martedì 18 dicembre 2012

I miei lavori. Un anno alla pensione





I miei lavori
Un anno alla pensione
                                                                                                                                  14 maggio 2012


Ancora un anno circa, forse qualche mese in più, e poi abbandonerò questa sedia e questa piccola stanza dove ho trascorso molti anni. Non so dove metterò tutte le cose che si sono accumulate, tantissime inutili o mai usate.
Dalla finestra si vedono gli alberi e le sbarre ricordano che mi trovo in un vecchio padiglione dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giacomo.
Questo luogo in cui finirò la mia attività lavorativa non è, naturalmente, l’unico luogo in cui ho lavorato. Il senso di queste note è quello di riassumere tutti i miei lavori. In realtà non sono tantissimi. Mi piacerebbe poter dire di averne fatti tanti, come nelle storie di molti eroi americani, che raccontano il passaggio da lustrascarpe a milionario, con innumerevoli tappe intermedie.
Invece i miei lavori possono essere al massimo 3 o 4, non di più, almeno quelli con una certa continuità.
Ma non voglio dimenticare i piccoli, brevi lavori che mi hanno offerto una certa visione della realtà e mi hanno fatto conoscere ambienti particolari.


Piccole esperienze agricole

Avevo 17-18 anni e frequentavo il liceo quando, verso la fine dell’anno scolastico, il Consorzio Agrario di Verona invitò  gli studenti a partecipare ai lavori agricoli durante il periodo estivo, nelle campagne veronesi. Aderii con entusiasmo, anche perché mi servivano i soldi per prendere la patente di guida.
La prima esperienza lavorativa, dunque, fu in campagna, nelle coltivazioni di tabacco vicino a Cerea, Azienda Cagalli.  Un gruppo di allegri studenti partiva all’alba dalla città deserta per raggiungere i campi bagnati dalla fredda brina mattutina. 



Bisognava raccogliere le foglie di tabacco, inserirle nelle “stanghette”, cucirle utilizzando una macchina cucitrice, in modo che non si staccassero dal bastone di legno e poi, con il passamano, sistemarle nei vari ripiani dell’essiccatoio.

Non mi è mai toccato il lavoro di raccolta delle foglie, forse il più duro, in mezzo all’acqua. Ho sempre lavorato alle stanghette e al passamano. Nell’essiccatoio, la parte più difficile, era quella di arrampicarsi in alto, salendo lungo i travicelli di legno, per sistemare le stanghette piene di foglie di tabacco, senza cadere come peri.
Mi è andata bene, perché c’erano sempre i più coraggiosi che amavano il rischio e preferivano le inebrianti altezze dell’essiccatoio al vile terreno, dove stavano i semplici passatori.
Ricordo che c’erano tante donne, contadine forti, dalla lingua sciolta, dai volti prematuramente invecchiati. Mangiavano all’aperto, senza tavoli o sedie, come animali e a noi cittadini questo sembrava intollerabile. I modi erano sempre bruschi e decisi, ma anche questo era utile alla nostra esperienza.
Il rapporto si interruppe all’improvviso, allorché un ispettore del Consorzio sollecitò l’azienda a fornire a chi lavorava nell’essiccatoio caschi e cinghie per una maggiore sicurezza. La mattina dopo, i sorveglianti trovarono una scusa per licenziarci tutti. Era chiaro che il padrone non voleva spendere soldi per la sicurezza di pochi studentelli. Il giorno dopo, insieme ad un compagno, andai a prendere con il mio scooter Capri 70 le buste paga di tutti gli altri. E così finì la breve stagione del tabacco.



Iniziai subito dopo la raccolta delle mele, nei campi di Zevio. Il lavoro era meno pesante: con scale alte, a treppiede, dovevamo raccogliere le mele e riempire i cesti. Non ricordo quanto ho lavorato lì, non credo molto. Ricordo bene la sensazione di umidità dei campi all’alba e la leggera nebbiolina che li ricopriva. Poi, ogni tanto, si mangiava una mela, stando attenti a non essere visti dai sorveglianti, che controllavano il nostro lavoro.
E così finì la mia prima e unica esperienza agricola da lavoratore.

Trimestrale alle Poste

Allora, gli studenti potevano chiedere di lavorare per 3 mesi alle Poste. Ho fatto questa esperienza varie volte, dopo essermi iscritto all’Università. Eravamo i cosiddetti trimestrali, utili soprattutto nei mesi estivi per dare il cambio al personale di ruolo.
Ho lavorato alla Stazione Porta Nuova, spesso in turni notturni, in un ambiente squallidissimo, illuminato da forti luci al neon. Dovevamo inserire le lettere in appositi casellari, a seconda della destinazione, spostare i carrelli pieni di sacchi di iuta che contenevano la corrispondenza. Qualche volta andavamo lentamente all’ultimo binario della stazione, dove arrivava il “Legnago”. Il capo ci diceva di non fare in fretta. Posteggiavamo il carrello, ci guardavamo intorno e poi cominciavamo a scaricare i sacchi dal treno per riempire il carrello. Finito questo lavoro, con calma portavamo il carrello alle tettoie dove veniva depositata la posta. C’erano dei tipi vestiti con grembiuli grigi, velocissimi nello smistamento. Durante le lunghe notti, si scherzava molto e c’era sempre un personaggio che veniva sbeffeggiato di continuo e diventava un passatempo, contro la noia notturna. Dopo il turno notturno si aveva diritto ad un giorno e mezzo di riposo.




Non so quanti periodi ho fatto come trimestrale, ma ho lavorato anche nel palazzo ottocentesco delle Poste centrali. Alla mattina facevo il portinaio e dovevo aprire il grosso portone ai furgoni, qualche volta uscivo con il furgone carico di valori da depositare nei vari uffici. Eravamo scortati dalla polizia e questo ci faceva sentire il peso della responsabilità: Arrivati ad un ufficio postale periferico dovevamo scendere e consegnare o ritirare il sacchetto che conteneva i valori. Poi si ritornava alla sede centrale e si depositavano i sacchetti con i valori che avevamo ritirato. Questo era l’aspetto piacevole del lavoro, ma l’impegno principale e più pesante era quello di fare la guardia notturna nel palazzone delle Poste. Dalle 22 alle 6 restavo da solo in uno stanzone al piano terra, pieno di sacchi di iuta. Ogni ora avrei dovuto fare il giro di tutto il palazzo, scendendo prima nelle cantine buie, per poi risalire agli altri piani, passare nei corridoi deserti degli uffici e poi arrivare in alto all’ultimo piano delle soffitte, passando dietro al grande orologio sulla facciata di Piazza delle Poste. Da lì scendevo di nuovo e tornavo alla mia stanza. Avevo una pila e mi ero portato anche una radio a transistor per farmi compagnia, ma poi mi avevano detto di non usarla più perché dava fastidio ai vicini. Naturalmente per comprovare il mio passaggio durante i controlli, dovevo utilizzare degli orologi marcatempo, posti ai vari piani. Ma la prima cosa che mi avevano detto, quando mi avevano spiegato i miei compiti, era che in un cassetto c’era la chiave degli orologi, con la quale avrei potuto aprirli, far ruotare il cartoncino all’interno e marcare tutte le ore, facendo un unico giro.


Nel mondo dei libri

Dopo l’esperienza di trimestrale, ho fatto qualche lavoretto per pochi giorni, come commesso in una libreria, mi pare fosse la Libreria Cortina, in centro. E’ stato durante il periodo natalizio e mi sentivo completamente inetto, non conoscendo i libri e non sapendo cosa consigliare ai clienti che chiedevano: “Dovrei fare un regalo, cosa mi consiglierebbe?”. Penso di aver sudato molto in quei giorni, anche se era inverno.

Sempre nell’ambito dei libri, ho lavorato per qualche tempo in un magazzino di un’agenzia libraria. Bisognava fare pacchetti di copie saggio da inviare alle scuole. Era un bel lavoro manuale, in mezzo alla carta da pacchi, allo spago e al nastro adesivo. Una volta preparati i pacchi, bisognava attaccare le etichette con gli indirizzi e pesarli per calcolare la tariffa postale: Infine io e il mio collega, molto più esperto, caricavamo i pacchi su un furgoncino e li portavamo alle poste per la spedizione.



Termotecnico

Prima e dopo il servizio militare, che ho fatto nel 1974, ho lavorato per qualche anno nello studio termotecnico di mio papà, il famoso Studio Termotecnico Fianco Gerardo. Lui è stato uno dei primi a lavorare in questo settore e ad iniziare un’attività libera professionale. Lo studio si trovava inizialmente in Via Giovanni della Casa, poi si è trasferito in Piazza Renato Simoni, poco distante. E’ lì, in un appartamento al 5° piano che ho cominciato a fare pratica. Si progettavano impianti di riscaldamento ed era un lavoro anomalo per un liceale classico, attratto dagli studi umanistici. Eppure ero riuscito ad imparare qualcosa: disegnavo con la penna a china sui lucidi, riportando le piante degli edifici, facevo i calcoli delle chilocalorie necessarie per ogni stanza, dimensionavo la potenza termica della caldaia, il numero di elementi dei radiatori, i metri di tubo di rame. Tutto veniva poi riportato sul disegno dell’edificio e, infine, si preparava l'elenco dei materiali, il famoso computo metrico, per quantificare la spesa, in modo che l’idraulico fosse in grado di fare il preventivo.
Ho imparato molti termini nuovi in questo lavoro: monotubo, valvole, sfrido (quello che avanza dalla lavorazione dei tubi), elementi, valvole e detentori, pompe, disegno esecutivo, coefficienti di dispersione, eliografia (per fare le copie dei disegni partendo dai lucidi). Non era un lavoro difficile e il fatto di utilizzare le mani, per i disegno a china e vari tipi di macchine lo rendeva vario e interessante. Si usava la macchina da scrivere, con la carta carbone per le copie, la calcolatrice per fare i calcoli. Mio papà usava uno strumento che solo lui era in grado di interpretare: il misterioso, per me, regolo calcolatore.

 In seguito arrivarono altri strumenti sempre più avanzati, prima il Commodore 64, il precursore dei successivi Personal computers. Funzionava con un lettore di cassette magnetiche, per caricare i programmi. Naturalmente era lentissimo, ma la sua schermata blu era affascinante:  Quando sono arrivati il Commodore e gli altri PC, con il linguaggio DOS, il mondo è cominciato a cambiare. Veniva utilizzato prevalentemente per il calcolo e ricordo di avere preparato un software veramente elementare, con le istruzioni “if … then”, per calcolare gli impianti monotubo. Ero talmente preso che, pensando a come risolvere i problemi, a volte andavo in ufficio di notte, se mi veniva in mente qualche idea.




Lo studio termotecnico era frequentato prevalentemente da idraulici, che entravano talvolta con le loro tute dall’odore ferroso. Venivano anche molti rappresentanti delle ditte fornitrici di caldaie, termosifoni, valvole, pompe, ecc.
Oltre a mio padre, c’era anche mia sorella e un geometra (Zanollo), che sono restati quasi fino alla fine dell’attività dello studio. Ad un certo punto, anche per l’aumento della concorrenza dei dopolavoristi, il lavoro cominciò a diminuire e lo studio non fu più in grado di garantire gli stipendi. Sarebbe stato necessario un salto di qualità, un passaggio dalla sola progettazione alla realizzazione degli impianti, ma questo salto non si realizzò e così, lentamente, iniziò una fase di decadenza.
Per fortuna, prima della fase discendente, cominciai a fare tutti i concorsi che venivano banditi in quel periodo, tra i quali, quelli per impiegato alle poste e per impiegato all’università. In entrambi i casi le prove si erano svolte a Padova.


Facchino all’ortofrutta

Subito dopo il servizio militare, terminato poco prima della nascita di mio figlio Andrea il 5 dicembre 1974, iniziò uno dei periodi più tristi della mia vita, soprattutto per la mancanza di lavoro. Alla fine, fui assunto da una cooperativa al Mercato ortofrutticolo, in Borgo Roma. Mi alzavo all’alba, quando fuori era ancora buio, e raggiungevo il mercato in motorino. Si cominciava, in genere, a scaricare i camion arrivati dal sud, in un’enorme piazzale. Qualche volta ci regalavano un cavolfiore o altra verdura. Poi si dava una mano a scaricare cassette all’interno del mercato, dove si trovavano i box dei vari venditori all’ingrosso e, molto spesso, venivamo mandati a scaricare i treni merci pieni di arance siciliane. Si utilizzava una pala molto larga, per riempire le cassette e ci voleva più di una giornata per svuotare un vagone. Avevamo degli spessi guanti da lavoro per spostare le cassette, che venivano poi trasportate dai muletti sui camion e nei magazzini.. A volte, per dissetarci, mangiavamo le arance. Non c’era un orario: dipendeva dalle richieste di lavoro e ogni giorno il capo della cooperativa ci diceva cosa dovevamo fare e ci mandava a casa quando avevamo finito. Proprio per questo, la paga era variabile, a seconda delle ore effettivamente lavorate.
Ho lavorato lì solo un mese e mi ero fatto, in quel periodo, dei bei muscoli. Ricordo che, quando finivo, mangiavo enormi porzioni di pasta, condite con ragù e grana, nella trattoria dei miei suoceri a Dossobuono. Alla fine del mese di lavoro, ripresi il lavoro di termotecnico da mio padre.



 
Impiegato alle poste

A partire da febbraio 1980, dopo aver ricevuto la comunicazione che avevo vinto il concorso alle Poste, fui assegnato all’Ufficio postale di Volargne. Iniziava così, sia pure in ritardo rispetto a tanti miei coetanei un lavoro in un posto fisso. Non più trimestrale o lavoratore in nero, ma assunto a tempo indeterminato in un piccolo ufficio della provincia. C’era una Direttrice molto alla buona, nei primi tempi e anche suo marito lavorava alle Poste, ma in un altro ufficio. Un lavoro molto standardizzato, in cui era importante seguire delle routine prefissate, con interminabili compilazioni di moduli.


Alla mattina, arrivavano i sacchi con la corrispondenza e il postino cominciava a sacramentare perché a Volargne arrivava tanta posta per le ditte dei marmi e, invece, “ a quel del Dolcè e de Brentino ghe ariva quatro letere in croce”. Come quasi tutti i postini, nonostante le lamentazioni mattutine, fisse come le preghiere, aveva il tempo di fare un altro lavoro a tempo perso, il suo era l’antennista. La posta veniva timbrata con energia e si sentiva il forte rumore dei timbri, percussioni che avevano un certo ritmo. Una volta esaurito questo rito mattutino, prendevo posto ad uno degli sportelli: a turno si lavorava alla corrispondenza (raccomandate, assicurate, ecc.) oppure, e questo era il lavoro più pesante, al Banco posta, dove si ricevevano i bollettini di pagamento, si pagavano le pensioni e si gestivano i risparmi.. Il pagamento delle pensioni, che veniva fatto a giorni prefissati a seconda delle categorie di pensionati, era un momento topico dell’ufficio. Gli anziani venivano all’alba, si mettevano in coda e poi, dopo aver apposto, spesso a fatica, la loro firma, ritiravano i soldi. Talvolta, mettevano una parte della pensione sul libretto postale oppure compravano, spesso con aria furtiva, per non farsi vedere dagli altri, dei buoni postali.
Le più allegre tra i pensionati erano le vedove, che chiacchieravano e ridevano, mentre aspettavano il loro turno. Qualcuna ci portava qualcosa in regalo, a me è capitato più volte una specie di VOV fatto in casa, con le uova e il marsala..
A volte i bollettini preferivo compilarli io, piuttosto di continuare a ripetere che mancava l’importo scritto in lettere o la data. Ma non mi pesava, perché ho sempre avuto la strana passione dei moduli.
Era invece noiosissima la gestione del risparmio, specialmente quando si dovevamo estinguere dei libretti o dei buoni: tanti registri e moduli da compilare con precisione. Quando era il periodo di maturazione degli interessi sui libretti postali, c’era una certa frenesia, come se si fosse trattato di una vincita e qualcuno chiedeva “quanto elo quel che va su?”, per sapere cosa aveva “guadagnato” dal suo risparmio.
C’erano anche molti pacchetti da spedire, soprattutto all’estero, in prevalenza campioni di marmo, spediti dalle ditte della zona. Bisognava pesarli, calcolare la tariffa estera, verificare il cambio con la lira e, infine, attaccare i francobolli e le etichette.
I clienti fissi, cioè le Ditte, erano quasi tutti “casellisti”, cioè avevano una casella dove mettevamo la loro corrispondenza, che le impiegate venivano a ritirare ogni giorno.
Un'altra cosa interessante erano i telegrammi, che si trasmettevano a voce ad un ufficio centrale, dopo aver fatto compilare il testo al cliente, aver conteggiato le parole, per stabilire l’importo.
A Natale, l’ufficio si riempiva di pandori, bottiglie o panettoni, che ci venivano consegnati dalle impiegate delle Ditte e che noi ci dividevamo alla fine.

I periodi più impegnativi erano quelli della chiusura dei conti alla fine di ogni giornata e, più ancora, alla fine dell’anno. I conti dovevano tornare al millesimo, per cui si passava ore , nel caso i conti non tornassero, a controllare e ricontrollare le ricevute ed i moduli e a contare i soldi. Nel periodo di chiusura annuale, da dicembre a gennaio, si doveva chiudere il bilancio dell’anno precedente, chiudere i registri e riaprire quelli del nuovo anno.
Un altro passaggio delicato era la preparazione dei contanti da spedire alla Cassa centrale; in questo caso c'era il rito dello spago e della ceralacca. I soldi, prelevati dalla cassaforte, venivano avvolti in un pacchetto di carta grigiastra da pacchi, poi legati con lo spago e sigillati con la ceralacca rossa, fatta sciogliere in un piccolo pentolino sul fornello elettrico. Si scriveva in cifre e in lettere l’importo e poi con il grosso timbro di rame, si imprimeva il sigillo sulla ceralacca ancora morbida.



Durante i miei due anni, la prima Direttrice è andata in pensione ed è stata sostituita dalla collega più anziana, che si chiamava Anna. Un tipo più duro e pignolo, che lasciava meno correre sugli sbagli miei e di Lia, l’altra impiegata.
Ho fatto anche delle sostituzioni in altri uffici ed era una cosa che mi piaceva, perché mi permetteva di cambiare e di conoscere altri ambienti: sono stato a Pescantina, in un ufficio grande e sempre affollato, poi a Dolcè e a Cavalo, uffici dove non entrava quasi nessuno e si potevano passare mattinate intere a leggere e, infine, alle Golosine, un altro grande ufficio, dove non si aveva molto tempo per distrarsi.
Una volta, sono andato anche in un ufficio volante, alla Fiera del Marmo di Sant’Ambrogio di Valpolicella, dove ho potuto utilizzare una telescrivente, per inviare dei messaggi da parte degli operatori della fiera,.

L’ufficio di Cavalo è quello che mi ha più colpito. Il postino arrivava verso mezzogiorno, alla stessa ora della corriera con la corrispondenza: c’erano al massimo una decina tra lettere e raccomandate, per cui penso che la distribuzione della posta durasse al massimo un’ora. Poi chissà cosa faceva il postino: in teoria avrebbe potuto lavorare da un’altra parte e distribuire la posta a tempo perso. Non era male il lavoro di sostituzione, che permetteva di lavorare in uffici diversi e c’era chi copriva quasi continuativamente il ruolo di jolly e si presentava negli uffici, per sostituire persone assenti.

Un evento stressante era l’ispezione. Poteva capitare in qualsiasi momento e durava circa una settimana: gli ispettori controllavano tutte le carte, i moduli, i registri, il contante nella cassaforte e poi stendevano il verbale. L’ispezione era obbligatoria in caso di rapina, ma, per fortuna non è mai successo nel nostro ufficio.


Impiegato e bibliotecario all’Università

Mentre lavoravo già da due anni alle Poste, con la prospettiva di chiedere prima o dopo un avvicinamento alla città, mi arrivò la comunicazione che avevo superato un vecchio concorso per impiegato all’Università, che avevo fatto a Padova, e che serviva per coprire alcuni posti all’Università di Verona, allora sede staccata di Padova.
Avevo poco tempo per decidere e per scegliere. Andai a Padova per capire dove sarebbe stato il mio posto di lavoro e che cosa avrei dovuto fare. A Padova mi dissero che il posto riguardava la Cattedra di Psicologia Medica, presso l’Istituto di Psichiatria, al Policlinico di Borgo Roma.
Mi avevano dato anche il numero di telefono del mio futuro capo, il professor Michele Tansella. Ricordo che chiamai da Padova e mi disse di decidere in fretta e di essere disponibile ad un incontro per illustrarmi il lavoro.

Le decisioni di questo tipo sono sempre stressanti, perché comportano un cambiamento di vita e di abitudini. Da una parte c’era un lavoro che ben conoscevo, un po’ noioso, ma accettabile, nel quale mi sentivo spesso utile agli altri, dall’altra un terreno sconosciuto, un nuovo ambiente, con nuove persone.
A favore dell’Università giocava il fatto che il posto era in città, vicino alla casa di santa Lucia dove allora abitavo, in un ambiente più vicino ai miei interessi, visto che ero intenzionato a concludere il mio lungo e travagliato percorso di studi.
Dal punto di vista economico, avrei preso uno stipendio inferiore, perché alle Poste, c’erano molte voci accessorie, che mancavano all’Università.
Per avere più chiaro cosa fare, prima di accettare, decisi di andare a vedere il nuovo posto e di parlare con il mio futuro capo.
Arrivai alla segreteria dell’Istituto di Psichiatria, al primo piano del Policlinico, dove incontrai la storica segreteria Marzia, Giuliano, infermiere tuttofare, e il signor Gino, il bidello. In verità, mi parve subito un posto strano, dove sembrava che, a parte la segretaria che batteva a macchina senza mai interrompersi, gli altri non fossero molto presi dal lavoro. Poi quando arrivarono i medici, dopo le riunioni del mattino, questa sensazione mi apparve ancora più chiara. Chiacchiere, telefonate personali: insomma un clima allegro e spensierato. Naturalmente il contrasto con il lavoro delle Poste, continuo e senza pause, con la coda degli utenti davanti, con i conti da chiudere, la posta da smistare, ecc ecc, mi sembrò enorme.
Il Direttore era il Professor Balestrieri, ma il vero motore organizzativo era il mio capo. Nel colloquio con lui ebbi una sensazione favorevole: una persona concreta e pratica, che mi fece capire cosa si aspettava da me e mi mostrò anche la stanza del mio futuro ufficio, che allora veniva condivisa con il medico di guardia, che, alla sera dormiva in un divano letto.
I lavoro era prevalentemente di tipo amministrativo e contabile: bisognava fare gli ordini del materiale, compilare i moduli di pagamento, allegare fatture e bolle, inventariare gli acquisti. Allora l’Università era ancora organizzata in Istituti ed io lavoravo all’Istituto di Psichiatria. I moduli di pagamento venivano inviati alla Ragioneria, che aveva il compito di controllare la correttezza dei mandati. Accanto a questo lavoro amministrativo, c’era anche un lavoro di supporto alla ricerca che consisteva nel battere a macchina articoli scientifici o libri, cercando di decifrare le calligrafie dei professori. Gli strumenti di lavoro erano prevalentemente macchine da scrivere, che, nel corso degli anni si erano evolute, passando dalle macchine senza correttore (famosa l’IBM a pallina rotante), per le quali si utilizzava il "bianchetto", a quelle che avevano dei nastri che permettevano la correzione e, infine, a quelle che mostravano, in un visore, il testo prima di procedere alla battitura.











Per fortuna, nell’Istituto c’era una piccola Biblioteca, a cui il Prof Balestrieri teneva molto. Mi diedero l’incarico di gestirla e cominciai, da autodidatta, a studiare i sistemi di catalogazione ed i primi elementi di biblioteconomia. Era questo il lavoro che più mi affascinava, considerando il mio amore per i libri. Gradualmente, ho cominciato a mettere in secondo piano il lavoro amministrativo-contabile e ad impegnarmi maggiormente nel lavoro di Biblioteca, fino ad ottenere di assumere anche formalmente la qualifica di bibliotecario.
Un altro lavoro che ho sempre mantenuto è quello di gestione delle bibliografie, dapprima utilizzando le macchine da scrivere e, successivamente utilizzando i programmi dei computers.
Il Prof. Tansella, per fortuna, cercò sempre di stare al passo con i tempi, nella dotazione tecnologica, e non appena ci fu la possibilità realizzò, all’interno dell’Istituto il passaggio alle nuove tecnologie elettroniche. Ho vissuto, in quel periodo, una vera rivoluzione, dal punito di vista tecnologico: non più macchine da scrivere elettriche, bianchetti, correttori, non più tabelle fatte con i punti esclamativi per le righe verticali. Un nuovo mondo si apriva nel lavoro, magari con qualche fatica iniziale, per imparare le nuove istruzioni, un mondo che rapidamente evolveva, richiedendo a tutti di essere aperti e curiosi.

Il primo Computer, che era in realtà un semplice elaboratore di testi, fu il Compucorp, prodotto da una ditta irlandese, con il quale si poteva scrivere e stampare, con la possibilità di memorizzare i testi sui cosiddetti floppy disk e di correggerli.






Le prime stampanti erano le rumorosissime stampanti ad aghi, con la carta a righe, a modulo continuo.



Questi strumenti consentivano di elaborare i testi, con dei software di videoscrittura: allora i programmi si chiamavano Word Star, ma il più usato fu senz’altro Word Perfect.
In seguito arrivarono i primi PC dell’IBM, prima con i floppy disk e poi con i dischetti più piccoli.



Da quel momento in poi fu una continua evoluzione degli strumenti, con un costante miglioramento delle macchine, dal punto di vista della memoria e delle prestazioni. Arrivarono le nuove stampanti, più silenziose, con le cartucce toner, le nuove fotocopiatrici. Soprattutto il software ebbe un’evoluzione rapida e continua, sia nei programmi di videoscrittura (Word, Office), sia nei programmi di gestione bibliografica, come Reference manager.

Anche il lavoro di Biblioteca ebbe delle notevoli trasformazioni: si passò dai vecchi schedari a schede cartacee, scritte a macchina, ai primi programmi computerizzati che consentivano di gestire il catalogo su PC. Il primo programma si chiamava SINBIB ed era utilizzato solamente dalla Biblioteca di Psichiatria. In seguito, ma molto rapidamente, si giunse al primo Catalogo online di Ateneo (OPAC), con il software Aleph e incominciarono ad apparire le riviste online e le banche dati. Il passaggio dalla carta alle risorse elettroniche ha rappresentato un rivoluzione nel mondo delle Biblioteche. Il lavoro di catalogazione, che era preponderante tra i vecchi bibliotecari, divenne secondario, mentre acquisirono importanza le capacità di gestire risorse elettroniche e banche dati. Mi piaceva catalogare e amavo conoscere e applicare le regole, anche se mi rendevo conto che, spesso, prevaleva l’autoreferenzialità e la pignoleria, a danno della praticità e delle esigenze degli utenti. Per questo, ho cercato di interessarmi alla formazione degli utenti e a preparare corsi sulle banche dati, sulla ricerca delle informazioni, ecc. Credo che le capacità formative e di supporto dei bibliotecari siano gli unici elementi che debbano essere sviluppati per dare uno scopo al loro lavoro. E’ un settore interessante ed appassionante e sono contento di aver fatto tanti seminari per gli studenti, gli specializzandi e i dottorandi su Pubmed, in particolare, e su altre banche dati.

Un altro elemento di novità nelle Biblioteche è stato l’introduzione degli scaffali Compact, che hanno permesso di poter immagazzinare molti volumi, risparmiando spazi.





Nel corso del tempo, i miei interessi per la storia e per la storia della psichiatria, in particolare, mi portarono dapprima a laurearmi con una tesi sulle origini del vecchio manicomio di San Giacomo di Verona e poi alla pubblicazione del libro “L’asilo della maggior sventura” La tesi sul manicomio è stata, come diceva Umberto Eco, “come il maiale”: non ho buttato via niente. E’ diventata libro e poi da questo interesse è nata l’idea di organizzare l’Archivio storico della psichiatria veronese, poi un convegno, una mostra fotografica, una raccolta di testimonianze orali, articoli per altre pubblicazioni. Una delle cose di cui vado più fiero è proprio la costituzione dell’Archivio e il salvataggio delle cartelle cliniche, trasportate in un posto sicuro.

Un altro lavoro interessante è stato quello di gestire il sito web della Psichiatria, utilizzando un programma che si chiama Dreamweaver, che gestisce le pagine in formato html. Ho fatto un’utile esperienza, sia per quanto riguarda l’aggiornamento delle informazioni, sia per la creazione di pagine nuove.

Dal 1982 ad oggi, sono stati 30 anni continui prima nell’ufficio al primo piano della Psichiatria, poi per poco tempo in alcune stanze accessibili dall’atrio del lato A del Policlinico e, infine, nel mio ufficio vicino alla Biblioteca, presso la Palazzina esterna, nell’ex padiglione dell’osservazione maschile del vecchio San Giacomo. Una sede più volte ristrutturata e ampliata, dopo avere guadagnato l’ala occupata di cappellani.



Altri lavori


Nel corso del mio lavoro principale all’Università, dal 1982 in poi, ho fatto altri lavori, alcuni concomitanti, altri, come quello di insegnante hanno rappresentato una vera e propria parentesi.

Tra i lavori concomitanti, c’è quello di redattore di bozze, in collaborazione con redattori e grafici della Mondadori. Un bel lavoro, molto interessante, fatto prima della rivoluzione digitale, quando i grafici lavoravano con la carta, la taglierina e la colla. Ho collaborato al controllo editoriale di enciclopedie, manuali, alla scelta delle fotografie che arrivavano in diapositiva. I miei strumenti erano, naturalmente, altre enciclopedie per controllare i dati che venivano riportati, la penna rossa per fare le correzioni, usando i simboli dei correttori di bozze e il tipometro, che serviva per misurare le righe di testo, per poter impaginare, secondo il formato e lo spazio della pagina.



Questa esperienza mi è servita anche nel mio lavoro all’Università, dove ho fatto il redattore per la rivista “Epidemiologia e Psichiatria Sociale”, diretta dal Prof. Tansella. Un lavoro che richiedeva un attento controllo per uniformare i testi secondo lo stile della rivista, per controllare i riferimenti bibliografici, prima di inviare i dati al’Editore.
Anche in questo caso utilizzavo i simboli del correttore di bozze, segnandoli con la penna rossa.



Ma il vero iato, all’interno del lungo periodo universitario, è stata l’esperienza dell’insegnamento, durata un anno intero. All’inizio è stato un vero e proprio shock, già dal momento in cui mi era stato comunicato che ero stato chiamato dalla vecchissima graduatoria del concorso di abilitazione.
Ho cominciato ad ottobre 1996 all’Istituto alberghiero “A. Berti”, al Chievo e, fin dall’inizio, è stata un’esperienza traumatica, in quanto non avevo alcuna esperienza in quel lavoro, anche se, probabilmente, se avessi incominciato da giovane, sarebbe stato senza dubbio il mio lavoro.
Avevo due classi, una prima e una seconda (I e II B per la precisione) e commisi subito l’errore di presentarmi come “insegnante democratico”, avendo come riferimento la mia esperienza di studente di tanti anni prima. Inevitabili gli errori, ma vanno addebitati all’insipienza e alla stupidità di chi assegna le cattedre, cioè un lavoro delicatissimo, a persone inesperte, senza prevedere alcuna risorsa per facilitare l’inserimento e per condividere le esperienze più avanzate. Ho capito, da questa esperienza, quanto la scuola avrebbe bisogno di una riforma profonda, che premi e valorizzi gli insegnanti più capaci e rimuova quelli che tirano a campare. Mi ha molto colpito constatare di essere stato l’unico insegnante che arrivava alla mattina con un quotidiano. Inoltre, ho percepito la “povertà” delle risorse della scuola rispetto a quelle dell’ambiente universitario da dove provenivo, nel quale, invece, abbondavano e talvolta si sprecavano le risorse. Difficoltà di fare fotocopie, di utilizzare i PC, di avere altre utili dotazioni tecnologiche. Insomma, una situazione di grande arretratezza e di depressione.
E’ stata, comunque, un’esperienza che non rinnego: mi ha fatto conoscere una ambiente diverso ed ho potuto apprezzare, alla fine, le lunghe vacanze estive.



Verso la conclusione

E ora? Mentre conto i giorni che mancano al mese di maggio 2013, voglio raccogliere le parole che hanno caratterizzato questi ultimi anni, per ricordare gli strumenti e le risorse che mi hanno accompagnato per tanti anni.
La più importante è “Biblioteca”, che raccoglie tutte le parole tecniche dei diversi servizi, come catalogazione, prestito, consultazione, ricerca bibliografica, formazione degli utenti, collocazione, ordine, consistenza, ecc.. Ma anche tutti gli strumenti, a partire dal programma Aleph, che permette di gestire e di garantire i servizi delle biblioteche. Qualcosa di fisico rimane ancora ed è costituito dalle etichette che si incollano ancora sul dorso, dai pennarelli per scrivere la collocazione, dagli scaffali. Ma sempre più la Biblioteca “si digitalizza”, soprattutto nel settore scientifico: i libri cartacei si riducono, le riviste scompaiono dagli scaffali, le rilegature sono sempre meno.
Chissà se tutto questo mondo sarà destinato a scomparire, così come sono scomparsi da tempo i classici strumenti dei bibliotecari come le schede cartacee e gli enormi schedari in legno. Le piccole biblioteche, come la mia, scompariranno o saranno sempre meno utilizzate. I bibliotecari resteranno  pochi e dovranno cambiare le loro competenze: conoscere molto bene gli strumenti elettronici e avere capacità di formazione e di orientamento nei confronti degli utenti.
L’altro grosso settore, simile alla Biblioteca, è quello che riguarda l’Archivio storico della Psichiatria. Qui le parole sono: cartelle cliniche, schedari, scaffali, registri, libri antichi,  deumidificatori (per eliminare l’umidità dei locali), fotografie. Ci sarebbe bisogno di un lavoro di archivio e poi di un lungo lavoro di schedatura delle cartelle. Ma le risorse sono scarse e, al momento non ci sono prospettive di valorizzare questo patrimonio storico.
Infine, gli altri lavori: il sito web, la gestione delle bibliografie e dei “prodotti” della ricerca, la redazione di EPS. Tutti lavori che  non hanno più bisogno di strumenti fisici e materiali, a parte il PC e la stampante. Lavori immateriali, che producono informazioni e mettono insieme dati. In conclusione, per sintetizzare queste mie esperienze, posso dire di aver vissuto un’epoca di passaggio e di grande trasformazione, il cui esito appare incerto e imprevedibile: il passaggio rapido e costante dal materiale all’immateriale, da un ambiente fatto di cose ad un ambiente fatto di bit.

FINE

martedì 4 dicembre 2012

La fabbrica dell'obbedienza / Ermanno Rea

E' un libro-sfogo sugli italiani, con alcune notazioni molto interessanti. Il cuore dell'argomentazione, la tesi fondamentale parte dalla valorizzazione del Rinascimento italiano, in contrapposizione alla decadenza del periodo della Controriforma, che ha segnato profondamente la storia e il carattere degli italiani, rendendoli obbedienti e succubi.
E' proprio il periodo controriformistico che ha prodotto lo strapotere della Chiesa sulla società e sulla coscienza degli italiani, anche attraverso il sacramento della confessione, che in un primo tempo non era nemmeno segreta e veniva utilizzata come strumento di controllo individuale e sociale.
Mentre negli altri Paesi, la Riforma ha consentito un rapporto più libero con le scritture e, quindi, con l'autorità, senza che ci fosse il monopolio delle interpretazioni, in Italia, la Chiesa ha abituato il popolo alla sudditanza e all'obbedienza. Il che spiega perchè non ci sia mai stata, nel nostro Paese, una vera rivoluzione popolare e perchè, anche il Risorgimento e la Resistenza, siano stati eventi importanti, ma minoritari.
Questa pesante eredità ci condiziona ancora oggi e spiega, in parte, perchè gli italiani si affidino al "capo carismatico", a chi ha il potere e perchè, tranne esigue minoranze, non riescano a ribellarsi e accettino compromessi con la propria coscienza.
Mi ha colpito il caso di Giacomo Leopardi che, nonostante la sua estraneità alla religione e la sua tempra morale, scrisse una lettera umiliante (qui riportata), per chiedere di avere una carica, anche eventualmente togliendola ad altri, dal cardinale Consalvi. Se anche Leopardi si è abbassato, magari in un momento di debolezza ad una simile richiesta, emerge, con evidenza, l'esistenza di un humuis, storicamente motivato, in grado di condizionare pesantemente l'anima degli italiani. Bisognerebbe, ma temo che sia ormai impossibile, riprendere il cammino spezzato del nostro Rinascimento, nel corso del quale, gli italiani furono al centro della cultura e della civiltà europea, grazie a intellettuali come Lorenzo Valla, Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, ad artisti, come Leon Battista Alberti e innumerevoli altri, a filosofi e pensatori come Tommaso Campanella e, soprattutto, come Giordano Bruno, il cui rogo a Campo dei Fiori segnò la fine di un'epoca gloriosa e l'inizio di tempi oscuri.
Meno interessanti alcune parti sul federalismo meridionale e sulla controversa interpretazione del Risorgimento, che senz'altro ebbe dei limiti, ma che ebbe anche delle pagine gloriose, sia pure ad opera di  minoranze, spesso incomprese.
Penso che il filo che unisce le varie considerazioni, cioè quello del peso negativo del passato controriformistico, sia ancora valido. Il libro è anche una sollecitazione ad approfondire il tema, rileggendo i testi di Bertrando Spaventa (Rinascimento Riforma e Controriforma e altrio saggi), uno delle figure ispiratrici di tutto il testo.
Da leggere anche: Giuliano Procacci, "Storia degli italiani", Laterza, 2006
Adriano Prosperi, "Tribunali della coscienza. Inquisitoti, confessori, missionari. Einaudi, 1996.

Ermanno Rea, utopie e sconfitte
LA FABBRICA DELL’OBBEDIENZA recensione di Giovanna D'Arbitrio


sabato 10 novembre 2012

Le ceneri di Angela


McCourt, Frank
Le ceneri di Angela / Frank McCourt ; traduzione di Claudia Valeria Letizia. - Milano : Adelphi, 1997. - 376 p.

Incipit
"Era meglio se i miei restavano a New York dove si erano conosciuti e sposati e dove sono nato io. Invece se ne sono tornati in Irlanda che io avevo quattro anni, mio fratello Malachy tre, i gemelli Oliver e Eugene appena uno e mia sorella Margaret era già morta e sepolta.
Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come sono riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un'infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un'infanzia infelice irladese è peggio di un'infanzia infelice qualunque, e un'infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora".

Il libro, come si comprende già dall'incipit, racconta la storia della triste infanzia, fino ai 18 anni del protagonista Frankie McCourt, che è anche narratore e autore. Non voglio raccontare la trama, ma sottolineare le parole che più caratterizzano il racconto.
Irlanda, in primo luogo, dove si svolge la quasi totalità della vicenda, e, quindi, pioggia e freddo, che ha volte ci sembra quasi di percepire sulla nostra pelle. Poi, miseria e fame. Case malsane e umide. Mancanza di vestiti e di scarpe, che sono un vero e proprio lusso. L'irlandesità e il rancore verso gli inglesi, rappresentati dal padre di Frank, che torna a casa ubriaco, cantando le canzoni dell'epopea irlandese, vantandosi di aver contribuito alla lotta per l'indipendenza. L'alcolismo e le birrerie, fonte di rovina per molte famiglie, tra cui quella del McCourt. La  sessualità, vissuta con senso di colpa, sia negli episodi di autoerotismo del protagonista e dei suoi colleghi fattorini, sia nella storia del primo rapporto sessuale tra Frank e Theresa Carmody, malata di tisi e destinata ad una triste fine.  La malattia e la morte, che fanno a da sfondo a tutta la vicenda e che accompagnano il narratore-protagonista, che si ammala lui stesso e che vede morire intorno a sé i piccoli fratellini e altri compagni di sventura. La scuola e gli insegnanti, descritti nelle loro manie, spesso ridicoli e tromboni, quando obbligano gli scolari a ripetere a memoria e a essere succubi. Il cinema che rappresenta con i suoi miti e i suoi eroi, l'unica possibilità di evadere dalla dura realtà di Limmerick.
Infine, il cattolicesimo che pervade la vita e l'educazione di tutta la società. Ci sono momenti esilaranti in alcuni brani, tra cui quello in cui Frank legge in biblioteca le vite dei santi. Il cattolicesimo irlandese é presente anche nelle innumerevoli figure di preti e frati, nelle cerimonie della prima comunione e della cresima, nella paura del peccato e dell'inferno.
Mi è sembrato che la religione cattolica in Irlanda, anche per la contrapposizione ai protestanti inglesi, abbia assunto, purtroppo, un peso preponderante e un carattere "nazionale", un fenomeno che é rovinoso per la stessa religione. Infatti, quando una religione diventa "nazionale" e si identifica con un popolo, acquista i caratteri del potere e rischia di diventare una cappa soffocante per la società. Mi viene in mente la religione ortodossa greca, che si identifica totalmente con lo Stato e la Nazione, per cui il ceto ecclesiastico diventa un ceto di funzionari inamovibili e spesso irresponsabili.
Ma non vorrei aver dato l'idea di un libro pesante, pieno di tristezza e di sconforto. Il racconto é caratterizzato da uno stile vivace e scorrevole, con toni ironici ed episodi divertenti, in contrasto con la situazione pesante, che vivono i protagonisti. E' proprio la capacità dello scrittore di alleggerire le situazioni drammatiche, evitando il patetico, che rende la lettura piacevole. Ma più di tante parole, meglio un esempio, la lettura della vite delle varie vergini martiri in Biblioteca:
"Poi c'e santa Wilgefortis vergine e martire, 20 luglio. Sua madre ebbe nove figli tutti insieme, quattro coppie di gemelli più Wilgeforis che era spaiata, e finirono tutti quanti martiri della fede. Wilgefortis era bellissima e suo padre voleva darla n sposa al re di Sicilia ma poiché lei si disperava Dio la aiutò facendole crescere barba e baffi. Il re di Sicilia ci ripensò e basta. Suo padre invece andò talmente in bestia che la fece crocifiggere barba e tutto. Santa Wilgefortis è la santa che preghi se sei inglese e hai un marito molesto."