La Grecia : biografia di una nazione moderna / Roderick Beaton ; traduzione di Daniela Salusso. - Torino : Einaudi, 2023 (La Biblioteca ; 91). - XIV, 475 p., [19] carte di tav. : ill. ; 22 cm .
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Incipit
Sono un uomo malato… Sono un uomo maligno. Non sono un uomo attraente. Credo che mi faccia male il fegato. Del resto, non me n'intendo un'acca della mia malattia e non so con certezza che cosa mi faccia male. Non mi curo e non mi sono curato mai, sebbene la medicina e i dottori li rispetti. Inoltre, sono anche superstizioso all'estremo; be', almeno abbastanza da rispettare la medicina. (Sono sufficientemente istruito per non esser superstizioso, ma sono superstizioso). Nossignori, non mi voglio curare per malignità. Voi altri questo, di sicuro, non lo vorrete capire. Ebbene, io lo capisco. S'intende che non saprei spiegarvi a chi precisamente io faccia dispetto in questo caso con la mia malignità; so benissimo che anche ai dottori non posso in nessuna maniera "fargliela" col non curarmi da loro; so meglio d'ogni altro che con tutto questo danneggio unicamente me stesso e nessun altro. Ma tuttavia, se non mi curo, è per malignità! Se mi fa male il fegato, ebbene, mi faccia pure ancora più male!
Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij è un romanzo breve del 1864 che segna una svolta nella carriera dell'autore, anticipando temi cruciali che svilupperà nei suoi capolavori successivi. Questo testo, spesso considerato una delle prime opere esistenzialiste, affronta con brutalità e profondità i dilemmi psicologici e filosofici dell'uomo moderno, esplorando il maschile interiore, l'angoscia esistenziale e la ribellione contro le convenzioni sociali e morali.
Trama e struttura
Il romanzo è diviso in due parti principali: 1.
Prima parte: il monologo del "sottosuolo"
Qui il protagonista, un uomo di circa quarant'anni che vive isolato, si rivolge direttamente al lettore in un monologo interiore frammentato e aspro. Si autodefinisce un "uomo malato", un individuo alienato dalla società, che si ribella contro il razionalismo e l'idea che l'uomo agisca sempre per il proprio interesse. Esprime la convinzione che l'essere umano sia mosso anche da impulsi irrazionali, come la volontà di autodistruzione e il piacere del dolore.
Seconda parte: L'incontro con Liza
In questo dialogo, il protagonista sembra voler assumere una posizione di potere morale, ma presto emerge la sua vera natura: egli non desidera aiutare Liza, ma affermare il proprio dominio su di lei, nel disperato tentativo di sentirsi superiore a qualcuno. Successivamente, Liza, colpita dalle sue parole, va a cercarlo nella sua casa, sperando in una redenzione o almeno in un qualche tipo di legame umano. Tuttavia, quando Liza arriva, il protagonista la umilia e la respinge, comportandosi in modo crudele e insensibile, rivelando la sua incapacità di stabilire relazioni autenticheLiza è una figura simbolica: rappresenta una speranza di redenzione e di connessione per il protagonista, ma il suo comportamento autodistruttivo lo spinge a respingere qualsiasi possibilità di cambiamento o di felicità. Il momento in cui Liza se ne va, ferita e umiliata, è uno dei punti più tragici del romanzo, poiché dimostra come il protagonista sia incapace di abbandonare il suo "sottosuolo" interiore.
La seconda parte è anche una critica alle strutture sociali della Russia zarista e alle dinamiche di potere tra le classi sociali. Il protagonista, pur essendo un impiegato di basso rango, si sforza di sentirsi superiore alle persone intorno a lui, ma la sua arroganza nasconde un profondo senso di inferiorità e di inadeguatezza. Attraverso i suoi fallimenti nelle relazioni con gli altri, Dostoevskij dipinge un ritratto impietoso dell'alienazione sociale e psicologica dell'uomo moderno.
Questa parte del romanzo serve a concretizzare le idee esposte nella prima metà. Se nella prima parte il protagonista discute concetti astratti come la libertà, il razionalismo e l’autodistruzione, nella seconda vediamo come questi si manifestano nella sua vita reale. Il suo tentativo di dimostrare la propria libertà autodistruttiva e la sua incapacità di amare o di creare legami autentici mostrano il lato pratico e devastante del suo pensiero esistenziale.
In conclusione, la seconda parte di Memorie dal sottosuolo è fondamentale per comprendere pienamente la complessità del protagonista: non solo un uomo tormentato dai propri pensieri, ma anche un individuo che distrugge attivamente qualsiasi possibilità di felicità o redenzione nella sua vita concreta. La crudezza dei rapporti umani descritti qui anticipano molti dei temi più cupi che Dostoevskij svilupperà nelle sue opere successive, rendendo Memorie dal sottosuolo una pietra miliare della sua produzione letteraria e una riflessione profonda sulla condizione umana.
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P. Giovannetti, F. Pennacchio, S. Sini: Fëdor Dostoevskij, Le memorie del sottosuolo (1864)
Pensieri / Marco Aurelio ; introduzione, traduzione, note e apparati di Cesare Cassanmagnago. - Milano : Bompiani Testi a fronte, 2017 (Bompiani Testi a fronte ; 113) - 574 p. ; 21 cm. |
"Pensieri" di Marco Aurelio (o Meditazioni come viene spesso tradotto) è un'opera filosofica scritta dall'imperatore romano Marco Aurelio durante i suoi anni di regno, nel II secolo d.C. Si tratta di una raccolta di riflessioni personali, appunti e pensieri che egli scrisse per sé stesso, per aiutarsi a condurre una vita morale e virtuosa in linea con i principi della filosofia stoica.
Stoicismo e controllo interiore Marco Aurelio è profondamente influenzato dalla filosofia stoica, che sostiene l'importanza di concentrarsi su ciò che si può controllare (pensieri, azioni, emozioni) e di accettare con serenità ciò che non si può controllare (eventi esterni, opinioni altrui). Molte delle sue riflessioni sono incentrate su come mantenere la calma e l'equilibrio interiore anche di fronte alle difficoltà della vita.
Mortalità e caducità della vita Uno dei temi ricorrenti è la consapevolezza della mortalità. Marco Aurelio riflette spesso sulla brevità della vita umana e sulla necessità di accettare la morte come un evento naturale. Invece di vedere questo come qualcosa di deprimente, l'imperatore lo considera un incentivo a vivere una vita virtuosa e significativa.
Razionalità e natura umana La razionalità è vista come la più alta qualità umana, e Marco Aurelio crede che la capacità di ragionare ci permetta di comprendere la natura e di vivere in armonia con essa. Sottolinea l'importanza di agire secondo ragione piuttosto che lasciarsi guidare dalle passioni.
La virtù come scopo della vita Essere virtuosi significa vivere in accordo con la propria natura razionale e sociale. Per Marco Aurelio, la virtù include il coraggio, la giustizia, la saggezza e la temperanza. Vivere secondo questi principi permette di raggiungere l'eudaimonia, ovvero il benessere dell'anima.
Universalità e unità dell'umanità Marco Aurelio vede l'umanità come parte di un grande tutto. Ogni essere umano è connesso agli altri e all'universo stesso. Questo concetto rafforza l'idea di vivere in accordo con le leggi della natura e in armonia con gli altri.
Il tono dell'opera è intimo e riflessivo. Marco Aurelio non scriveva con l'intenzione di pubblicare i suoi "Pensieri", ma piuttosto come un esercizio per migliorare sé stesso. Questo conferisce al testo una certa autenticità e onestà. Ogni libro all'interno dell'opera è composto da brevi aforismi o paragrafi, che possono sembrare scollegati, ma che complessivamente formano un percorso coerente di autoanalisi e crescita spirituale.
L'opera ha influenzato profondamente la filosofia occidentale, specialmente per quanto riguarda la gestione delle emozioni e il perseguimento di una vita etica. Nel mondo moderno, i Pensieri sono spesso considerati una guida pratica per affrontare lo stress, la sofferenza e le sfide personali, grazie al messaggio di accettazione e di controllo su sé stessi che il libro veicola.
"Pensieri" di Marco Aurelio è un'opera ricca di saggezza che esplora i grandi interrogativi della vita umana: come vivere con integrità, affrontare il dolore, accettare l'inevitabilità della morte e trovare pace interiore. Sebbene siano passati quasi duemila anni dalla sua scrittura, le sue riflessioni continuano ad avere una risonanza profonda, specialmente per coloro che cercano risposte pratiche e filosofiche ai dilemmi esistenziali.
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"La banalità del male" è un saggio scritto da Hannah Arendt, pubblicato per la prima volta nel 1963. Il libro è un reportage e una riflessione filosofica sul processo a Adolf Eichmann, uno dei principali organizzatori della deportazione degli ebrei durante l'Olocausto, tenutosi a Gerusalemme nel 1961. Arendt coprì il processo per il The New Yorker, e le sue osservazioni si trasformarono in un'opera che sollevò notevoli polemiche e discussioni.
Arendt descrive Eichmann non come un fanatico antisemitico o un mostro sadico, ma come un funzionario mediocre e conformista che eseguiva ordini senza riflettere sulle conseguenze morali delle sue azioni. Questo concetto viene riassunto nella famosa espressione "la banalità del male". Eichmann appare come un uomo ordinario che perpetra il male non per odio o ideologia estrema, ma per obbedienza e conformità.
Banalità del male: Il concetto centrale del libro è che il male può essere perpetrato da persone comuni che non riflettono sulle implicazioni etiche delle loro azioni. Questa banalizzazione del male implica che il male può manifestarsi attraverso atti di routine, burocratici e impersonali.
Responsabilità individuale: Arendt esplora la questione della responsabilità personale e morale in un sistema totalitario. La sua analisi solleva domande su come e perché individui normali possano diventare complici di atrocità.
Natura del totalitarismo: Il libro è anche una riflessione sul totalitarismo e su come sistemi politici repressivi possono spersonalizzare gli individui, riducendoli a semplici ingranaggi in una macchina burocratica.
"La banalità del male" fu accolta con una combinazione di ammirazione e critica. Alcuni elogiarono Arendt per la sua analisi profonda e innovativa, mentre altri la accusarono di minimizzare la responsabilità di Eichmann e di insultare le vittime dell'Olocausto. Le critiche più aspre vennero da coloro che vedevano nella sua descrizione di Eichmann un tentativo di giustificarne le azioni.
"La banalità del male" è un'opera fondamentale per comprendere la natura del male in contesti totalitari e il ruolo della burocrazia e della conformità nell'agevolare crimini di massa. Hannah Arendt offre una prospettiva provocatoria e spesso scomoda che invita alla riflessione sulla responsabilità morale e sull'importanza di mantenere una coscienza critica anche in sistemi oppressivi. Il libro rimane un punto di riferimento essenziale per filosofi, storici e tutti coloro che cercano di comprendere le dinamiche del male nella storia umana.
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https://www.youtube Ferretti (video)
https://www.youtube.com (Intus legere - Video)
www.raiplay.it (Il tempo e la storia Video)
Nel 1934 Patrick Leigh Fermor ha diciannove anni, e già da alcuni mesi si è lasciato alle spalle l'Inghilterra e un curriculum scolastico scellerato con il fermo proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli, vivendo «come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante», dormendo nei fossi e nei pagliai e familiarizzando solo con i suoi simili. Fra i boschi e l'acqua è il racconto della seconda parte di quel viaggio, e prende avvio dal punto esatto in cui era terminato Tempo di regali: il ponte di Mária Valéria, al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, che di lì a dieci anni sarà minato dai tedeschi in ritirata e mai più ricostruito fino al nuovo millennio. Ma i mille chilometri successivi – dalla Grande Pianura ungherese, lungo il corso del Tibisco e del Maros e attraverso la Transilvania, fino alle Porte di Ferro, dove collidono i Carpazi e i Balcani – aprono una parentesi idilliaca e precaria nel secolo più violento della storia: il ritmo del viaggio rallenta, il passo si fa più pigro, la percezione del tempo svanisce, come in «un felice e gradito incantesimo». Con sapienza lirica, vigore muscolare e superbo talento per la digressione, Leigh Fermor racconta incontri con cervi e boscaioli, ritrae manieri isolati e villaggi di montagna, fienagioni e favolose biblioteche, rievoca notti passate sotto le stelle e amori estivi, riferisce leggende di spiriti, fate e lupi mannari e conversazioni con un'aristocrazia votata all'estinzione. Immagini sparse che compongono un quadro dalla grazia impareggiabile e suscitano nel lettore una sorta di incantamento: segno distintivo, questo, dell’appartenenza di Leigh Fermor alla medesima dinastia di Robert Byron e Bruce Chatwin.
Tractatus logico-philosophicus / Ludwig Wittgenstein ; introduzione di Bertrand Russel ; a cura di Pasquale Frascolla e Luigi Perissinotto. - Milano : Feltrinelli, 2022 (Universale economica). - 253 p. ; 20 cm
Il "Tractatus Logico-Philosophicus" è una delle opere filosofiche più importanti e influenti del XX secolo, scritta dal filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. È stata pubblicata per la prima volta nel 1921.
Il Tractatus è diviso in sette sezioni numerate da 1 a 7 e si concentra principalmente sulla natura del linguaggio e sulla relazione tra il linguaggio e il mondo. Wittgenstein sostiene che il linguaggio ha una struttura logica profonda che riflette la struttura del mondo stesso. La proposizione 2.1 del Tractatus sintetizza questa idea fondamentale: "Il mondo è tutto ciò che accade".
Una delle idee principali del Tractatus è espressa nella famosa proposizione 7: "Di ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere". Questo principio riflette l'idea che ci sono limiti intrinseci al linguaggio e che ci sono cose che non possono essere espressi verbalmente. Wittgenstein suggerisce che queste questioni non possono essere discusse razionalmente e devono essere lasciate da parte.
Il Tractatus è anche noto per il suo stile particolare e altamente condensato. Wittgenstein utilizza simboli logici e proposizioni numerate per esprimere le sue idee in modo preciso e rigoroso. Questo stile ha portato alcuni interpreti a confrontarsi con la sua interpretazione, poiché il testo può sembrare oscuro e difficile da comprendere.
Nonostante il Tractatus abbia avuto un impatto significativo sulla filosofia del linguaggio e sulla filosofia analitica nel XX secolo, Wittgenstein stesso ha in seguito abbandonato molte delle sue posizioni in questo lavoro. Nelle sue opere successive, in particolare nel suo "Philosophical Investigations" ("Investigazioni filosofiche"), Wittgenstein sviluppa un approccio più pragmatico e antirealistico alla filosofia del linguaggio.