro, capace di intrecciare nella stessa vicenda due storie diverse: quella personale di Okonkwo e quella più ampia dello scontro fra due religioni e civiltà. Nella scrittura di Achebe, interprete di una grande tradizione letteraria, i conflitti ancestrali fra individuo e comunità dialogano con i percorsi accidentati della storia, le cui conseguenze investono ancora il mondo in cui viviamo.

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venerdì 6 marzo 2020

Cratilo / Platone

Cratilo / Platone ; introduzione e note di Caterina Licciardi ; traduzione di Emidio Martini. - Milano : Biblioteca universale Rizzoli, 1996 (Bur ; 717). - 260 p. ; 18 cm

Socrate incontra Ermogene e Cratilo, che stanno discutendo attorno al problema della correttezza dei nomi e viene messo a parte da Ermogene delle teorie di cui sono sostenitori. Cratilo afferma infatti che i nomi sono per natura, ossia rispecchiano realmente la realtà; Ermogene crede invece che i nomi siano arbitrari, decisi dall'uso e dalla convenzione.


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www.ousia.it Testo in pdf
btfp.sp.unipi.it/dida/cratilo
www.docsity.com
athenaenoctua2013


venerdì 28 febbraio 2020

Tutto quel che è la vita / James Salter

Tutto quel che è la vita / James Salter ; traduzione di Katia Bagnoli. - Parma : Guanda, 2014 (Narratori della Fenice). - 349 p. ; 22 cm. - 978-88-235-0659-6.

Trama
Nel 1944, alla vigilia di uno degli scontri navali decisivi per la risoluzione del secondo conflitto mondiale, Philip Bowman è un sottotenente della Marina militare americana di stanza nel Pacifico. È l'esordio avventuroso di una vicenda umana che si dipana per quarant'anni, in una sorprendente ricchezza di scenari, incontri ed esperienze. Dal Giappone a New York, dove Bowman diventa editor in una piccola casa editrice; alla Virginia delle grandi proprietà terriere e delle vecchie tradizioni; a Londra, cuore pulsante di una «geografia editoriale» fatta di contatti e affinità personali; alla Spagna, teatro di una esaltante passione amorosa. A scandire il racconto, una galleria di ritratti femminili cui corrispondono altrettanti modi di intendere e vivere l'amore in tutte le sue sfaccettature e le sue insidie. Perché questa è, più di ogni altra cosa, la cronaca di una lunga e intensa vicenda sentimentale nella quale si affacciano molte donne e molti amori. Sullo sfondo il tributo ai libri, non privo di ironia, ai loro autori dagli alterni talenti e fortune, alle consuetudini di un mondo editoriale d'altri tempi. Volti, indumenti, scorci di paesaggio rubati dal finestrino di un'auto, di un aereo o di un treno, incroci di sguardi, aspettative, tradimenti, fantasie: quel che conta nella vita, quel che resta o vorremmo restasse quando ci guardiamo indietro, e che solo la scrittura, forse, può salvare, fissandolo nel flusso impercettibile e implacabile dei giorni.

Incipit:

L'acqua correva veloce nella lunga notte buia.
Due metri sottocoperta, livelli su livelli di cuccette di ferro dove giacevano silenziosi centinaia di uomini, supini, con gli occhi ancora aperti, benché fosse quasi mattina. Le luci erano basse, i motori pulsavano senza sosta, i ventilatori aspiravano l'aria umida; i millecinquecento uomini con i loro zaini e le loro armi, pesanti quanto bastava per trascinarli a fondo come un'incudine caduta nell'oceano, facevano parte del vasto esercito che navigava verso Okinawa, la grande isola a sud del Giappone. In realtà Okinawa apparteneva al Giappone, l'arcipelago ignoto e misterioso. La guerra che si combatteva da tre anni e mezzo era giunta all'ultimo atto. Entro mezz'ora i primi gruppi di uomini si sarebbero messi in fila per la colazione, da consumare in piedi, stretti l'uno all'altro, solenni, muti. La nave scivolava sull'acqua con un rumore lieve. L'acciaio dello scafo cigolava.
La guerra nel Pacifico era diversa da quella che si combatteva altrove. Intanto per le distanze, enormi. Giorni e giorni di oceano sconfinato e località dai nomi strani, distanti migliaia di miglia. Una guerra fatta di isole strappate ai giapponesi una a una. Guadalcanal, poi diventata leggendaria. Le isole Salomone e New Georgia Sound, «The Slot». Tarawa, dove i mezzi da sbarco approdarono sugli scogli, lontano dalla spiaggia, e gli uomini vennero massacrati dal fuoco nemico, fitto come uno sciame d'api, l'orrore delle spiagge, i corpi gonfi dei figli della nazione che venivano a galla, alcuni di loro bellissimi.

Morte
E di fronte alla morte, come diceva Lorca, non esiste consolazione, anche per questo la vita è tanto bella.

Vecchiaia
La vecchiaia non arriva lentamente, viene all'improvviso. Un giorno tutto è come sempre, una settimana più tardi tutto è cambiato. Una settimana è persino troppo, a volte capita nel giro di una notte. Sei lo stesso, sei sempre lo stesso e improvvisamente un mattino scopri che agli angoli della bocca sono apparse due linee nette, inestirpabili.

Venezia
"Non sono mai stata a Venezia", disse Ann. "Davvero?", "Davvero, non ci sono mai stata". "Il periodo migliore è gennaio. Non c'è ressa. E non dimenticare di portare una torcia per vedere i quadri. Sono tutti in chiese mal illuminate. Se metti una moneta si accende una luce, ma dura non più di quindici secondi. La luce te la devi portare tu. Inoltre, non scegliere un albergo alla Giudecca. E' troppo lontana da tutto. Se ci vai, fammelo sapere, e ti dirò cosa vedere. Il cimitero è la cosa più bella, la tomba di Djagilev".

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sololibri.net
www.ifioridelpeggio


giovedì 27 febbraio 2020

Venezia città delle asimmetrie / Ettore Camuffo

Venezia città delle asimmetrie / Ettore Camuffo. - Venezia : Marsilio, 2019. - 339 p. ; 20 cm.

Interessante questo modo nuovo di guardare Venezia. La bellezza della città  dipende anche dal fatto di essere asimmetrica, in primo luogo nell'architettura. Se guardiamo le case che si susseguono, come una quinta teatrale, sul Canal grande, ad esempio, troviamo molte sfasature nell'alternarsi di case signorili e case più modeste, nelle diverse altezze, nel numero delle finestre dei diversi piani, nell'alternarsi di stili differenti.
Altre asimmetrie derivano dal fatto che una città di mare dipendesse dal legname dei boschi delle montagne del Cadore e del Cansiglio, portato in laguna dopo un lungo viaggio sui fiumi e poi con le zattere.
Infine, l'asimmetria evidente della gondola, una barca con un fianco più lungo dell'altro che la rende sbilanciata, ma tuttavia perfettamente manovrabile grazie all'abilità dei gondolieri.

Senso di precarietà, lentezza e indecisione
Chi soggiorna a Venezia percepisce la frequente lentezza e indecisione dei veneziani. I veneziani restano isolani, esprimono un senso di precarietà e d'incertezza che molti hanno confuso con l'aleggiare in città di uno spirito di morte e di tristezza che invece è coscienza del provvisorio e dell'incertezza delle vite e delle cose.

Senso di caducità e fiducia nell'operare umano
Due sentimenti compresenti: senso di caducità dei tempi me, allo stesso tempo, la fiducia che deriva da ciò che uomini concreti hanno saputo fare. Va ricordato che Venezia non sarebbe mai esistita senza l'intervento umano che ha deviato la foce dei fiumi, perché non si interrasse completamente.

Una città senza mura
Un'altra asimmetria: contrariamente alle altre città del Medioevo, dotate di fortificazioni, Venezia è una città senza mura. La sua difesa è la laguna stessa.

Pietre e legno
Venezia ha un suo gigantesco doppio nel proprio sottosuolo costituito da decine di migliaia di alberi infissi nel fango a consolidarlo, migliaia di zatteroni di travi a rendere edificabile un terreno strutturalmente instabile.
Una città che si mostra nella bellezza delle sue pietre e dei suoi marmi, mentre nasconde un'anima impensabile creata dalla presenza d'intere foreste.
Altro legno era necessario alla cantieristica navale, per il riscaldamento, per la segnaletica lagunare ecc.
Alla fine del Settecento ogni anno Venezia consumava 300-350.000 tronchi.

La segheria veneziana
Nelle segherie dell'area del Piave, dove si preparavano i tronchi da mandare in Laguna, fu adottata la cosiddetta "segheria veneziana" (poi diffusa anche in Trentino e in Tirolo): un sistema inventato e praticato a Venezia, perfezionato da Leonardo da Vinci, che utilizzava la forza idraulica (sega a biella e manovella).
Una città di mare ha rivoluzionato il processo produttivo di una risorsa, il legno, tipica delle aree montane.

Navi che attraversano le montagne
Nella guerra contro i Visconti di Milano, tra il 1425 e il 1454, vi fu un episodio di trasferimento  di galee veneziane per montes fino al Lago di Garda: lungo l'Adige fino a Mori e poi attraversando le falde del Baldo per 20 km fino a Torbole.

La gondola
Il colore nero viene imposto nel Sei-Settecento per evitare eccessi di lusso da parte dei nobili ("niun barcarol ardischa vogar le gondole troppo riccamente ornate sotto pena di pregion, gallea et altro").
Il felze era l'abitacolo che proteggeva i passeggeri, una copertura analoga a quella delle carrozze.
La forcola è una struttura in legno, che assunse diverse forme, dove si appoggia il remo per effettuare le diverse manovre (8 tipi di manovre, a seconda delle posizioni in cui si appoggia il remo).
La gondola è costituita da 280 pezzi diversi, ricavati da 8 tipi di legno.

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ilfoglio.it/cultura

martedì 25 febbraio 2020

Sessantotto / Francesca Socrate

Sessantotto. Due generazioni / Francesca Socrate. - Bari : Laterza, 2018 (Quadrante Laterza, 215). - XXIV, 261 p. ; 20 cm.

Il libro analizza, attraverso numerose interviste, il linguaggio delle "due generazioni" del '68, mettendo in rilievo le differenze tra la prima generazione, quella dei più vecchi, nati tra il 1940 e il 1945 e la seconda generazione, quella dei nati tra il 1945 e il 1950. Mentre la prima arriva al '68 già in parte politicizzata, la seconda è una generazione "vergine", senza precedenti legami con la politica.

Prima del '68, si assiste ad un calo della partecipazione alle organizzazioni giovanili dei partiti da parte della seconda generazione, testimonianza di una generale disaffezione dei più giovani verso la politica.

La seconda generazione è più disponibile agli scontri di piazza, rispetto alla prima. Inoltre è nella seconda generazione che si affaccia la partecipazione delle ragazze.

Il salto avviene nel 1967, l'anno del Vietnam: la manifestazione diventa lo strumento e il luogo nel quale esprimersi, ed è lì che si consuma la rottura con la sinistra tradizionale e il mondo morale interpretato dai fratelli maggiori.

La prima generazione nelle interviste parla in terza persona (presa di distanza), con forme verbali legate alla storia, oggettivizzanti, con meno riferimenti al privato. Prevale il "noi", cioè un soggetto collettivo

Aumenta la partecipazione delle ragazze: già nella primavera del '68 nelle foto dei cortei e le ragazze sfilano indossando i primi pantaloni. Ma la fisionomia della leadership cambia poco rispetto ai partiti della sinistra tradizionale. Nelle interviste delle donne, prevale il condizionale alla prima persona e l'avverbio "forse".  Nelle donne del '68 ci sono anche forme di ribellione e di rottura verso la famiglia e i suoi valori, espresse nella frequenza delle negazioni.

I leader: sono indiscutibilmente altro, contrapposti, oppressivi o pericolosi, comunque carismatici la contrapposizione ai maschi si circoscrive soprattutto come contrapposizione ai leader.

La società pre '68 appariva statica, immobile ai giovani, per cui si manifesta un desiderio di cambiamento, spesso confuso ("desiderio di libertà", "ribellione", "desiderio di libertà").

Si scandivano slogan a cui non si credeva.

Lettera ad una professoressa fu all'epoca il testo di riferimento.

Punti cardinali della ribellione studentesca la costellazione teorica del movimento:
1) Il rifiuto dell'idea di rappresentanza su cui si reggeva il sistema degli organismi rappresentativi universitari. Il movimento si impone eliminandoli, o cercando di eliminarli dalla scena.
2) Rifiuto della delega che il movimento afferma il nome di una democrazia radicale: l'assemblea generale è sovrana e la sua prima espressione, per essere poi affiancata, verso la primavera del 1968
da nuovi strumenti intermedi di democrazia diretta.
3) L'attacco il principio di autorità che regola tutte le relazioni sociali sarà il terzo cardine del discorso del 68.

La strage di piazza Fontana è un punto di rottura e segna il confine tra un '68 ancora vergine e creativo e un dopo più ideologizzato.

In alcune interviste, nelle quali mi ritrovo, emerge questa contrapposizione tra un '68 iniziale, creativo, liberatorio ed uno successivo tutto politico e ideologico:

Marina Bianchi (nata nel 1947, il '68 a Roma):
 Adesso come penso subito associo il 68 a questa dimensione liberatoria. E quindi per me è stato anche un periodo felice, quindi io ho un ricordo molto positivo, cioè mi sono proprio pure divertita [ride] Quindi era un momento, certo, irripetibile in cui questa forma di emancipazione non era fatta in solitudine, ma era un elemento corale e quindi si facevano le amicizie, c'erano questi luoghi sociali di incontro, e quindi ... io sì effettivamente poi mi divertivo pure. Poi forse con la formazione dei gruppi la cosa si è un po' ... è tornata indietro perché lì è viceversa, non poteva forse essere altrimenti, perché questo stato di continua ... agitazione e coralità, per cui stavamo sempre in piazza e così, cioè nelle strade e così via, non poteva durare all'infinito; però nei gruppi poi è prevalso l'elemento ideologico e con l'elemento ideologico io mi so' continuata ..., ho cominciato a non divertirmi più, era diventato molto un dovere.

A una fase Iniziale, esplosiva, ribelle e felice, segue la perdita, segnata dal ritorno della vecchia politica, anche se nella nuova veste dei gruppi. E sono i gruppi, o sono il leader che parlano il linguaggio antico ed elitario delle contrapposizioni ideologiche, sono gli interpreti della vecchia politica insomma a mettere fine a quel movimento fatto di una comunità aperta e inclusiva, del protagonismo delle assemblee generali, dell'azione diretta, quel movimento fatto di una pratica di democrazia radicale, dell'azzeramento del principio di autorità, dell'abolizione di ogni distanza, di un privato che finalmente ha conquistato il diritto di imporsi come pubblico.

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www.corriere.it/cultura
leparoleelecose.it
temi.repubblica.it







lunedì 24 febbraio 2020

La settimana bianca / Emmanuel Carrere

La settimana bianca / Emmanuel Carrere ; traduzione di Maurizia Balmelli. - Milano : Adelphi, 2014 (Fabula ; 272) 139 p. ; 22 cm.

Incipit
"In seguito Nicolas cercò a lungo, ancora oggi cerca, di ricordarsi le ultime parole che gli aveva rivolto suo padre. L’aveva salutato sulla porta dello chalet, gli aveva nuovamente raccomandato di fare attenzione, ma Nicolas era così imbarazzato dalla sua presenza, così ansioso di vederlo andar via che non era stato a sentire. Non gli perdonava di essere lì, di attirare sguardi che immaginava ironici, e si era sottratto al suo bacio chinando la testa. Nell’intimità familiare non l’avrebbe passata liscia, ma sapeva che così, davanti a tutti, il padre non avrebbe osato rimproverarlo.
Prima, in macchina, dovevano di sicuro aver parlato. Nicolas, seduto dietro, stentava a farsi sentire per via del rumore del riscaldamento, acceso al massimo per disappannare i vetri. La sua unica preoccupazione era sapere se sulla strada avrebbero trovato un distributore Shell. Per nulla al mondo, quell’inverno, avrebbe permesso che si facesse benzina altrove, perché con i buoni della Shell si vinceva un bambolotto di plastica con il torace che si apriva come il coperchio di una scatola, rivelando scheletro e organi: potevi estrarli e rimetterli a posto, cominciando così a prendere confidenza con l’anatomia del corpo umano"

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domenica 23 febbraio 2020

L’amore prima di noi / Paola Mastrocola

L'amore prima di noi / Paola Mastrocola. - Torino : Einaudi, 2016. - 318 p. ; 22 cm. - 978-88-06-23200-9

Incipit:
"Un giorno Zeus guardava il mondo sotto di sé, e si chiedeva in quale forma bisognasse amare.
Il suo sguardo si era posato per caso su una fanciulla, che si chiamava Europa perché aveva gli occhi grandi; rimase per un bel po’ incantato a guardarla, come se non avesse nient’altro da fare, e soprattutto nessuna fretta.
Zeus è il Tempo. È figlio di Crono, l’unico a essersi salvato da un padre che divorava i figli: Rea glieli passava appena partoriti e lui li ingoiava perché non lo sostituissero nel dominio del mondo. I figli sostituiscono i padri. Rea nascose Zeus, l’ultimo nato, e alle fauci di Crono ingordo offrí una pietra infagottata al posto del bambino. Zeus è dio. Dio è colui che non viene ingoiato dal Tempo.
Quel giorno guardava Europa mentre con le compagne giocava a palla sulla spiaggia, e si chiedeva se per amarla fosse meglio trasformarsi in tigre, in fumo, in scoiattolo, in nuvola, in gabbiano o in sorgente, visto che lui sapeva trasformarsi in tutto.
In quale forma bisogna amare? Questa era la domanda che si faceva Zeus, affacciato in cielo a guardare il mondo".

L’amore è rapimento: Europa, Persefone
L’amore è ombra: Orfeo e Euridice, Pigmalione, Elena, Eco e Narciso
L’amore è fuga: Atalanta, Apollo e Dafne, Aretusa, Pan e Siringa
L’amore è sguardo: Clizia, Atteone, Psiche
L’amore è eccesso: Pasifae, Fedra
L’amore è divieto: Icaro, Adone
L’amore è viaggio: Teseo e Arianna, Giasone e Medea
L’amore è segreto: Selene e Endimione, Ares e Afrodite, Piramo e Tisbe, Ero e Leandro
L’amore è dono: Eos, Cassandra, Alcesti, Calipso

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