La prima verità
/ Simona Vinci. – Torino : Einaudi, 2016. – 397 p. ; 20 cm.
Incipit
”Un lettino di
ferro con le sbarre bianche e un corpo nudo, quello di una bambina tra il sette
e dieci anni. Che è una femmina, si capisce solo del taglio tra le gambe unite
e tenute ferme da una cinghia di contenzione. Anche le braccia sono legate alle
sponde con due strisce di tela e tutto il peso del corpo si regge sui gomiti.
Dietro la schiena, un cuscino macchiato e sotto il sedere, una tela cerata.
Nell’angolo il fondo a destra si intravede un materasso a righe.
Poi c’è il
buio.”
Un libro che
parla di manicomi, di repressione di malati (ma anche di politici), di torture
e di sofferenze.
Gli ambienti
sono diversi: per gran parte la storia è ambientata nell’isola di Leros, dove,
per lungo tempo, fino agli anni ‘70, furono internati, in un lugubre edificio,
i “matti” di tutta la Grecia e, dopo il colpo di Stato dei colonnelli, nel
1969, anche gli oppositori politici. Tra questi il poeta Yannis Ritsos, al quale si ispira uno dei personaggi del
libro.
Un altro luogo è
Budrio, dove il rapporto con i “matti”, seppure meno drammatico, è frequente e
colpisce la fantasia dei bambini. A Budrio c’erano due istituti psichiatrici:
il San Gaetano e Villa Donini, con un totale di circa 600 ricoverati.
Infine, l’ultimo
luogo raccontato nelle pagine finali del libro è Freetown in Sierra Leone: si
tratta dell’ospedale psichiatrico Kissy Mental, che era l’unico in tutto il Paese.
Questo libro mi
ha colpito perché condivido con l’autrice l’interesse per la storia dei
manicomi e delle tante vite legate a queste istituzioni. C’è sempre in questi
luoghi qualcosa di misterioso, di segreto e di vergognoso, come se fossero
luoghi sotterranei. Per questo siamo attratti nel desiderio di esplorarli e
affascinati dalla ricerca del segreto, anche se, spesso, alla fine, ci troviamo
davanti a vicende banali, di “ordinaria follia” e non riusciamo raggiungere una
comprensione maggiore di quella dalla quale eravamo partiti.
Ho segnato un
pezzo che mi ha colpito, che riguarda la passione per le ricerche negli archivi
e per lo scavo nei faldoni, la curiosità che ci spinge, come dei “minatori”, a
cercare tra le storie delle risposte:
“Questa stanza
nel seminterrato di un edificio di un’isola sperduta nell’Egeo, con i suoi veli
di ragnatele che sembravano millenarie, lo strato di polvere oleoso che
ricopriva ogni cosa, per lei era un sogno … Una fila di faldoni scoloriti e in
disordine. Registri annuali, cartelle di pazienti, fotografie, tutto
affastellato senza un ordine cronologico, quasi scompigliato di proposito, come
se conoscere la storia di quel posto e delle persone che ci erano finite dentro
dovesse risultare impossibile a chiunque avesse osato metterci le mani in mezzo
… Forse, pensò Angela, dietro non c’era
niente di strano o misterioso, niente che valesse la pena di essere indagato,
davvero doveva trattarsi solo di incuria e disinteresse, perché in effetti le
vite di quelle persone erano irrilevanti. Erano irrilevanti i loro nomi, le
loro facce, le diagnosi a loro riferite, irrilevante la durata del loro
passaggio in questo posto in particolare e, in generale, del loro passaggio sulla
terra. Decine, centinaia, migliaia di disadattati, psicopatici, cerebrolesi,
deficienti, handicappati, casi umani tutti diversi, ma in fondo tutti uguali”
(Pagine 64 65)
Dunque “irrilevanti”,
da nascondere, da tenere lontani (non a caso i manicomi erano costruiti sempre
lontani dalle città e addirittura nelle isole chiusa). Ma questo disordine dell’archivio
corrisponde bene al disordine del “mondo di sopra”, dove si aggirano i “matti”,
lasciati a se stessi, tra la sporcizia, oggetti di semplice custodia o peggio
di contenzione, e mai di cura.
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