martedì 28 aprile 2020

Nelle tempeste d'acciaio / Ernst Jünger

Nelle tempeste d'acciaio / Ernst Jünger ; traduzione di Giorgio Zampaglione ; introduzione di Giorgio Zampa. - Parma : Guanda, 2007 (Biblioteca della Fenice). - XIX, 329 p. ; 22 cm.

Incipit:

"Il treno si fermò a Bazancourt, una cittadina della Champagne. Scendemmo. Con rispettosa incredulità tendemmo l'orecchio al rimbombo lento e ritmato del fronte, simile a quello di un laminatoio, una melodia che poi, per lunghi anni, ci sarebbe stata familiare. Lontano, la nuvola bianca di uno "shrapnel" si dissolveva nel cielo grigio di dicembre. Il respiro della battaglia aleggiava tutt'intorno, mettendo addosso a ognuno un brivido strano. Sapevamo noi allora che quel sordo brontolio dietro l'orizzonte, crescendo fino a diventare tuono ininterrotto, prima uno poi un altro, ci avrebbe inghiottiti quasi tutti?
Avevamo lasciato aule universitarie, banchi di scuola, officine; e poche settimane d'istruzione militare avevano fatto di noi un sol corpo bruciante d'entusiasmo. Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità, tutti sentivamo l'irresistibile attrattiva dell'incognito, il fascino dei grandi pericoli. La guerra ci aveva afferrati come un'ubriacatura. Partiti sotto un diluvio di fiori, eravamo ebbri di rose e di sangue. Non il minimo dubbio che la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini: vivaci combattimenti a colpi di fucile su prati fioriti dove il sangue sarebbe sceso come rugiada. "Non v'è al mondo morte più bella..." cantavamo. Lasciare la monotonia della vita sedentaria e prender parte a quella grande prova. Non chiedevamo altro".


Venti anni!
"l nostro battaglione prese alloggio nella cittadina di Herinnes, in un placido paesaggio fiammingo. Vi festeggiai felicemente, il 29 marzo, il mio ventesimo compleanno. Benché i belgi avessero case molto ampie, la nostra compagnia fu alloggiata in un vasto granaio pieno di correnti d'aria attraverso il quale, nelle rigide notti di marzo, fischiava l'aspro vento marino della regione. A parte ciò, il nostro soggiorno a Herinnes fu abbastanza riposante: molte esercitazioni, certo, ma i rifornimenti, in compenso, erano abbondanti e i viveri a buon mercato.

Trincea conquistata
Al mattino, un benefico tepore giunse col sole che trapassava la fitta nebbia. Dopo un breve sonno nel fondo del fossato, la curiosità mi spinse a ispezionare la trincea isolata che avevamo presa il giorno avanti. Il suolo era tutto coperto di viveri, munizioni, parti d'equipaggiamento, di armi, di lettere e di giornali. I rifugi sembravano botteghe di rigattieri dopo un saccheggio. I corpi dei valorosi difensori erano ancora lì con i fucili appoggiati alle feritoie. Da un'impalcatura di legno, schiantata dalle granate, usciva il tronco di un uomo rimasto conficcato tra i pali. La testa e il collo erano strappati, bianche cartilagini spiccavano sulla carne nero-rossastra. Mi riusciva difficile capire. Un ragazzo giovanissimo giaceva lì vicino, supino, gli occhi vitrei e i pugni irrigiditi nella posizione di mira.

Contrasto orrendo
La triste impressione delle distruzioni rendeva più sensibili l'abbandono e il profondo silenzio, interrotto di tanto in tanto dai colpi sordi dei cannoni. Zaini lacerati, fucili spezzati, brandelli di stoffa e in mezzo, contrasto orrendo, un giocattolo, spolette di granata, profondi imbuti di proiettili esplosi, bottiglie, attrezzi per la mietitura, libri strappati, suppellettile domestica, pertugi il cui buio misterioso rivelava una cantina dove forse i cadaveri degli infelici abitanti erano rosi da bande di ratti frenetici, un piccolo pesco che, privato del muro di sostegno, tendeva supplice le braccia, nelle stalle carcasse di animali ancora attaccati alla catena, tombe nel giardino inselvatichito e in mezzo, appena ravvisabile tra le erbacce, il verde di cipolle, assenzio, rabarbaro, narcisi, sui campi finitimi barche di grano con chicchi in germoglio sulla spiga. E tutto attraversato da una trincea semicrollata, avvolto dal lezzo della decomposizione. Pensieri malinconici investono furtivi il combattente in luoghi come questo, allorché egli pensa a coloro che ancora poco tempo prima lì abitavano, sereni.

Rifugi
Per il riposo sono stati scavati rifugi che, da semplici buche nella terra, sono diventati ambienti ben chiusi, col soffitto sostenuto da travi e con le pareti rivestite di legno. Questi rifugi sono alti presso a poco quanto un uomo e sono scavati tanto in profondità che il loro pavimento si trova allo stesso livello del suolo della trincea. Il soffitto di travi è ricoperto da uno strato di terra abbastanza spesso, capace di resistere ai proiettili di piccolo calibro.

Piccoli corridoi ciechi ad angolo retto si diramavano verso la galleria, formando tutta una serie di piccole celle. Mi installai proprio in una di queste. Se si esclude una stretta branda, una tavola e qualche cassa di munizioni, da usare come sedie, il mobilio non comprendeva altro che qualche oggetto già da molto tempo familiare: una bottiglia di alcool, un candeliere, una gavetta e alcuni effetti personali.

Gallerie
Le gallerie sono puntellate con robusti telai di legno. Il primo di essi, incastrato nella parete anteriore della trincea, al livello del suolo, costituisce l'ingresso della galleria; per ogni telaio successivo si scende di trenta centimetri in profondità, il che permette di giungere rapidamente al riparo. Si costruisce così la scala della galleria; al trentesimo gradino si hanno dunque già nove metri, o, calcolando anche la profondità della trincea, dodici metri di terra sulla testa. Si impiantano quindi telai un po' più larghi nella stessa direzione o ad angolo retto rispetto alla scala; i vani così formati servono da alloggiamento. Collegamenti trasversali creano corridoi sotterranei; ramificazioni, volte in direzione del nemico, diventano cunicoli da ascolto o da mine.

Contatto con la terra
Sarà bene tuttavia non immaginare un'atmosfera troppo romantica; vi regna invece una certa sonnolenza, una pesantezza che nasce dal contatto intimo con la terra.

La giornata in trincea e caccia ai topi
La giornata della trincea comincia al calar della notte. Alle sette un soldato del gruppo mi sveglia dalla siesta pomeridiana fatta in previsione del turno di guardia notturna. Agganciato il cinturone, vi introduco la pistola lancia-razzi e qualche bomba; quindi esco dal più o meno confortevole rifugio. Col primo giro di ronda nel settore noto della mia sezione, mi assicuro che tutte le sentinelle siano al loro posto. A mezza voce ci scambiamo la parola d'ordine. Frattanto è sopraggiunta la notte e i primi razzi si levano, d'argento, mentre occhi vigili scrutano oltre i parapetti. Un topo fa tintinnare i barattoli gettati sulla montagnola di terra alle nostre spalle. Un altro si aggiunge a lui fischiando, e ben presto la notte brulica di ombre furtive uscite dalle cantine in rovina del villaggio o dalle gallerie distrutte. La caccia ai topi offre una magnifica distrazione contro la noia dei turni di guardia. Un pezzetto di pane, sul quale si punta il fucile, funge da esca; oppure si spande nelle tane la polvere tolta ai proiettili inesplosi e vi si dà fuoco. I ratti escono a gran velocità con acuti squittii e col pelo bruciato. Sono creature ripugnanti e non riesco a togliermi di mente la loro segreta attività di divoratori di cadaveri nelle cantine del villaggio.

La pioggia e l'acqua
Spesso piove; si resta allora malinconicamente col bavero del pastrano rialzato sotto la tettoia posta all'ingresso delle gallerie ad ascoltare il battito regolare delle gocce che cadono.

Mentre tentavo di ripescare nella fanghiglia la pistola e l'elmetto, perdetti il tabacco e il pane che vidi andare alla deriva lungo il fossato dove gli altri occupanti si trovavano in altrettanto precarie condizioni. Tremanti, gelati, senza un solo filo di stoffa asciutto addosso, restammo in piedi, sicuri di essere falciati, al prossimo bombardamento, non disponendo della benché minima protezione in mezzo ai detriti della strada. Fu una mattinata penosa. Mi resi conto che nessuna artiglieria è capace di fiaccare la volontà di resistenza tanto radicalmente quanto il freddo e l'umidità.

Nostalgia della pace e della casa
I pensieri vagano. Si guarda la luna e si pensa ai bei giorni tranquilli di casa o alla grande città, indietro, lontano, dove gli abitanti escono a quell'ora dai caffè e dove tanti fanali brillano sul traffico notturno del centro. Si ha l'impressione di averle sognate, queste cose, in un tempo incredibilmente lontano.

Così, un giorno, il portaordini che andava in licenza, ci salutò con queste parole: "Ragazzi, che cosa meravigliosa ritrovarsi la prima notte nel letto di casa con la propria donna che ti si stringe contro!"

Rapporti con il nemico
In alcuni punti della posizione, per esempio alla testa della trincea, le sentinelle delle due parti distano appena trenta passi l'una dall'altra. Si stringono a volte relazioni personali; si riconosce Fritz, Wilhelm o Tommy dal loro modo di tossire, di fischiare o di cantare. Brevi richiami, che non mancano di un certo umorismo primitivo, volano da una linea all'altra.
"Ehi, Tommy, sei ancora lì?"
"Certo!"
"Allora abbassa la testa, perché sparo!"

Gli occupanti delle trincee di tutti e due i campi, spinti dal fango sui rispettivi parapetti, avevano iniziato, tra le reti di filo spinato, animati scambi di acquavite, di sigarette, di bottoni d'uniforme e di altri oggetti. La folla degli uomini in uniformi color kaki usciti dalle linee inglesi, fin allora deserte, era stupefacente quanto può esserlo l'apparizione di un fantasma in pieno mezzogiorno.

Cominciammo a parlamentare in inglese, poi, più correntemente, in francese, mentre tutt'intorno i soldati ascoltavano. Feci le mie rimostranze per l'uccisione di uno dei nostri colpito da un proiettile sparato a tradimento, al che l'inglese rispose che non la sua, ma la compagnia a fianco ne era responsabile. "Il y a des cochons aussi chez vous!" notò quello, quando qualche proiettile partito dal settore vicino crepitò non lontano dalla sua testa, mentre io cercavo di ripararmi alla meglio. Continuammo tuttavia ancora a parlare con un tono che esprimeva una certa stima sportiva e infine ci saremmo volentieri scambiati qualche ricordo.

Durante la guerra mi sforzai sempre di considerare l'avversario senza odio, di apprezzarlo secondo la misura del suo coraggio. In battaglia cercai di individuarlo per ucciderlo, senza attendere da lui cosa diversa. Mai però che ne abbia pensato male. Quando, in seguito, mi caddero in mano dei prigionieri, mi sentii responsabile della loro sicurezza e cercai di fare per loro quanto era in mio potere.

Alla mia domanda: "Quelle nation?" uno rispose: "Pauvre Radschput!". Avevamo dunque davanti a noi degli indiani venuti d'oltre mare a spaccarsi la testa in quest'angolo sperduto del mondo contro un gruppo di fucilieri di Hannover.

Giaceva là, coi tratti del viso distesi. Mi sforzai di guardarlo negli occhi. Ora non si poneva più la questione: tu o io. Sono tornato spesso col pensiero a quel morto, e sempre più frequentemente di anno in anno. Lo stato che ci solleva dalla responsabilità, non ci può liberare dalla tristezza; la dobbiamo sopportare fino in fondo, sin nelle profondità dei nostri sogni.

Sonno
... mi allungo sulla branda, con la coperta tirata fin sulla testa, per schiacciare, come si suol dire, un sonnellino di quattro ore. Fuori i proiettili scoppiano con regolare monotonia sulle nostre difese; un topo mi passa sul viso e sulle mani senza turbare il mio sonno.

Saper fare tutti i lavori
Siamo autentici tuttofare: la trincea ci impone ogni giorno le sue mille esigenze. Scaviamo profonde gallerie, costruiamo ricoveri e sostegni di cemento, prepariamo ostacoli di fili spinati, creiamo impianti per lo scolo delle acque, ci improvvisiamo carpentieri, puntelliamo, livelliamo, alziamo e abbassiamo pendenze, colmiamo latrine; in breve, esercitiamo, senza l'aiuto di nessuno, tutti i mestieri.
E perché no, dopo tutto, se ogni classe sociale e ogni professione hanno qui tra noi i loro rappresentanti?

Bei momenti
Anche in trincea, tuttavia, si vivevano a volte dei bei momenti. Spesso stavo seduto, con un senso di voluttuosa sicurezza, accanto alla tavola del mio piccolo rifugio le cui pareti, coperte di tavole grezze, con le armi appese, mi ricordavano il Far West; una tazza di tè, un giornale, una sigaretta, mentre l'attendente si affaccendava davanti a una piccola stufa che riempiva l'aria di un odore di pane tostato. Quale combattente di trincea non conosce questo particolare stato d'animo?

Quando il trattamento era buono, mangiavamo aringhe con patate lesse al burro: un pasto delizioso. Queste ore di benessere compensano, nel ricordo, le tante ore di sangue, di sporco e di lavoro. Esse non sarebbero altrimenti concepibili se non in quel lungo periodo della guerra di posizione, durante il quale ci eravamo adattati completamente gli uni agli altri e avevamo preso abitudini quasi pacifiche.

Le libagioni fra i sopravvissuti di una battaglia restano tra i più bei ricordi di un veterano del fronte. Anche quando ne cadevano dieci su dodici, i due scampati si ritrovavano davanti a una bottiglia la prima sera di riposo, vuotavano un bicchiere in silenzio alla memoria dei camerati scomparsi e discutevano poi piacevolmente delle loro comuni esperienze. In quegli uomini c'era qualcosa di vivo che cancellava l'asprezza della guerra e spiritualizzava la voluttà del pericolo e il desiderio cavalleresco di vincere la propria battaglia.

Il 20 occupammo, come compagnia di riserva, la posizione Siegfried. Furono giorni di vera vacanza: tutte le ore sotto i numerosi pergolati disposti lungo i pendii, o al bagno, o in barca sul canale. Proprio in quel periodo, disteso sull'erba, lessi con infinito piacere tutto quanto l'Ariosto.

Caccia
Tra i divertimenti che questa posizione offre, vi è altresì la caccia a ogni specie di animali e particolarmente alle pernici che animano in gran numero i campi abbandonati intorno alle trincee. In mancanza di fucili da caccia siamo costretti ad avvicinarci il più possibile ai 'candidati alla padella' per decapitarli con un colpo; altrimenti rimarrebbe poca cosa per l'arrosto. Tuttavia bisogna guardarsi dall'uscire dal fossato nell'ardore della caccia, altrimenti da cacciatori si rischia di diventare preda, sotto il fuoco delle trincee avversarie.

Retrovie
Le frequenti visite alle organizzazioni delle retrovie, la maggior parte delle quali improvvisate sul posto, diedero, a chi come noi era abituato a considerare con sufficienza tutto quanto si trovava dietro la prima linea, un'idea dell'immenso lavoro che si svolgeva lì. Così, visitammo i macelli, il magazzino viveri e l'officina di riparazione per le artiglierie a Boyelles, la segheria e il parco del genio nella foresta di Boulon, il caseificio, l'allevamento di suini e i laboratori per l'utilizzazione delle carcasse di animali a Inchy, il campo d'aviazione e la panetteria a Quéant. La domenica ci si recava nelle vicine città di Cambrai, di Douai e di Valenciennes "per rivedere", dicevamo, donne in cappello.

Il mio alloggio era confortevole; i miei ospiti, una coppia di gioiellieri molto cordiali, i Plancot-Bourlon, non facevano quasi mai passare una colazione senza mandare in camera mia qualche boccone prelibato. Trascorrevamo le serate insieme davanti a una tazza di tè, giocando a trio trac e chiacchierando.

Gas
Contemporaneamente, Paulicke, il mio attendente, apparve sull'ingresso del rifugio urlando: "Attento ai gas!"

Afferrai in fretta la maschera, mi infilai gli stivali, agganciai il cinturone, uscii di corsa e vidi oltre la trincea un'enorme nuvola di gas che avanzava bianca e spessa sopra Monchy e che, spinta da un debole vento, si avvicinava a Quota centoventiquattro.
Poiché il mio plotone si trovava quasi tutto in linea e un attacco sembrava probabile, non c'era assolutamente tempo da perdere a riflettere. Saltai i reticolati della seconda linea, corsi in avanti e mi trovai ben presto in mezzo alla nuvola di gas. Un acre odore di cloro mi convinse che non si trattava, come in un primo momento avevo creduto, di nebbia artificiale, ma proprio di gas da combattimento.

Seppellire i morti
Il primo luglio ci fu affidato il triste compito di seppellire nel cimitero una parte dei nostri morti. Trentanove bare di legno, sulle cui rozze assi erano stati scritti col lapis i nomi, furono calate, l'una dopo l'altra, nella fossa. Il cappellano tenne un discorso sul tema: "Hanno combattuto la giusta battaglia" cominciando con queste parole: "Gibilterra, questo è il vostro simbolo, e in verità voi avete resistito come lo scoglio resiste alla risacca!"

Dalle carte dell'ufficiale apprendemmo che si chiamava Stokes e apparteneva al Secondo reggimento fucilieri "Royal Munster". Era molto ben vestito e il suo viso, nonostante la convulsione dell'agonia, aveva tratti intelligenti ed energici. Il suo taccuino personale conteneva un numero enorme di indirizzi di donne a Londra: questo particolare mi commosse. Lo seppellimmo dietro la nostra trincea. Sulla tomba piantammo una croce senza alcun ornamento, ma sulla quale feci scrivere il suo nome adoperando una serie di chiodi da scarpe.

Colpi di mano
Questi brevi colpi di mano durante i quali bisognava veramente stringere i denti erano un ottimo mezzo per tener desto il coraggio ed evitare la monotonia della vita di trincea. Prima di tutto è necessario che il soldato non si annoi.

Camminare sui morti
Si avanzava sempre, gli occhi fissi sull'uomo che era davanti, lungo un fossato che ci arrivava appena al ginocchio, costituito da una catena di enormi imbuti dove i morti si susseguivano in fila. Il piede calpestava con disgusto i corpi flaccidi che cedevano sotto il nostro peso; l'oscurità copriva le loro forme. Il ferito che cadeva lungo il cammino era ugualmente destinato a essere calpestato dagli stivali di quelli che proseguivano in fretta la loro strada.

La strada e il terreno retrostante erano coperti di tedeschi, il terreno antistante di inglesi. Braccia, gambe, teste fuoriuscivano dalla scarpata; davanti alle nostre tane membra strappate e corpi sui quali a volte erano stati gettati, per evitare un continuo spettacolo di facce sfigurate, cappotti o teli da tenda. Nonostante il calore nessuno si sognava di ricoprire di terra i cadaveri.

Palloni frenati
Mentre neppure un pallone frenato si mostrava dal lato nostro, più di trenta, sopra le linee avversarie, legati insieme in un grosso grappolo di color giallo brillante, osservavano con occhio penetrante ogni movimento sul terreno bombardato, per rovesciarvi immediatamente una grandine di ferro.

Feriti
Nella chiesa di Fins si trovavano centinaia di feriti. Un'infermiera mi raccontò che nelle ultime settimane vi erano stati nutriti e medicati più di trentamila uomini. Di fronte a tale cifra mi sentii davvero una nullità col mio colpetto alla gamba. Da Fins fui trasportato con altri quattro ufficiali in un piccolo ospedale installato in una casa privata di Saint Quentin.

Questo ospedale, non lontano dalla stazione, era installato nell'edificio del ginnasio e ospitava più di quattrocento feriti gravi. Non passava giorno in cui un corteo funebre non uscisse dalla porta principale al suono sordo dei tamburi. Tutte le miserie della guerra erano concentrate nella grande sala operatoria. Qui si amputava un membro, là si trapanava un cranio o si scioglieva un bendaggio che il sangue aveva reso un tutt'uno con il corpo. Gemiti e grida di dolore riempivano la stanza inondata da una luce implacabile mentre alcune infermiere, tutte vestite di bianco, si affaccendavano da un tavolo all'altro portando strumenti e fasciature.

Fuoco amico
Verso il mattino il puntatore della mitragliatrice cominciò a far lavorare la sua arma vedendo avvicinarsi delle sagome scure. Si trattava di una pattuglia di collegamento del Settantaseiesimo fanteria, cui si ammazzò un uomo. Simili errori avvenivano di frequente in quei giorni, senza che ci si facesse gran caso.

I civili
Una famiglia usciva dal villaggio contemporaneamente a noi, portandosi dietro, sua unica ricchezza, una vacca. Erano contadini; l'uomo aveva una gamba di legno, la donna trascinava per mano i bambini in lacrime. Il rumore confuso, dietro le nostre spalle, sottolineava la tristezza di quello spettacolo.

Disgusto della guerra
Fu la prima volta, quella, in cui incontrai al fronte un uomo che mi facesse delle difficoltà non per vigliaccheria, ma evidentemente per disgusto della guerra. Benché questo disgusto fosse cresciuto e generalizzato in quegli ultimi anni, una manifestazione del genere in piena battaglia non era tuttavia meno insolita, perché il combattimento unisce e cementa laddove l'inazione disgrega.

Prigionieri
Uno dopo l'altro uscirono da dietro la traversa e gettarono le armi; avevamo i fucili e le pistole minacciosamente puntati su di loro. Erano giovanissimi e molto robusti; tutti con uniformi nuove. Li feci passare davanti a me intimando: "Hands down!" e incaricai quindi alcuni uomini di portarli indietro verso la nostra posizione. La maggior parte mostrava, con un fiducioso sorriso, di non temere alcuna atrocità da parte nostra.

La febbre spagnola
il battaglione che avrebbe dovuto darci il cambio era stato quasi interamente messo fuori combattimento dalla febbre spagnola. Anche fra i miei uomini, ogni giorno parecchi marcavano visita. Nella divisione schierata sul nostro fianco, quella febbre decimò gli effettivi al punto che un aviatore nemico poté lanciare manifestini nei quali si diceva che gli inglesi stessi si sarebbero incaricati del cambio se quell'unità non fosse stata ritirata dal fronte. Comunque appurammo che anche tra le linee nemiche l'epidemia si diffondeva rapidamente.

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