I miei lavori
Un anno alla pensione
14
maggio 2012
Ancora un anno circa,
forse qualche mese in più, e poi abbandonerò questa sedia e questa piccola
stanza dove ho trascorso molti anni. Non so dove metterò tutte le cose che si
sono accumulate, tantissime inutili o mai usate.
Dalla finestra si vedono
gli alberi e le sbarre ricordano che mi trovo in un vecchio padiglione dell’ex Ospedale psichiatrico di San Giacomo.
Questo luogo in cui
finirò la mia attività lavorativa non è, naturalmente, l’unico luogo in cui ho
lavorato. Il senso di queste note è quello di riassumere tutti i miei lavori.
In realtà non sono tantissimi. Mi piacerebbe poter dire di averne fatti tanti,
come nelle storie di molti eroi americani, che raccontano il passaggio da
lustrascarpe a milionario, con innumerevoli tappe intermedie.
Invece i miei lavori
possono essere al massimo 3 o 4, non di più, almeno quelli con una certa
continuità.
Ma non voglio dimenticare
i piccoli, brevi lavori che mi hanno offerto una certa visione della realtà e
mi hanno fatto conoscere ambienti particolari.
Piccole esperienze agricole
Avevo 17-18 anni e frequentavo il liceo
quando, verso la fine dell’anno scolastico, il Consorzio Agrario di Verona invitò gli studenti a partecipare ai lavori agricoli durante il periodo
estivo, nelle campagne veronesi. Aderii con entusiasmo, anche perché mi
servivano i soldi per prendere la patente di guida.
La prima esperienza
lavorativa, dunque, fu in campagna, nelle coltivazioni di tabacco vicino a
Cerea, Azienda Cagalli. Un gruppo di allegri studenti partiva all’alba dalla città
deserta per raggiungere i campi bagnati dalla fredda brina mattutina.
Bisognava raccogliere le
foglie di tabacco, inserirle nelle “stanghette”, cucirle utilizzando una
macchina cucitrice, in modo che non si staccassero dal bastone di legno e poi,
con il passamano, sistemarle nei vari ripiani dell’essiccatoio.
Non mi è mai toccato il
lavoro di raccolta delle foglie, forse il più duro, in mezzo all’acqua. Ho
sempre lavorato alle stanghette e al passamano. Nell’essiccatoio, la parte più
difficile, era quella di arrampicarsi in alto, salendo lungo i travicelli di
legno, per sistemare le stanghette piene di foglie di tabacco, senza cadere come
peri.
Mi è andata bene,
perché c’erano sempre i più coraggiosi che amavano il rischio e preferivano le
inebrianti altezze dell’essiccatoio al vile terreno, dove stavano i semplici
passatori.
Ricordo che c’erano
tante donne, contadine forti, dalla lingua sciolta, dai volti prematuramente
invecchiati. Mangiavano all’aperto, senza tavoli o sedie, come animali e a noi
cittadini questo sembrava intollerabile. I modi erano sempre bruschi e decisi,
ma anche questo era utile alla nostra esperienza.
Il rapporto si interruppe
all’improvviso, allorché un ispettore del Consorzio sollecitò l’azienda a
fornire a chi lavorava nell’essiccatoio caschi e cinghie per una maggiore
sicurezza. La mattina dopo, i sorveglianti trovarono una scusa per licenziarci
tutti. Era chiaro che il padrone non voleva spendere soldi per la sicurezza di
pochi studentelli. Il giorno dopo, insieme ad un compagno, andai a prendere con il
mio scooter Capri 70 le buste paga di tutti gli altri. E così finì la breve
stagione del tabacco.
Iniziai subito dopo la raccolta
delle mele, nei campi di Zevio. Il lavoro era meno pesante: con scale alte, a treppiede, dovevamo raccogliere le mele e riempire i cesti. Non ricordo
quanto ho lavorato lì, non credo molto. Ricordo bene la sensazione di umidità
dei campi all’alba e la leggera nebbiolina che li ricopriva. Poi, ogni tanto,
si mangiava una mela, stando attenti a non essere visti dai sorveglianti, che
controllavano il nostro lavoro.
E così finì la mia prima
e unica esperienza agricola da lavoratore.
Trimestrale alle Poste
Allora, gli studenti
potevano chiedere di lavorare per 3 mesi alle Poste. Ho fatto questa esperienza
varie volte, dopo essermi iscritto all’Università. Eravamo i cosiddetti
trimestrali, utili soprattutto nei mesi estivi per dare il cambio al personale
di ruolo.
Ho lavorato alla Stazione
Porta Nuova, spesso in turni notturni, in un ambiente squallidissimo,
illuminato da forti luci al neon. Dovevamo inserire le lettere in appositi
casellari, a seconda della destinazione, spostare i carrelli pieni di sacchi di
iuta che contenevano la corrispondenza. Qualche volta andavamo lentamente
all’ultimo binario della stazione, dove arrivava il “Legnago”. Il capo ci diceva
di non fare in fretta. Posteggiavamo il carrello, ci guardavamo intorno e poi
cominciavamo a scaricare i sacchi dal treno per riempire il carrello. Finito
questo lavoro, con calma portavamo il carrello alle tettoie dove veniva
depositata la posta. C’erano dei tipi vestiti con grembiuli grigi, velocissimi
nello smistamento. Durante le lunghe notti, si scherzava molto e c’era sempre
un personaggio che veniva sbeffeggiato di continuo e diventava
un passatempo, contro la noia notturna. Dopo il turno notturno si aveva diritto
ad un giorno e mezzo di riposo.
Non so quanti periodi ho
fatto come trimestrale, ma ho lavorato anche nel palazzo ottocentesco delle Poste centrali. Alla mattina facevo il portinaio e dovevo aprire il grosso
portone ai furgoni, qualche volta uscivo con il furgone carico di valori da
depositare nei vari uffici. Eravamo scortati dalla polizia e questo ci faceva
sentire il peso della responsabilità: Arrivati ad un ufficio postale periferico
dovevamo scendere e consegnare o ritirare il sacchetto che conteneva i valori. Poi
si ritornava alla sede centrale e si depositavano i sacchetti con i valori che
avevamo ritirato. Questo era l’aspetto piacevole del lavoro, ma l’impegno
principale e più pesante era quello di fare la guardia notturna nel palazzone
delle Poste. Dalle 22 alle 6 restavo da solo in uno stanzone al piano terra,
pieno di sacchi di iuta. Ogni ora avrei dovuto fare il giro di tutto il
palazzo, scendendo prima nelle cantine buie, per poi risalire agli altri piani,
passare nei corridoi deserti degli uffici e poi arrivare in alto all’ultimo
piano delle soffitte, passando dietro al grande orologio sulla facciata di Piazza
delle Poste. Da lì scendevo di nuovo e tornavo alla mia stanza. Avevo una pila
e mi ero portato anche una radio a transistor per farmi compagnia, ma poi mi
avevano detto di non usarla più perché dava fastidio ai vicini. Naturalmente
per comprovare il mio passaggio durante i controlli, dovevo utilizzare degli
orologi marcatempo, posti ai vari piani. Ma la prima cosa che mi avevano detto,
quando mi avevano spiegato i miei compiti, era che in un cassetto c’era la
chiave degli orologi, con la quale avrei potuto aprirli, far ruotare il
cartoncino all’interno e marcare tutte le ore, facendo un unico giro.
Nel mondo dei libri
Dopo l’esperienza di
trimestrale, ho fatto qualche lavoretto per pochi giorni, come commesso in una
libreria, mi pare fosse la Libreria Cortina, in centro. E’ stato durante il
periodo natalizio e mi sentivo completamente inetto, non conoscendo i libri e non
sapendo cosa consigliare ai clienti che chiedevano: “Dovrei fare un regalo,
cosa mi consiglierebbe?”. Penso di aver sudato molto in quei giorni, anche se
era inverno.
Sempre nell’ambito dei
libri, ho lavorato per qualche tempo in un magazzino di un’agenzia libraria.
Bisognava fare pacchetti di copie saggio da inviare alle scuole. Era un bel
lavoro manuale, in mezzo alla carta da pacchi, allo spago e al nastro adesivo.
Una volta preparati i pacchi, bisognava attaccare le etichette con gli
indirizzi e pesarli per calcolare la tariffa postale: Infine io e il mio
collega, molto più esperto, caricavamo i pacchi su un furgoncino e li portavamo
alle poste per la spedizione.
Termotecnico
Prima e dopo il servizio
militare, che ho fatto nel 1974, ho lavorato per qualche anno nello studio termotecnico
di mio papà, il famoso Studio Termotecnico Fianco Gerardo. Lui è stato uno dei
primi a lavorare in questo settore e ad iniziare un’attività libera
professionale. Lo studio si trovava inizialmente in Via Giovanni della Casa, poi si è
trasferito in Piazza Renato Simoni, poco distante. E’ lì, in un appartamento al
5° piano che ho cominciato a fare pratica. Si progettavano impianti di
riscaldamento ed era un lavoro anomalo per un liceale classico, attratto
dagli studi umanistici. Eppure ero riuscito ad imparare qualcosa: disegnavo con la
penna a china sui lucidi, riportando le piante degli edifici, facevo i calcoli
delle chilocalorie necessarie per ogni stanza, dimensionavo la potenza termica
della caldaia, il numero di elementi dei radiatori, i metri di tubo di rame.
Tutto veniva poi riportato sul disegno dell’edificio e, infine, si preparava l'elenco dei materiali, il famoso computo metrico, per quantificare la spesa, in modo che
l’idraulico fosse in grado di fare il preventivo.
Ho imparato molti termini
nuovi in questo lavoro: monotubo, valvole, sfrido (quello che avanza dalla
lavorazione dei tubi), elementi, valvole e detentori, pompe, disegno esecutivo,
coefficienti di dispersione, eliografia (per fare le copie dei disegni partendo
dai lucidi). Non era un lavoro difficile e il fatto di utilizzare le mani, per
i disegno a china e vari tipi di macchine lo rendeva vario e interessante. Si
usava la macchina da scrivere, con la carta carbone per le copie, la
calcolatrice per fare i calcoli. Mio papà usava uno strumento che solo lui era
in grado di interpretare: il misterioso, per me, regolo calcolatore.
In seguito arrivarono
altri strumenti sempre più avanzati, prima il Commodore 64, il precursore dei
successivi Personal computers. Funzionava con un lettore di cassette
magnetiche, per caricare i programmi. Naturalmente era lentissimo, ma la sua
schermata blu era affascinante: Quando sono
arrivati il Commodore e gli altri PC, con il linguaggio DOS, il mondo è
cominciato a cambiare. Veniva utilizzato prevalentemente per il calcolo e
ricordo di avere preparato un software veramente elementare, con le istruzioni “if
… then”, per calcolare gli impianti monotubo. Ero talmente preso che, pensando
a come risolvere i problemi, a volte andavo in ufficio di notte, se mi veniva
in mente qualche idea.
Lo studio termotecnico
era frequentato prevalentemente da idraulici, che entravano talvolta con le
loro tute dall’odore ferroso. Venivano anche molti rappresentanti delle ditte
fornitrici di caldaie, termosifoni, valvole, pompe, ecc.
Oltre a mio padre, c’era
anche mia sorella e un geometra (Zanollo), che sono restati quasi fino alla
fine dell’attività dello studio. Ad un certo punto, anche per
l’aumento della concorrenza dei dopolavoristi, il lavoro cominciò a diminuire e
lo studio non fu più in grado di garantire gli stipendi. Sarebbe stato
necessario un salto di qualità, un passaggio dalla sola progettazione alla
realizzazione degli impianti, ma questo salto non si realizzò e così,
lentamente, iniziò una fase di decadenza.
Per fortuna, prima della
fase discendente, cominciai a fare tutti i concorsi che venivano banditi in
quel periodo, tra i quali, quelli per impiegato alle poste e per impiegato
all’università. In entrambi i casi le prove si erano svolte a Padova.
Facchino all’ortofrutta
Subito dopo il servizio
militare, terminato poco prima della nascita di mio figlio Andrea il 5 dicembre
1974, iniziò uno dei periodi più tristi della mia vita, soprattutto per la
mancanza di lavoro. Alla fine, fui assunto da una cooperativa al Mercato ortofrutticolo,
in Borgo Roma. Mi alzavo all’alba, quando fuori era ancora buio, e raggiungevo
il mercato in motorino. Si cominciava, in genere, a scaricare i camion arrivati
dal sud, in un’enorme piazzale. Qualche volta ci regalavano un cavolfiore o
altra verdura. Poi si dava una mano a scaricare cassette all’interno del
mercato, dove si trovavano i box dei vari venditori all’ingrosso e, molto
spesso, venivamo mandati a scaricare i treni merci pieni di arance siciliane.
Si utilizzava una pala molto larga, per riempire le cassette e ci
voleva più di una giornata per svuotare un vagone. Avevamo degli spessi guanti
da lavoro per spostare le cassette, che venivano poi trasportate dai muletti
sui camion e nei magazzini.. A volte, per dissetarci, mangiavamo le arance. Non
c’era un orario: dipendeva dalle richieste di lavoro e ogni giorno il capo
della cooperativa ci diceva cosa dovevamo fare e ci mandava a casa quando
avevamo finito. Proprio per questo, la paga era variabile, a seconda delle ore
effettivamente lavorate.
Ho lavorato lì solo un
mese e mi ero fatto, in quel periodo, dei bei muscoli. Ricordo che, quando
finivo, mangiavo enormi porzioni di pasta, condite con ragù e grana, nella
trattoria dei miei suoceri a Dossobuono. Alla fine del mese di lavoro, ripresi
il lavoro di termotecnico da mio padre.
Impiegato alle poste
A partire da febbraio
1980, dopo aver ricevuto la comunicazione che avevo vinto il concorso alle Poste,
fui assegnato all’Ufficio postale di Volargne. Iniziava così, sia pure in ritardo
rispetto a tanti miei coetanei un lavoro in un posto fisso. Non più trimestrale
o lavoratore in nero, ma assunto a tempo indeterminato in un piccolo ufficio
della provincia. C’era una Direttrice molto alla buona, nei primi tempi e anche
suo marito lavorava alle Poste, ma in un altro ufficio. Un lavoro molto
standardizzato, in cui era importante seguire delle routine prefissate, con
interminabili compilazioni di moduli.
Alla mattina, arrivavano
i sacchi con la corrispondenza e il postino cominciava a sacramentare perché a
Volargne arrivava tanta posta per le ditte dei marmi e, invece, “ a quel del
Dolcè e de Brentino ghe ariva quatro letere in croce”. Come quasi tutti i
postini, nonostante le lamentazioni mattutine, fisse come le preghiere, aveva
il tempo di fare un altro lavoro a tempo perso, il suo era l’antennista. La
posta veniva timbrata con energia e si sentiva il forte rumore dei timbri,
percussioni che avevano un certo ritmo. Una volta esaurito questo rito
mattutino, prendevo posto ad uno degli sportelli: a turno si lavorava alla corrispondenza
(raccomandate, assicurate, ecc.) oppure, e questo era il lavoro più pesante, al
Banco posta, dove si ricevevano i bollettini di pagamento, si pagavano le
pensioni e si gestivano i risparmi.. Il pagamento delle pensioni, che veniva
fatto a giorni prefissati a seconda delle categorie di pensionati, era un
momento topico dell’ufficio. Gli anziani venivano all’alba, si mettevano in
coda e poi, dopo aver apposto, spesso a fatica, la loro firma, ritiravano i
soldi. Talvolta, mettevano una parte della pensione sul libretto postale oppure
compravano, spesso con aria furtiva, per non farsi vedere dagli altri, dei
buoni postali.
Le più allegre tra i
pensionati erano le vedove, che chiacchieravano e ridevano, mentre aspettavano
il loro turno. Qualcuna ci portava qualcosa in regalo, a me è capitato più
volte una specie di VOV fatto in casa, con le uova e il marsala..
A volte i bollettini
preferivo compilarli io, piuttosto di continuare a ripetere che mancava
l’importo scritto in lettere o la data. Ma non mi pesava, perché ho sempre
avuto la strana passione dei moduli.
Era invece noiosissima la
gestione del risparmio, specialmente quando si dovevamo estinguere dei libretti
o dei buoni: tanti registri e moduli da compilare con precisione. Quando era il
periodo di maturazione degli interessi sui libretti postali, c’era una certa
frenesia, come se si fosse trattato di una vincita e qualcuno chiedeva “quanto
elo quel che va su?”, per sapere cosa aveva “guadagnato” dal suo risparmio.
C’erano anche
molti pacchetti da spedire, soprattutto all’estero, in prevalenza campioni di marmo, spediti dalle ditte della zona. Bisognava pesarli, calcolare
la tariffa estera, verificare il cambio con la lira e, infine, attaccare i
francobolli e le etichette.
I clienti fissi, cioè le Ditte, erano quasi tutti “casellisti”, cioè avevano una casella dove mettevamo
la loro corrispondenza, che le impiegate venivano a ritirare ogni giorno.
Un'altra cosa
interessante erano i telegrammi, che si trasmettevano a voce ad un ufficio
centrale, dopo aver fatto compilare il testo al cliente, aver conteggiato le
parole, per stabilire l’importo.
A Natale, l’ufficio si
riempiva di pandori, bottiglie o panettoni, che ci venivano consegnati dalle
impiegate delle Ditte e che noi ci dividevamo alla fine.
I periodi più impegnativi
erano quelli della chiusura dei conti alla fine di ogni giornata e, più ancora,
alla fine dell’anno. I conti dovevano tornare al millesimo, per cui si passava
ore , nel caso i conti non tornassero, a controllare e ricontrollare le
ricevute ed i moduli e a contare i soldi. Nel periodo di chiusura annuale, da
dicembre a gennaio, si doveva chiudere il bilancio dell’anno precedente,
chiudere i registri e riaprire quelli del nuovo anno.
Un altro passaggio delicato
era la preparazione dei contanti da spedire alla Cassa centrale; in questo caso
c'era il rito dello spago e della ceralacca. I soldi, prelevati dalla cassaforte, venivano avvolti in un
pacchetto di carta grigiastra da pacchi, poi legati con lo spago e sigillati
con la ceralacca rossa, fatta sciogliere in un piccolo pentolino sul fornello
elettrico. Si scriveva in cifre e in lettere l’importo e poi con il grosso
timbro di rame, si imprimeva il sigillo sulla ceralacca ancora morbida.
Durante i miei due anni,
la prima Direttrice è andata in pensione ed è stata sostituita dalla collega
più anziana, che si chiamava Anna. Un tipo più duro e pignolo, che lasciava
meno correre sugli sbagli miei e di Lia, l’altra impiegata.
Ho fatto anche delle
sostituzioni in altri uffici ed era una cosa che mi piaceva, perché mi
permetteva di cambiare e di conoscere altri ambienti: sono stato a Pescantina,
in un ufficio grande e sempre affollato, poi a Dolcè e a Cavalo,
uffici dove non entrava quasi nessuno e si potevano passare mattinate intere a leggere
e, infine, alle Golosine, un altro grande ufficio, dove non si aveva molto tempo
per distrarsi.
Una volta, sono andato
anche in un ufficio volante, alla Fiera del Marmo di Sant’Ambrogio di
Valpolicella, dove ho potuto utilizzare una telescrivente, per inviare dei
messaggi da parte degli operatori della fiera,.
L’ufficio di Cavalo è
quello che mi ha più colpito. Il postino arrivava verso mezzogiorno, alla stessa ora della corriera con la corrispondenza: c’erano al massimo una
decina tra lettere e raccomandate, per cui penso che la distribuzione della
posta durasse al massimo un’ora. Poi chissà cosa faceva il postino: in teoria avrebbe
potuto lavorare da un’altra parte e distribuire la posta a tempo perso. Non era
male il lavoro di sostituzione, che permetteva di lavorare in uffici diversi e
c’era chi copriva quasi continuativamente il ruolo di jolly e si presentava
negli uffici, per sostituire persone assenti.
Un evento stressante era
l’ispezione. Poteva capitare in qualsiasi momento e durava circa una settimana:
gli ispettori controllavano tutte le carte, i moduli, i registri, il contante
nella cassaforte e poi stendevano il verbale. L’ispezione era obbligatoria in
caso di rapina, ma, per fortuna non è mai successo nel nostro ufficio.
Impiegato e bibliotecario all’Università
Mentre lavoravo già da
due anni alle Poste, con la prospettiva di chiedere prima o dopo un
avvicinamento alla città, mi arrivò la comunicazione che avevo superato un
vecchio concorso per impiegato all’Università, che avevo fatto a Padova, e che
serviva per coprire alcuni posti all’Università di Verona, allora sede staccata
di Padova.
Avevo poco tempo per
decidere e per scegliere. Andai a Padova per capire dove sarebbe stato il mio
posto di lavoro e che cosa avrei dovuto fare. A Padova mi dissero che il posto
riguardava la Cattedra di Psicologia Medica, presso l’Istituto di Psichiatria,
al Policlinico di Borgo Roma.
Mi avevano dato anche il
numero di telefono del mio futuro capo, il professor Michele Tansella. Ricordo
che chiamai da Padova e mi disse di decidere in fretta e di essere disponibile
ad un incontro per illustrarmi il lavoro.
Le decisioni di questo
tipo sono sempre stressanti, perché comportano un cambiamento di vita e di
abitudini. Da una parte c’era un lavoro che ben conoscevo, un po’ noioso, ma
accettabile, nel quale mi sentivo spesso utile agli altri, dall’altra un
terreno sconosciuto, un nuovo ambiente, con nuove persone.
A favore dell’Università
giocava il fatto che il posto era in città, vicino alla casa di santa Lucia dove
allora abitavo, in un ambiente più vicino ai miei interessi,
visto che ero intenzionato a concludere il mio
lungo e travagliato percorso di studi.
Dal punto di vista
economico, avrei preso uno stipendio inferiore, perché alle Poste, c’erano
molte voci accessorie, che mancavano all’Università.
Per avere più chiaro cosa
fare, prima di accettare, decisi di andare a vedere il nuovo posto e di parlare
con il mio futuro capo.
Arrivai alla segreteria dell’Istituto di
Psichiatria, al primo piano del Policlinico, dove incontrai la storica segreteria Marzia, Giuliano, infermiere tuttofare, e il signor Gino, il
bidello. In verità, mi parve subito un posto strano, dove sembrava che, a parte
la segretaria che batteva a macchina senza mai interrompersi, gli altri non fossero molto presi dal lavoro. Poi quando arrivarono i medici, dopo le
riunioni del mattino, questa sensazione mi apparve ancora più chiara.
Chiacchiere, telefonate personali: insomma un clima allegro e spensierato.
Naturalmente il contrasto con il lavoro delle Poste, continuo e senza pause,
con la coda degli utenti davanti, con i conti da chiudere, la posta da
smistare, ecc ecc, mi sembrò enorme.
Il Direttore era il
Professor Balestrieri, ma il vero motore
organizzativo era il mio capo. Nel colloquio con lui ebbi una sensazione
favorevole: una persona concreta e pratica, che mi fece capire cosa si
aspettava da me e mi mostrò anche la stanza del mio futuro ufficio, che allora
veniva condivisa con il medico di guardia, che, alla sera dormiva in un divano
letto.
I lavoro era
prevalentemente di tipo amministrativo e contabile: bisognava fare gli ordini
del materiale, compilare i moduli di pagamento, allegare fatture e bolle,
inventariare gli acquisti. Allora l’Università era ancora organizzata in
Istituti ed io lavoravo all’Istituto di Psichiatria. I moduli di pagamento
venivano inviati alla Ragioneria, che aveva il compito di controllare la
correttezza dei mandati. Accanto a questo lavoro amministrativo, c’era anche un
lavoro di supporto alla ricerca che consisteva nel battere a macchina articoli
scientifici o libri, cercando di decifrare le calligrafie dei professori. Gli
strumenti di lavoro erano prevalentemente macchine da scrivere,
che, nel corso degli anni si erano evolute, passando dalle macchine senza
correttore (famosa l’IBM a pallina rotante), per le quali si utilizzava il "bianchetto", a quelle che avevano dei nastri che permettevano la
correzione e, infine, a quelle che mostravano, in un visore, il testo prima di
procedere alla battitura.
Per fortuna, nell’Istituto c’era una piccola
Biblioteca, a cui il Prof Balestrieri teneva molto. Mi diedero l’incarico di
gestirla e cominciai, da autodidatta, a studiare i sistemi di catalogazione ed
i primi elementi di biblioteconomia. Era questo il lavoro che più mi
affascinava, considerando il mio amore per i libri. Gradualmente, ho cominciato
a mettere in secondo piano il lavoro amministrativo-contabile e ad impegnarmi
maggiormente nel lavoro di Biblioteca, fino ad ottenere di assumere anche
formalmente la qualifica di bibliotecario.
Un altro lavoro che ho
sempre mantenuto è quello di gestione delle bibliografie, dapprima utilizzando
le macchine da scrivere e, successivamente utilizzando i programmi dei
computers.
Il Prof. Tansella, per
fortuna, cercò sempre di stare al passo con i tempi, nella dotazione tecnologica, e
non appena ci fu la possibilità realizzò, all’interno dell’Istituto il
passaggio alle nuove tecnologie elettroniche. Ho vissuto, in quel periodo, una
vera rivoluzione, dal punito di vista tecnologico: non più macchine da scrivere
elettriche, bianchetti, correttori, non più tabelle fatte con i punti
esclamativi per le righe verticali. Un nuovo mondo si apriva nel lavoro, magari
con qualche fatica iniziale, per imparare le nuove istruzioni, un mondo che rapidamente
evolveva, richiedendo a tutti di essere aperti e curiosi.
Il primo Computer, che
era in realtà un semplice elaboratore di testi, fu il Compucorp, prodotto da
una ditta irlandese, con il quale si poteva scrivere e stampare, con la
possibilità di memorizzare i testi sui cosiddetti floppy disk e di correggerli.
Le prime stampanti erano
le rumorosissime stampanti ad aghi, con la carta a righe, a modulo continuo.
Questi strumenti
consentivano di elaborare i testi, con dei software di videoscrittura: allora i
programmi si chiamavano Word Star, ma il più usato fu senz’altro Word Perfect.
In seguito arrivarono i
primi PC dell’IBM, prima con i floppy disk e poi con i dischetti più piccoli.
Da quel momento in poi fu
una continua evoluzione degli strumenti, con un costante miglioramento delle
macchine, dal punto di vista della memoria e delle prestazioni. Arrivarono le
nuove stampanti, più silenziose, con le cartucce toner, le nuove fotocopiatrici.
Soprattutto il software ebbe un’evoluzione rapida e continua, sia nei programmi
di videoscrittura (Word, Office), sia nei programmi di gestione bibliografica,
come Reference manager.
Anche il lavoro di
Biblioteca ebbe delle notevoli trasformazioni: si passò dai vecchi schedari a
schede cartacee, scritte a macchina, ai primi programmi computerizzati che
consentivano di gestire il catalogo su PC. Il primo programma si chiamava
SINBIB ed era utilizzato solamente dalla Biblioteca di Psichiatria. In seguito,
ma molto rapidamente, si giunse al primo Catalogo online di Ateneo (OPAC), con
il software Aleph e incominciarono ad apparire le riviste online e le banche
dati. Il passaggio dalla carta alle risorse elettroniche ha rappresentato un
rivoluzione nel mondo delle Biblioteche. Il lavoro di catalogazione, che era
preponderante tra i vecchi bibliotecari, divenne secondario, mentre acquisirono
importanza le capacità di gestire risorse elettroniche e banche dati. Mi
piaceva catalogare e amavo conoscere e applicare le regole, anche se mi rendevo
conto che, spesso, prevaleva l’autoreferenzialità e la pignoleria, a danno
della praticità e delle esigenze degli utenti. Per questo, ho cercato di
interessarmi alla formazione degli utenti e a preparare corsi sulle banche dati,
sulla ricerca delle informazioni, ecc. Credo che le capacità formative e di
supporto dei bibliotecari siano gli unici elementi che debbano essere
sviluppati per dare uno scopo al loro lavoro. E’ un settore interessante ed
appassionante e sono contento di aver fatto tanti seminari per gli studenti,
gli specializzandi e i dottorandi su Pubmed, in particolare, e su altre banche dati.
Un altro elemento di
novità nelle Biblioteche è stato l’introduzione degli scaffali Compact, che
hanno permesso di poter immagazzinare molti volumi, risparmiando spazi.
Nel corso del tempo, i
miei interessi per la storia e per la storia della psichiatria, in particolare,
mi portarono dapprima a laurearmi con una tesi sulle origini del vecchio
manicomio di San Giacomo di Verona e poi alla pubblicazione del libro “L’asilo
della maggior sventura” La tesi sul manicomio è stata, come diceva Umberto Eco,
“come il maiale”: non ho buttato via niente. E’ diventata libro e poi da questo
interesse è nata l’idea di organizzare l’Archivio storico della psichiatria
veronese, poi un convegno, una mostra fotografica, una raccolta di
testimonianze orali, articoli per altre pubblicazioni. Una delle cose di cui
vado più fiero è proprio la costituzione dell’Archivio e il salvataggio delle
cartelle cliniche, trasportate in un posto sicuro.
Un altro lavoro
interessante è stato quello di gestire il sito web della Psichiatria,
utilizzando un programma che si chiama Dreamweaver, che gestisce le pagine in
formato html. Ho fatto un’utile esperienza, sia per quanto riguarda
l’aggiornamento delle informazioni, sia per la creazione di pagine nuove.
Dal 1982 ad oggi, sono
stati 30 anni continui prima nell’ufficio al primo piano della Psichiatria, poi
per poco tempo in alcune stanze accessibili dall’atrio del lato A del
Policlinico e, infine, nel mio ufficio vicino alla Biblioteca, presso la Palazzina esterna, nell’ex
padiglione dell’osservazione maschile del vecchio San Giacomo. Una sede più
volte ristrutturata e ampliata, dopo avere guadagnato l’ala occupata di
cappellani.
Altri lavori
Nel corso del mio lavoro
principale all’Università, dal 1982 in poi, ho fatto altri lavori, alcuni
concomitanti, altri, come quello di insegnante hanno rappresentato una vera e
propria parentesi.
Tra i lavori
concomitanti, c’è quello di redattore di bozze, in collaborazione con redattori
e grafici della Mondadori. Un bel lavoro, molto interessante, fatto prima della
rivoluzione digitale, quando i grafici lavoravano con la carta, la taglierina e
la colla. Ho collaborato al controllo editoriale di enciclopedie, manuali, alla
scelta delle fotografie che arrivavano in diapositiva. I miei strumenti erano,
naturalmente, altre enciclopedie per controllare i dati che venivano riportati,
la penna rossa per fare le correzioni, usando i simboli dei correttori di bozze
e il tipometro, che serviva per misurare le righe di testo, per poter
impaginare, secondo il formato e lo spazio della pagina.
Questa esperienza mi è
servita anche nel mio lavoro all’Università, dove ho fatto il redattore per la
rivista “Epidemiologia e Psichiatria Sociale”, diretta dal Prof. Tansella. Un
lavoro che richiedeva un attento controllo per uniformare i testi secondo lo
stile della rivista, per controllare i riferimenti bibliografici, prima di
inviare i dati al’Editore.
Anche in questo caso
utilizzavo i simboli del correttore di bozze, segnandoli con la penna rossa.
Ma il vero iato, all’interno
del lungo periodo universitario, è stata l’esperienza dell’insegnamento, durata
un anno intero. All’inizio è stato un vero e proprio shock, già dal momento in
cui mi era stato comunicato che ero stato chiamato dalla vecchissima
graduatoria del concorso di abilitazione.
Ho cominciato ad ottobre 1996
all’Istituto alberghiero “A. Berti”, al Chievo e, fin dall’inizio, è stata
un’esperienza traumatica, in quanto non avevo alcuna esperienza in quel lavoro,
anche se, probabilmente, se avessi incominciato da giovane, sarebbe stato senza
dubbio il mio lavoro.
Avevo due classi, una
prima e una seconda (I e II B per la precisione) e commisi subito l’errore di
presentarmi come “insegnante democratico”, avendo come riferimento la mia
esperienza di studente di tanti anni prima. Inevitabili gli errori, ma vanno
addebitati all’insipienza e alla stupidità di chi assegna le cattedre, cioè un
lavoro delicatissimo, a persone inesperte, senza prevedere alcuna risorsa per
facilitare l’inserimento e per condividere le esperienze più avanzate. Ho
capito, da questa esperienza, quanto la scuola avrebbe bisogno di una riforma
profonda, che premi e valorizzi gli insegnanti più capaci e rimuova quelli che
tirano a campare. Mi ha molto colpito constatare di essere stato l’unico
insegnante che arrivava alla mattina con un quotidiano. Inoltre, ho percepito
la “povertà” delle risorse della scuola rispetto a quelle dell’ambiente
universitario da dove provenivo, nel quale, invece, abbondavano e talvolta si
sprecavano le risorse. Difficoltà di fare fotocopie, di utilizzare i PC, di
avere altre utili dotazioni tecnologiche. Insomma, una situazione di grande
arretratezza e di depressione.
E’ stata, comunque, un’esperienza
che non rinnego: mi ha fatto conoscere una ambiente diverso ed ho potuto
apprezzare, alla fine, le lunghe vacanze estive.
Verso la conclusione
E ora? Mentre conto i
giorni che mancano al mese di maggio 2013, voglio raccogliere le parole che
hanno caratterizzato questi ultimi anni, per ricordare gli strumenti e le risorse
che mi hanno accompagnato per tanti anni.
La più importante è “Biblioteca”, che raccoglie tutte le
parole tecniche dei diversi servizi, come catalogazione, prestito,
consultazione, ricerca bibliografica, formazione degli utenti, collocazione,
ordine, consistenza, ecc.. Ma anche tutti gli strumenti, a partire dal
programma Aleph, che permette di gestire e di garantire i servizi delle
biblioteche. Qualcosa di fisico rimane ancora ed è costituito dalle etichette
che si incollano ancora sul dorso, dai pennarelli per scrivere la collocazione,
dagli scaffali. Ma sempre più la Biblioteca “si digitalizza”, soprattutto nel
settore scientifico: i libri cartacei si riducono, le riviste scompaiono dagli
scaffali, le rilegature sono sempre meno.
Chissà se tutto questo
mondo sarà destinato a scomparire, così come sono scomparsi da tempo i classici
strumenti dei bibliotecari come le schede cartacee e gli enormi schedari in
legno. Le piccole biblioteche, come la mia, scompariranno o saranno sempre meno
utilizzate. I bibliotecari resteranno
pochi e dovranno cambiare le loro competenze: conoscere molto bene gli
strumenti elettronici e avere capacità di formazione e di orientamento nei
confronti degli utenti.
L’altro grosso settore,
simile alla Biblioteca, è quello che riguarda l’Archivio storico della Psichiatria. Qui le parole sono: cartelle
cliniche, schedari, scaffali, registri, libri antichi, deumidificatori (per eliminare l’umidità dei
locali), fotografie. Ci sarebbe bisogno di un lavoro di archivio e poi di un
lungo lavoro di schedatura delle cartelle. Ma le risorse sono scarse e, al
momento non ci sono prospettive di valorizzare questo patrimonio storico.
Infine, gli altri lavori:
il sito web, la gestione delle bibliografie e dei “prodotti” della ricerca, la
redazione di EPS. Tutti lavori che non
hanno più bisogno di strumenti fisici e materiali, a parte il PC e la
stampante. Lavori immateriali, che producono informazioni e mettono insieme dati.
In conclusione, per sintetizzare queste mie esperienze, posso dire di aver
vissuto un’epoca di passaggio e di grande trasformazione, il cui esito appare incerto
e imprevedibile: il passaggio rapido e costante dal materiale all’immateriale, da
un ambiente fatto di cose ad un ambiente fatto di bit.
FINE
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